Punti Dolenti
(per Il Manifesto –
3.11.2012 – non pubblicato)
Francesco Indovina
Il dibattito sul giornale non piace a chi vi legge, e credo
non piaccia neanche a voi. Non dico per gli insulti, quelli passano (forse), ma
perché, a me pare, manchi di coordinate ed è molto nominalistico (bunker o
piuttosto pluralismo?) ed è contratto
tra il “che fare” e il “dover essere”. Questo mondo non ci piace, bene, ma l’età
dell’oro sta davanti a noi, anche se molti di noi non la vedranno, un “mondo
diverso” è possibile, ma facciamo fatica a immaginare come conquistarlo e realizzarlo.
Ci pare che “nessuno” (pochi) ci ascolti e, insieme, ci immaginiamo che
esistono masse pronte al cambiamento (le pagine gialle dei nuovi soggetti,
delle nuove esperienze, ecc.). Mi pare che non sia così, le cose sono più
complicate e difficili. Non ho nessuna pretesa ma vorrei comunicarvi alcune
riflessioni.
Inizierei dal capro
espiatorio. Silvio Berlusconi non è
una vittima innocente, come dovrebbe essere il capro espiatorio, ma, anche se
non innocente, in questa fase storica svolge questa funzione presunta purificatrice.
La sinistra, con il sacrificio di Berlusconi, ha pensato di
lavarsi dalla colpa di aver dilapidato un grande patrimonio di idee, di valori
e di consenso popolare. Ma non è così, continua a pagare le colpe di non aver
colto la domanda di cambiamento e di essersi accodata al liberismo (dal volto
umano?) a partire dalle “lenzuolate” di liberalizzazioni, non gravi nel loro
contenuto (modesto) ma simboliche di una linea politica.
La destra, con il sacrificio di Berlusconi, ha pensato di
lavarsi dalla colpa di aver assecondato la bulimia berlusconiana di leggi ad
personam (e altro) e di aver assunto uno stile di vita politica basato su la
corruzione economica, morale, politica e
di pensiero. Ma soprattutto di aver
buttato alle ortiche un consenso e una speranza (mal posta) di popolo.
Il centro, con il sacrificio di Berlusconi, pensava di
essersi lavata dalla colpa di aver partecipato all’orgia di potere
berlusconiano e di poter, finalmente, (ri)costruire il centro (DC).
Monti, l’ultimo arrivato, oltre ad aver ottenuto il potere,
ha pensato che il caprone sacrificato l’avrebbe lavato dalla colpa di non aver
realizzato né equità né sviluppo.
La sinistra radicale ha pensato che le colpe della
frammentazione, dell’egotismo, dell’incapacità di leggere il presente e di costruire
un’alternativa che non fosse individualista, sarebbero state cancellate.
Niente di tutto questo, tutti gli schieramenti, o comunque
si vogliano chiamare, si combattono, si accordano, si azzannano, si
blandiscono, si fanno concorrenza in un’arena politica ai margini della società,
in un deserto arido, nel disinteresse dei più.
Il progetto (Napolitano-Monti) “Salva Italia”, si sta
trasformano nel suo contrario, che potremmo chiamare “Pericolo Italia”. Non mi
riferisco solo alla recessione che pesa sul ceto medio e sulle famiglie a reddito più
basso (altri ingrassano), ma alla crisi politica. Riflettiamo: la crisi di
governo extra-parlamentare e la
soluzione extra-partiti, ha aumentato il discredito per le forze politiche. Una
sorta di dichiarazione d’inettitudine. Oggi c’è un vero “Pericolo Italia”: un intreccio perverso, tra populismo, senza programma e prospettiva (ma
che molto attrae, anche chi non avresti mai pensato), agenda Monti (cioè i
partiti tradizionali) e antipolitica. L’antipolitica non sta nel “movimento 5
stelle”, ma nei milioni di elettori che diserteranno le urna (come già fatto in
Sicilia), che rifiutano i meccanismi politici e di essere partecipi di decisioni
collettive, preferendo la soluzione individuale (onesta, familista, mafiosa,
speranzosa, innovativa, ecc.). Il rimedio è la
POLITICA, ovvio, ma ci si illude, spesso, che si tratta di
soggetti in attesa di una proposta politica convincente, come se il rifiuto
della politica fosse la risposta a questa “assenza”. A me la situazione sembra
più complicata.
