L’URBANISTICA DI FRONTE ALLA
FRAGILITÀ DEL TERRITORIO
Francesco Indovina
da Ecoscienza, n. 3, 2015, ARPA Emilia-Romagna
La fragilità del territorio, il
suo dissesto, smottamenti,
frane ecc. trovano sempre un
responsabile nell'urbanista, o meglio
ancora nell'urbanistica. Certo sono stati
prodotti dei piani inadeguati, sbagliati
e che si opponevano poco o niente
alla speculazione, ma il problema non
è questo, non si tratta del fallimento
dell’urbanistica, ma piuttosto della sua
sconfitta. Contro l’urbanistica ha vinto
l’opportunismo della politica (locale
e nazionale), la voracità del settore
edilizio e delle opere pubbliche, la
speculazione, la convinzione diffusa che
si poteva costruire ovunque, contro ogni
ragionevolezza, in una situazione in
cui il bisogno di una casa ha finito per
giustificare l’irresponsabilità costruttiva
(ci ricordiamo della teoria dell’abusivismo
di necessità?).
Detto questo, la situazione non cambia,
non solo, ma nuove situazioni pongono
problemi nuovi e più gravosi sul piano
della formazione, della disciplina, del
pensiero urbanistico.
I cambiamenti
climatici, per esempio, con il moltiplicarsi
di “eventi estremi”, pongono nuovi
problemi che si sommano a quelli
precedenti, ma la cui attenzione mi
sembra scarsa. A questo proposito vorrei
segnalare come mi pare ci si muova in
modo assolutamente inadeguato, come
se fossimo cinquanta anni fa e si fanno
le cose che bisognava fare allora, e che
non sono state fatte, e che ora forse sono
“dannose”. Ma pare, per esempio, che
l’attenzione al moltiplicare del verde
urbano, che ha moltissime giustificazioni,
non tenga conto della situazione nuova:
quale sia l’effetto di tale diffusione in
presenza, per esempio, delle così dette
“bombe d’acqua” o delle più tradizionali
alluvioni. Non sto prendendo posizione
contro il verde urbano, ma sottolineo che
questo oggi, in qualche modo che non so,
deve tenere conto della nuova situazione.
Che sia necessario un atteggiamento di
adattamento, mi sembra inevitabile, e questo non vuol dire accettare lo stato di
fatto, ma richiede che la ragione prenda
coscienza del cambiamento e cerchi di
adeguare gli strumenti per evitare danni
maggiori.
A me pare che sia da sottolineare sia
la fragilità delle città che quella del
territorio, che le due questioni siano
intrecciate è forse vero, ma ciò non toglie
che si tratta di questioni diverse che
hanno bisogno di tipologie d’intervento
diverse; ma ancora, dire fragilità delle città
è una generalizzazione che non convince,
anche se le “voragini” che si aprono nelle
strade urbane sono abbastanza comuni.
Così come dire fragilità del territorio è
diverso se riferito a un territorio di collina
e montagna o a un territorio marino, non
perché l’uno sia meno fragile dell’altro,
tutt’altro, ma perché diverse sono le
necessità d’intervento.
Gli urbanisti non possono pensare che
un’attenta politica delle “destinazioni
d’uso” dei suoli sia la soluzione dei nostri
problemi, né, ancora, che la riduzione del
consumo di suolo, la difesa del paesaggio
e il privilegio accordato alle piccole
opere, nobili e importanti propositi, siano
risolutive della situazione. Diciamolo
con molto chiarezza: c’è un futuro che
deve essere governato con sagacia e
intelligenza, ma c’è anche un passato che
deve essere risanato, messo in sicurezza,
reso “amico”, e per fare questo c’è molto
da fare. Diciamolo con tranquillità e con
la coscienza consapevole, il risanamento
del nostro territorio e delle nostre città
costituisce il New Deal del nostro paese
e della nostra epoca. Si tratta di fare
minuta manutenzione, ma anche opere
grandi (non “grandi opere”), si tratta di
mettere in moto progetti di ingegneria
ambientale e urbana.
