Pubblicato su
Huffington Post il 19/2/2017
L’infinita
soap-opera del Pd non ha dalla sua dei buoni sceneggiatori: né fra i
protagonisti, né fra gli osservatori. A una classe politica che oscilla fra
il non dare il meglio e il dare il peggio di sé fa riscontro un coro di
cronisti e commentatori che oscillano a loro volta fra la foga di descriverla
come un covo di vipere velenose e l’ansia di scongiurare una scissione che
sarebbe al meglio incomprensibile, al peggio devastante. Il bilancio della
parabola del Pd – dieci anni non ancora compiuti e vissuti molto
pericolosamente – pencola infine fra quello di un partito mai nato, di una
miscela mal riuscita e di un progetto mai decollato, a quello di un bene
prezioso e irrinunciabile, dell’unico superstite del riformismo europeo,
dell’ultima barriera della civiltà contro l’invasione dei barbari
pentastellati o trumpisti.
Tutto questo non
aiuta a capire se c’è, e qual è, la posta della partita che si sta giocando –
malamente – nel Pd, ma anche fuori dal Pd: sono aperti altri cantieri, in
primis quello del congresso di fondazione di Sinistra Italiana, e intanto non
smobilitano le reti dei comitati nati a sostegno del No al referendum
costituzionale. Si può continuare a guardare tutto questo come una commedia
recitata da attori di second’ordine, con le batterie cariche di personalismi,
ambizioni, rivincite e rancori incrociati. Oppure si può fare uno sforzo di
generosità – ce ne vuole parecchia, lo so – e alzare, quantomeno, l’asticella
delle aspettative e delle richieste, sperando che serva ad alzare anche quella
delle risposte.
Lascerei perdere,
intanto, gli scongiuri. Il fantasma delle scissioni perseguita la sinistra, e
l’invocazione dell’unità la alimenta, da quando è nata. Già questa storica
altalena dovrebbe dire qualcosa di un problema evidentemente malposto. Non
sempre la convivenza forzata è sinonimo di unità, e non sempre le divisioni
sono foriere di sciagura. Non sempre l’unità è garanzia di un’identità
riconoscibile, e non sempre le differenze condannano alla frammentazione.
Un’articolazione non settaria delle differenze è ciò che da sempre manca alla
sinistra e alla forma-partito disciplinata e disciplinare da cui la sinistra,
fra mille trasmutazioni che della forma-partito hanno buttato il bambino
tenendosi l’acqua sporca, non è mai riuscita a emanciparsi davvero.
Ma questo è un
discorso che ci porterebbe troppo lontano. Stiamo all’oggi: è possibile
guardare a quello che sta capitando non come un a un destino di
disgregazione, ma come a un’occasione di ricomposizione? E’ possibile pensare
che sia questa, e non la solita “resa dei conti” fra narcisi (uomini) in
guerra fra loro la posta in gioco della situazione? E’ possibile guardare
all’eventualità che il Pd si spezzi definitivamente come a un elemento di
maggior chiarezza, e non maggior cupezza, del quadro?
Tutto dipende,
naturalmente, dal giudizio che dell’avventura targata Pd si dà. Lo scongiuro
della scissione muove evidentemente da un giudizio positivo, o meglio dalla
convinzione che, ben realizzato o no, il progetto del Pd fosse, dieci anni
fa, la risposta giusta al problema. Varrebbe la pena ricordare che dieci anni
fa “il problema” era assai diverso da quello di oggi: in Italia c’era un
bipolarismo che pareva definitivo; la crisi mondiale del debito si annunciava
– non vista, al Lingotto - ma non aveva ancora messo in crisi il pensiero
unico neoliberale; l’opera di sistematico smantellamento delle tradizioni
politiche europee novecentesche, e segnatamente di archiviazione del bagaglio
concettuale della sinistra, era al suo apice; l’America era ancora, per
quelli che si volevano emancipare dal complesso di colpa per essere stati
comunisti a loro insaputa, un mito progressista, e l’aggettivo “democratico”
un passepartout per risolvere qualunque dilemma del presente e del futuro. Si
innamorò di quel progetto chi voleva una sinistra light, liberata da
qualunque istanza di critica anticapitalistica, completamente risolta
nell’interiorizzazione del paradigma liberaldemocratico come unico orizzonte
possibile.
