Tommaso Montanari, Privati
del patrimonio, pp. 166, 12 euro, Einaudi, Torino, 2015.
Francesco Indovina
ASUR (?)
L’Italia, come è noto, è depositaria di un enorme patrimonio
storico e artistico, di questo ci si pavoneggia, anche se il merito della presente generazione
è nullo, mentre a questa generazione
resta il compito di conservarlo, tutelarlo, e farlo rendere culturalmente. Lo fa? Ci sono forti dubbi.
Tommaso Montanari, in questo suo libro, molto documentato,
scritto con una verve polemica accattivante, indaga su come questo patrimonio sia
gestito e sulla perniciosa idea, che prevale ed è prevalsa all’interno di
tutti i governi, che si tratta di una ricca risorsa che deve essere sfruttata.
Non abbiamo petrolio ma il patrimonio
storico e culturale ne fa le veci. Il ministro Dario Franceschini, citandone
uno per tutti, ha detto “Penso che il ministero della Cultura sia in Italia
come quello del petrolio in un Paese arabo”. Si tratta dell’attuale ministro
della cultura, non dimentichiamolo.
Quale è il corollario di questa posizione: lo stato non ha
risorse per rendere produttivo questo patrimonio, per farlo rendere bisogna
coinvolgersi ai privati. La loro capacità manageriale potrà far rendere questo
nostro “giacimento”, solo questa collaborazione ne permetterà lo sfruttamento. Il
testo di Montanari è una puntuale denunzia degli effetti di questa mentalità e dell’ingresso
dei privati nella gestione di questo patrimonio. E non si tratta di una
posizione ideologica, vetero statalista si potrebbe dire, ma di una ragionata
documentazione che mostra come l’entrata dei privati, nelle diverse forme, da
una parte svilisce il contenuto culturale e formativo di questo patrimonio e
dall’altra parte rende solo ai … privati.
Il primo passo di questo processo che ora pare inarrestabile,
e che bisognerà arrestare, è stato compiuto quando era ministro della cultura Ronchey
che con la legge che porta il suo nome rese affidabili ai privati i così detti
“servizi aggiuntive”, ma la spallata decisiva è stata “sferrata da un
insospettabile tecnico: il sopraintendente Paolucci, divenuto ministro per i
beni culturali del governo di Lamberto Dini” che allargò le concessioni anche
ai servizi non aggiuntivi (accoglienza, informazione, guida e assistenza
didattica e di fornitura di sussidi catalografici, audio visivi ed informatici,
fino alla biglietteria e all'organizzazione delle mostre). “Per avere un’idea
delle conseguenze del passo compiuto da Paolucci basti notare che nel 2010 su
46.209.838,83 euro incassati attraverso i servizi gestiti dai privati, a questi
ultimi sono andati 40.015.164,17 euro,
allo Stato 6.194.674,66”.
Montanari mette bene in evidenza che attraverso mecenati e
sponsor, concessioni, fondazioni, consorzi, ecc., lo Stato (cioè, noi, scrive
l’autore) rinunzia a gestire a beneficio di tutti questo patrimonio mentre ne
favorisce lo sfruttamento da parte di
pochi. È proprio l’idea del giacimento che si afferma: il
giacimento, in forme diverse viene consegnato ad un privato che lo sfrutta come
una miniera d’oro. Ma solo se c’è l’oro. Antonio Catricalà, garante della
concorrenza e del mercato, ha scritto in un suo rapporto al Parlamento “Che una
diretta gestione pubblica potrebbe essere giustificata soltanto qualora si intenda
rendere usufruibile un determinato sito culturale che non sia rilevante sotto
il profilo economico (ciò può accadere, ad esempio, nei casi in cui vi sia una
scarsa affluenza del pubblico)”. Sconvolgente: la gestione pubblica invece di
essere la regola può essere “solo giustificata”, quando ci sono pochi
visitatori, altrimenti deve essere assegnata ai privati. La miniera deve avere
l’oro e questo deve andare ai privati, se la sua gestione è in perdita allora
dobbiamo pagare noi (cioè lo Stato).
Ma non basta questo, il problema non è solo economico, ma è
soprattutto culturale. L’autore fa molte esempi ma quello più vistosamente
evidente è il settore delle mostre: prive di qualità culturale, utilizzando la
cessione del patrimonio pubblico (con accordi anche di lungo periodo), si
mettono in piedi mostre “eventi”, che squalificano le stesse opere mostrate. I
casi che vengono messi in carta sono molteplici ma uno vale la pena di essere
citato in ordine al suo contenuto culturale, o per meglio dire al degrado
culturale e alla mercificazione estrema e banale delle opere, ci si riferisce alla mostra: Tuthankamon, Caravaggio, Van Gogh. La sera e
i notturni dagli Egizi al Novecento.