So che ai miei colleghi urbanisti, al solo
sentire parlare di ingegneria ambientale
si rizzano i capelli in testa, ma anche di
questo si tratta. Non bastano i pannicelli
caldi, una filosofia di adattamento vuole
e pretende anche opere grandi, richiede
l’intelligenza degli ingegneri, richiede di
mettere mano a nuove idee. Della preparazione dell’urbanista non
deve cambiare niente e deve cambiare
molto. Non deve cambiare il formarsi
come tecnico dell’organizzazione del
territorio, oggi per il futuro, e che
attraverso tale organizzazione si pone
obiettivi di efficienza e di efficacia
circa il funzionamento della città,
fornire il proprio contributo, proprio
attraverso l’organizzazione dello spazio, a
obiettivi di equità sociale, combattendo contro tendenze all'emarginazione e
alla discriminazione, avendo piena
consapevolezza che le scelte urbanistiche
sono “scelte politiche” e che l’assistenza
tecnica per la realizzazione di questi
obiettivi non può essere un atteggiamento
anodino. Forte deve essere la coscienza
che il territorio è un bene sociale e
collettivo, che molti partecipano alla sua
formazione e organizzazione, ma questa
deve seguire l’interesse collettivo. Alla
formazione di tale tecnico, le nostre scuole
di urbanistica, per quanto lo permettano
istituzioni inadeguate, contribuiscono
non solo con gli insegnamenti tecnici
propri della disciplina, ma arricchendo la
formazione dell’urbanista con economia,
diritto, sociologia, matematica, storia,
antropologia, statistica, ecologia ecc. Tutti
strumenti per formare un’intelligenza in
grado di leggere una città e interpretarne le
dinamiche. Negli ultimi anni le discipline
ambientali hanno trovato maggior spazio,
ed è stata una cosa buona, ma è stato
male che questo allargamento spesso sia
avvenuto a scapito delle discipline sociali.
Deve cambiare un certo atteggiamento
nei riguardi della realizzazione del piano
o dell’intervento urbanistico. Se da
tempo è diventato senso comune che la
gestione del piano (attraverso accorte
politiche) è parte integrante del processo
di pianificazione, sia il piano che la sua
gestione hanno oggi bisogno di una
impostazione fondata su un atteggiamento
adattativo e che punto di riferimento
per ogni intervento non possa essere
ormai che l’area vasta, non solo perché
sempre più (nel nostro paese con enorme
ritardo) la gestione tende a competere a
istituzioni (fisse o variabili) di area vasta,
ma anche perché i processi a cui si è fatto
riferimento all’inizio non sono governabili
se non a livello di area vasta.
Un atteggiamento adattativo ha
due corollari: da una parte vedere
l’urbanistica come lo strumento nel suo
campo di governo delle trasformazioni,
che ovviamente non significa
“amministrazione” delle trasformazioni,
ma piuttosto governo delle forze della
trasformazione verso obiettivi noti,
trasparenti e significativi sul piano degli
esiti. Ma, dall’altra parte, avere netta
coscienza che il “futuro” non si realizza
automaticamente da buoni obiettivi, ma
che le incertezze e i rischi di tale futuro
devono essere indagati e ove possibile
contrastati.
Ma per questa operazione non bastano
né “danze della pioggia”, né esorcismi, né
idiosincrasie sulle necessarie modifiche
di assetto dello spazio. È in questa
dimensione che si intrecciano relazioni
fruttuose tra l’urbanistica e l’ingegneria
ambientale e ingegneria del territorio,
relazioni che non si possono immaginare
sempre pacifiche, ma che si devono
imporre come razionali e trasparenti. Le
paure e i timori per i mutamenti per gli
assetti del territorio devono costituire
un chiaro stimolo per moltiplicare
l’attenzione. Un laico atteggiamento è
l’unica speranza di salvezza (in questo e
in tutti gli altri campi).
Sia gli urbanisti che gli ingegneri
ambientali (in senso lato) durante la loro
formazione devono fare esperienze in
comune, partecipare insieme a progetti,
misurarsi, prima di avere acquisito
la “patente” di tecnico nel capirsi
vicendevolmente.
lunedì 16 novembre 2015
domenica 15 novembre 2015
Terrorismo. Perché?
Diario n. 304
15/11/2015
Terrorismo. Perché?
Ma no: perché?
Chi ha tutto non può chiedere a chi non ha niente: perché?
Chi ha usato la fede per “civilizzare” il mondo non può
chiedere a chi usa Dio contro di noi: perché?
Chi fabbrica armi e poi li dà a chi uccide non può
chiedere: perché?
Chi ha portato la guerra, inventando menzogne, in altri
paesi per puro interesse non può chiedere a chi ci porta la guerra: perché?
Chi costruisce nuovi equilibri internazionale combattendo,
forse, il califfato ma pensando ai
propri interessi, non può chiedere alla strategia del terrore: perché?
Perché, perché, perché………………..
Tutti i possibili perché non giustificano le crudeli
uccisioni; non giustificano e basta. Ma forse ci fanno capire qualcosa.
Ma capire non ci libera dalla paura, dall'angoscia, dall'impotenza.