Mi pare di capire che quanti hanno proposto “Salva Italia”
non si rendano conto del pericolo, ma, al contrario, pensino e sperino in una
nuova stagione di annientamento dei partiti. Ma a vincere non saranno loro e a
perdere l’Italia (tutta).
Il punto dolente è quello, che chiamerei, delle “orecchie
allenate”. Una prospettiva politica di sinistra e di alternativa non può che
prendere le mosse dai rapporti sociali di produzione, senza partire da qui e investire
questi (Marchionne ce lo ha fatto toccare con mano), non c’è alternativa. Certo,
non siamo nel ‘900, le cose sono cambiate, ma “loro” sono sempre là e
determinano vita e libertà e ci vogliono sempre più asservire. Va rinnovata
l’analisi, va articolato il ragionamento, vanno tenute in conto le
trasformazioni, vanno individuati adatti strumenti alla nostra epoca, ma questo
è il nodo; non si tratta di ideologia, ma di corposa realtà. Il discorso
politico, quello nostro intendo, la sua capacità di emozionare e di
entusiasmare, come la musica, vuole
orecchie educate; a me pare che oggi manchino, a livello di massa, proprio le orecchie che possano capire, non necessariamente condividere,
un discorso politico alternativo. Da anni le orecchie sono state educate ad
altre musiche, altre parole: il fai da te; la melma dei partiti; il locale
contro il globale; il “glocale”; la fine dell’industria e degli operai; la
personalizzazione della politica; il partito leggero; il karma; l’ambiente;
slow food; chilometro zero; l’auto imprenditorialità; la flessibilità; la
post-modernità; la bici; l’economia verde; la sostenibilità; ecc. ecc. (potrei
continuare per pagine). Cose giuste, altre sbagliate, altre importanti a
livello personale, ma non di questo vorrei discutere, voglio solo dire che
tutte queste “parole”, diciamo così, hanno “formato” un nuovo orecchio. Le nostre parole sono diventate incomprensibili, ci siamo spaventati,
non abbiamo osato più pronunziarle.
Se Il Manifesto deve continuare la tradizione che ha
incarnato per quaranta anni (oserei dire che al di là cosa c’è scritto, c’è una
precisa “percezione” del giornale, cosa che lo penalizza nelle vendite) deve
por mano a ri-educare le orecchie. Impresa lunga ma necessaria, non con
risultati immediati, ma lavoriamo per il tempo lungo, e non importa se in quel
tempo siamo morti. Non propongo il disinteresse del presente, ma il presente
nel futuro, addirittura una certa difesa del presente che ci permetta questo
lavoro di educazione. Bisogna distinguere i problemi urgenti da quelli
importanti, per distribuire razionalmente il nostro tempo e le nostre forze; le
priorità siano oggi per i problemi importanti, anche se dobbiamo saper
fronteggiare quelli urgenti.
La “mia” sinistra cincischia anch’essa con il “nuovo” (che
avanza e ci porta indietro), si frantuma (secondo tradizione), in parte pare
affascinata finanche dal populismo (che, ovviamente, reinterpreta) e rischia di
perdersi. Ha bisogno di alimento. Se il giornale deve continuare ad essere
utile, forse più utile, non si tratta tanto di trasformarlo in un bunker o in
uno stadio “plurale”, ma in uno strumento di critica del presente (anche del
presente amico) puntuale, precisa e collocata in una prospettiva futura. Non
tutto il nuovo è buono, non tutto il vecchio è inservibile. O il giornale è
questo crivello, senza paura di chiusure e di aperture, o non vale la pena.
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