Era un innamoramento
malriposto. Ma non solo per la perenne incompiutezza che avrebbe da allora in
poi caratterizzato “l’amalgama mal riuscito”, bensì per i suoi difetti
genetici. Un difetto di identità, perché dalla somma di due tradizioni
indebolite non nasceva una cultura politica riconoscibile. Un difetto di
struttura e di radicamento, perché il partito dei gazebo e delle primarie
portava in sé l’embrione del partito personale del leader. Un difetto di
progetto, perché la bandiera dei diritti, separata dalla critica dei poteri,
si sarebbe rivelata ben presto una strada aperta al loro smantellamento più
che al loro allargamento. Un difetto perfino nel nome, perché già allora era
chiaro – non c’era ancora Trump, ma Berlusconi sì – che l’aggettivo
“democratico”, in un Occidente in cui la democrazia si sfigurava partorendo
mostri, non era la soluzione ma il problema. Un difetto, infine, di
presunzione, in quell’ostinata idea, tutt’ora perdurante, che il Pd fosse “il
partito della nazione” (il termine risale ad allora) che rappresentava e
incorporava i destini dell’Italia. Il difetto stava dunque nel progetto, non
nella sua cattiva realizzazione. Il seguito della vicenda l’ha solo
aggravato, fino all’esito, estremo ma coerente, della scalata di Matteo
Renzi, con la iper-personalizzazione della leadership e la rottamazione di
ogni residua cultura politica che l’hanno caratterizzata.
Ma nel frattempo,
soprattutto, si è rovesciato il mondo, ed è collassato il sistema politico
italiano. Le sorti della globalizzazione non sono più magnifiche e
progressive. La crisi del capitalismo finanziario ha smontato da sola le
ricette neoliberali, con o senza lo zuccherino delle “terze vie” blairiane.
La destra ha cambiato natura e da liberista si è fatta protezionista. I
nazionalismi risorgono sotto la bandiera illusoria del sovranismo. E i popoli
spremuti dalla crisi e, in Europa, dall’austerity si danno voce come possono
e con chi trovano, sui una sponda e sull’altra dell’Atlantico: e tanto peggio
per chi ha aspettato Trump per accorgersene, liquidando quattro anni fa il M5S
a fenomeno effimero e transeunte e pensando di riportare il tripolarismo in
un bipolarismo forzato a colpi di leggi elettorali incostituzionali e di
riforme costituzionali sonoramente bocciate.
In un mondo così,
torna non il bisogno, ma la necessità di una sinistra. Detta o non detta,
dichiarata o sussurrata, esplicita o implicita, la posta in gioco della
scissione del Pd, e più in generale dei lavori in corso in questo così denso
fine settimana, è questa. Lo sanno benissimo i sacerdoti dello scongiuro, che
non tralasciano talk show per mostrarsi esterrefatti e scandalizzati del
riapparire dello spettro che il Pd avrebbe dovuto seppellire per sempre. La
domanda vera è quanto ne siano consapevoli invece i protagonisti dello
scontro. I quali stavolta, dentro e fuori dal Pd, sono pregati di fare sul
serio. Il compito è urgente ma tutt’altro che facile, e tutt’altro che light.
Lo dico con le parole di Carlo Galli (www.ragionipolitiche. wordpress.com)
: una sinistra di governo (e di “protezione” non securitaria della società )
che tenga conto che la globalizzazione non è passata invano dovrà essere nei
fatti rivoluzionaria, tanto è il peso delle macerie da spostare e delle nuove
istituzioni da ricostruire”. Vietato bluffare, accontentarsi di un pur
necessario cambio ai posti di comando, riproporre ricette usurate con
l’aggiunta di un 3 o 4.0, diluire nel moderatismo la radicalità necessaria.
Gli esami non finiscono mai, ma qualche volta sono ultimativi.
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mercoledì 22 febbraio 2017
Lo scongiuro della scissione
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