E che dire dei monumenti ceduti come location: il Salone dei
Cinquecento per una sfilata di moda; lo stilista Stefano Ricci che fa correre
una tribù di Masai nei corridoi degli Uffizi per presentare una sfilata di moda
neocoloniale (neanche ); il cortile
dell’Ammannati in Palazzo Pitti travestito in una pagoda per il matrimonio di un magnate indiano; Ponte
Vecchio per la festa della Ferrari, ecc. L’autore osserva: “Non si tratta di
una scala solo materiale: l’alienazione e anche alienazione psicologica,
morale, spirituale, sociale. Quanto modifica la nostra vita e la nostra
democrazia l’abitudine a noleggiare, affittare, privatizzare pro tempore i
luoghi più simbolici e parlanti del nostro patrimonio culturale?”. Ma anche la
città diventa oggetto da sfruttare: Debora Serracchiani, presidente della
regione nonché, ai noi, potente vicesegretario del PD, impone un accordo a
ministro della cultura secondo il quale le attività e le strutture temporanee “allestite
in luoghi monumentali” non sono assoggettabili
al parere della Soprintendenza, “al fine di accogliere le esigenze manifestate
dalle categorie economiche”.
Montanari ha un’altra idea, il suo riferimento è la
Costituzione dalla quale si ricava che “il patrimonio appartiene ad ogni
cittadino – di oggi o di domani, nato o immigrato in Italia – a titolo di
sovranità, una sovranità che proprio il patrimonio rende visibile ed
esercitabile”. Ed ancora: “il patrimonio culturale non può essere messo al
servizio del denaro perché è un luogo dei diritti fondamentali della persona. E
perché deve produrre cittadini: non clienti, spettatori o sudditi”. In sostanza nell’idea dell’autore il
“patrimonio” non solo è un bene collettivo che non può essere ceduto per essere
sfruttato, ma deve essere utilizzato per la costruzione di una cittadinanza
consapevole. Esso non può che essere gestito dallo Stato, esso non può che
essere gestito con professionalità, esso non può che essere oggetto di ricerca,
esso non può che essere messo a disposizione dei cittadini, esso deve essere la
base per operazioni culturali.
Ma i privati devono essere tenuti fuori? Non è questa
l’opinione dell’autore, devono essere tenuti fuori gli sfruttatori di questo
patrimonio, esso deve rendere cultura e non soldi (neanche per lo Stato). Si
tratta di un patrimonio di tutti e per tutti e allora, argomenta, tutti possono
contribuire alla sua conservazione e valorizzazione culturale. Egli fa
riferimento alla “donazione volontari” che in molti paesi ha dato risultati
sorprendenti, raccogliendo piccole e grandi donazioni. Attraverso queste
donazioni, per esempio, “la National Gallery di Londra e la National Gallery di
Edimburgo hanno raccolto 7,4 milioni di sterline per arrivare ai 50 milioni
necessari per acquistare un capolavoro di Tiziano; nel 2010 settemila donatori
hanno permesso al Louvre di acquistare le Tre
Grazie di Lucas Cranach; il restauro della Nike di Samotracia è stato sostenuto con un milione di euro
attraverso 6700 donazioni”. Anche la “concessione” può essere virtualmente
utilizzata “il punto veramente innovativo non è affidare la concessione ad un
soggetto non profit, ma scegliere un
soggetto in base alla sua capacità di fare ricerca e di farla non privatamente
ma in stretta connessione con l’università e organi di tutela”.
Quello che teme Montanari, e noi con lui, è la completa
mercificazione del nostro patrimonio (che si può anche vendere per sanare i
bilanci comunali, come proposto dal sindaco di Venezia): “E credo che questo
sia il punto: quando si arriva a non distinguere più un centro commerciale da
un museo va ancora tutto bene o abbiamo un problema? E il problema non è la
presunta desacralizzazione dell’arte, il problema è il tipo di società che
stiamo costruendo: la mercificazione non fa male alle opere d’arte che ci guardano
impassibili e possono permettersi di attendere tempi più umani. No, la
mercificazione del patrimonio culturale fa male a noi: che passiamo veloci e
non possiamo attendere quei tempi. Perché ci toglie un altro spazio di libertà
dal mercato, una rara palestra di virtù civile e di umanità gratuita. Ci toglie
uno dei pochi autentici spazi pubblici”.
Questo libro meriterebbe di essere testo di formazione sia
per educazione civile che per storia dell’arte, ma non pare che siano
discipline che godano attenzione nei nostri ministeri. Mi sento comunque di
raccomandarlo, non sia assunto come una lamentazione, ma piuttosto come una documentate
denunzia di una deriva che chiama sia la responsabilità collettiva che quella
individuale. Non si può che essere grati
all'autore di averci fatto toccare con mano la nostra distrazione, ogni tanti
ci “indigniamo” per i casi più eclatanti, ma nello stesso tempo la politica dell’impoverimento
della cultura e del patrimonio galoppa nell'indifferenza più che nell'attenzione.
E la distrazione e tale che niente ci meraviglia, al contrario siamo portati ad
accogliere positivamente tutto quello che Montanari denunzia. La mercificazione
del patrimonio culturale fa male a noi, in realtà a già fatto male, ci ha reso
ciechi, e stupidi. Forse dovremmo reagire.
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