Diario 260
Il renzismo:
improntitudine e lentezza
Abolire le regioni
Il renzismo:
improntitudine e lentezza
Il renzismo ha un connotato di improntitudine che neanche
i peggiori democristiani hanno mai avuto, ma non si tratta di una
caratteristica solo del “capo”, e tutta la squadra di governo e no che ha
assunto questo connotato.
Per esempio il consulente economico del Presidente del
consiglio dei ministri, giorni fa,
quando è stato reso pubblico il dato fortemente negativo del PIL del trimestre
ha dichiarato, credo per rassicurare i cittadini, che non c’era da preoccuparsi
perché fra tre anni l’Italia sarebbe
stata una delle maggiori economie europee.
Quante volte, a partire da Monti, ci hanno assicurato che tra un mese,
tra sei mesi, che l’anno prossimo saremmo usciti dal tunnel, che già si vedeva
la luce? Una luce che non illuminava mai la crisi, la crescita delle povertà e
della disoccupazione, ecc., adesso il consigliere più ascoltato ci dice di
avere pazienza altri tre anni.
È improntitudine dichiarare che non ci sarà nessun
manovra correttiva, quando contemporaneamente si sposta tutto sul prossimo
documento finanziario. È pericolosissima improntitudine quando si dice che nel
prossimo anno avremo 16 miliardi di riduzione della spesa pubblica, e nel 2015 la
riduzione sarà di 35 miliardi, sia che si tratti di contrazione dell’occupazione
sia che si tratti di una contrazione degli acquisti, si configura una ulteriore
gelata sull’economia italiana. Quella della spesa pubblica non è la sua
dimensione, inferiore a quella di molti paesi europei, ma la razionalizzazione
del settore.
L’unico sprint di velocità il governo l’ha avuta sulla
riforma del Senato, che a prescindere della forma data la nuovo senato, per
adesso e chi sa per quanto tempo, non serve a niente, leggi e decreti saranno
sottoposti a doppia lettura, quella che Renzi individua come il gran male del
paese.
Sull’economia il passo è lento, quasi inesistente, mentre
si annunzia una nuova battaglia sul decreto relativo al lavoro. E se la
preoccupazione per un possibile scontro anche interno al PD, ne rallenta l’emanazione,
resta confermato l’idea, tanto cervellotica quanto pericolosa, che una nuova legislazione
farà aumentare l’occupazione.
Se conquisterà la poltrona del commissario per la
politica estera Renzi pensa ad un rimpasto con un ridimensionamento della
presenza del NCD, premesso che Alfano è intoccabile, sarebbe bello liberarsi di
Lupi, ma CL non darà il via libera, per cui a farne le spese sarà quella che è
sembrata una ministra coraggiosa cioè la Lorenzini.
Abolire le regioni
Bisogna prendere atto che l’istituzione regionale, che trovava
la sua maggiore giustificazione nell’efficacia della propria azione perché a
“contatto diretto” con la popolazione da “governare”, è risultata non solo un
fallimento, ma peggio un concentrato di inefficienza, di corruzione, di male
affare e di sprechi.
Il nuovo governo ha abolito le provincie, un passo
fondamentale, ma molto timido. Tipico di questo governo, roboante nelle dichiarazioni
ma molto modesto di risultati concreti.
Se due o tre regioni possono essere classificate, con
alcune forzature, virtuose, il resto di queste istituzioni sono impresentabili.
Non sono certo le istituzioni in se stesse a determinare il mal governo; non
pare convincente l’dea che oggi tende a
prevalere che siano le istituzioni in quanto tali a determinare il decadimento
della gestione pubblica, sono gli uomini corrotti e criminali, i soggetti prevaricatori,
le corporazioni, il cancro. Del resto meno di sessanta milioni di abitanti non
giustificano la divisione in 20 regioni (alcune con un popolazione da grande
città). Se la Costituente ha dovuto prendere atto delle differenze locali, se
ha dovuto accettare la volontà storica di indipendenza (parziale) di alcune
regioni, se la storia del nostro paese
ha esalato la peculiarità di ogni contrada, oggi tutto questo è decaduto non
ostante l’esplosione di un localismo micragnoso, la divisione si configura come
fattore di potere, di promozione politica, di clientele, di un punto di vista
tanto individualista quanto corporativo. Tutto questo ha prodotto, in generale,
una classe di governo inadeguata (per non dire di peggio).
Eppure le grandi trasformazioni nell’organizzazione del
territorio, le grandi possibilità offerta dalle nuove tecnologie, se sposate
con un visione prospettica coraggiosa, con una rinnovata idea di governo,
avrebbe potuto dar luogo ad una diversa e forse più efficace organizzazione dei
poteri locali.
Abbolire le Provincie e le Regioni, per darsi nuove
strutture forse più efficaci e adeguate alla realtà. Certo non lavorando sulle
carte geografiche o di pennarello, con l’occhio rivolto verso singoli interessi
di potere o elettorali, ma a partire dalle concrete situazioni di organizzazione
del territorio, si sarebbero potuti aggregare comuni appartenenti ad un unico
contesto territoriale (economico, paesaggistico, culturale, ecc.), individuando
nella forma della metropoli territoriale
l’elemento aggregante e capace di un governo consapevole ed effettivamente
sotto un più diretto controllo della popolazione. La “città metropolitana” non
un’eccezione, ma un modo normale di organizzare il governo del territorio.
Sarebbe stato utile e necessario rendere omogenei a livello
nazionale, e nazionalmente governati, alcuni servizi collettivi, dalla salute,
all’organizzazione della scuola, alla raccolta dei rifiuti, alla gestione
dell’acqua, al trasporto collettivo, ecc. Sarebbe stato necessario
un’uguaglianza effettiva dei cittadini a fronte di loro diritti/doveri come
quelli della trasformabilità del territorio, della salvaguardia del paesaggio e
dei beni storico culturali, ecc. Tutte cose messe in discussione dai poteri
assegnati alle regioni e che hanno dato luogo ad una più forte differenziazione
spaziale delle condizioni di vita delle popolazioni.
Sarebbe necessario elaborare strategie di sviluppo di macro aree,
all’interno di una visione nazionale, anche di differenziazione economica (a
parità di diritti). Bisognerebbe ridisegnare i poteri sul territorio (da troppi
padroni fioriscono sconnessioni, diseguaglianze e privilegi).
Insomma una rifondazione istituzionale e di governo di
questo paese, non appiattendo o negando differenze o possibili identità (sempre
pericolose), ma non dando a questi connotati di potere, ma piuttosto
garantendone la vitalità e l’esistenza.
Nella riforma costituzionale è prevista la possibilità
del governo di commissariare regioni e comuni in dissesto, che poi il governo
lo faccia è da vedere, ma questo provvedimento non incide sulla struttura (oggi
la maggior parte delle regioni e moltissimi comuni dovrebbero essere
commissariati).
Certo oggi toccare le regioni e comuni è un esercizio
mortale (non è un caso che i più accesi critici degli sprechi regionali, non
hanno mai accompagnato la denunzia con un’ipotesi di cancellazione
dell’istituzione. Poteri costituiti, codificazioni di relazioni di potere,
privilegi, inefficienze, ecc. garantiscono lo stato quo: 20 presidenti, 200
circa assessori, alcune migliaia di capi-divisioni, dirigenti, ispettori, ecc,
costituiscono un fronte di opposizione insormontabile, figuriamoci se Renzi o
la Madia pensano di affrontarlo, eppure sarebbe un modo per “cambiare verso”,
ma alle parole non seguono i fatti.