Oggi piangiamo tutti assieme gli amici francesi trucidati, ma non abbiamo
pianto qualche giorno fa gli amici libanesi morti in uno stesso attentato. Non abbiamo pianto i
morti kurdi bombardati dalla Turchia. Non abbiamo pianto … La nostra
solidarietà, il nostro rispetto della vita non è generalizzato. Di fatto
distingue, e questo non ci aiuta ad
essere liberi, né a capire.
Siamo orgogliosi della nostra civiltà, della nostra
libertà, della nostra convivenza, dei nostri diritti; ma questa civiltà che ci
pare attaccata e che vogliamo difendere è il risultato di misfatti, di orrori,
di genocidi. E con il lavoro sulle nostre coscienze, utilizzando la nostra
intelligenza, riflettendo su noi e gli altri, che, forse, ci siamo liberati da
quegli orrori perpetrati fino ad ieri (il secolo scorso è stato il tempo di una
carneficina continua), costruendo un non mai raggiunto livello alto di civiltà.
Ma niente e concluso, gli interessi spesso ci acciecano. La
riunione a Malta dei capi di stato sull'immigrazione la dice lunga sulla nostra
disponibilità all'accoglienza. I muri, i fili spinati, i fossati che molti
paesi stanno materialmente costruendo contro l’immigrazione la dice lunga su l’Europa
unita. Queste frontiere oggi sono “contro”
gli immigrati ma finiranno per essere le frontiere interne di un Europa divisa.
La divisione sta nella logica delle frontiere. Ci aspetta un’Europa molto più
frammentata di come è uscita dalla seconda guerra mondiale e forse meno civile
di quello che pensiamo.
Certo bisogna resistere all'emozione che parla alla
pancia, alla paura che prende il cuore, al senso di insicurezza che diventa modo
di vita. Bisogna ragionare, bisogna avere politiche efficaci ed efficienti. Sapremmo
cosa fare nel medio-lungo periodo, ma non possiamo farlo; le nostre condizioni
economiche e sociali, i nostri rapporti sociali, gli interessi che giocano
anche sopra le nostre teste non ci permettono di fare quello che sappiamo
andrebbe fatto.
Quando i due militari dell’ISIS nel video che gira in rete,
chiamano quanti di “loro”, sono umiliati in terra straniera, costretti a
chiedere l’elemosina, disoccupati, sottopagati, e li invitano a unirsi a loro
nel nome di Allah, sanno di fare un gioco facile anche se non di sicuro successo, per nostra fortuna. Ma
li chiamano alla lotta là dove si trovano, li invitano a prendere le armi che
hanno a disposizione e ad uccidere. Terrorismo diffuso, questa è la nuova
situazione.
Quando qualche imbecille propone di distinguere gli
immigrati che vengono da zone di guerra da accogliere (con attenzione e
parsimonia), dagli immigrati per bisogno (fame, sottosviluppo, ecc.) da
rifiutare e mandare indietro, inconsapevolmente (ma è possibile
inconsapevolmente) contribuisce a creano
le migliori condizioni di accoglienza agli appelli dell’ISIS.
C’è una politica di medio-lungo periodo. Ma quello che
bisognerebbe fare in tale tempo medio-lungo non si farà; si dirà; si useranno molte parole; ma non si
farà. Così il tempo medio-lungo
diventerà infinito e alimenterà nuove rivolte, nuovi terrorismi, nuove bandiere.
Non si farà perché non lo permette il nostro sistema sociale, non lo permettono
gli interessi economici in gioco, perché i “soci” che dicono di combattere l’ISIS
fanno i loro giochi. Agli immigrati non
saranno riconosciuti diritti di cittadinanza; le risorse dei singoli paesi non saranno
lasciati agli stessi per lo sviluppo; non si faranno sostanziosi investimenti internazionali
per lo sviluppo; al contrario si continuerà a corrompere, a sostenere dittature
spesso feroci, a saccheggiare le risorse, si asserviranno popolazione, si affameranno,
si sottrarrà l’acqua, …..
Ma anche se si facessero per il medio lungo periodo le cose
positive previste e prevedibili, resta il grumo terribile del breve periodo: l’ISIS
e il terrorismo. Che fare? Pensieri poveri
e contraddittori. Contro questo pericolo non basta l’intelligenza dei servizi
(il terrorismo diffuso e individualista, non ha corpo, non ha bisogno di
centrali, basta la predicazione), la prevenzione, certo, se ne siamo capaci, ma
sarà necessaria anche qualche forma di repressione: bloccare l’espansione,
liberare chi volontariamente si è fatto schiavo, liberare chi è oppresso in
nome di un Dio crudele che lotta per la sua supremazia. C’è anche uno scontro
militare all'orizzonte. No contro Allah, non serve, non uno scontro di civiltà,
quale è la civiltà proposta dall’ISIS se non un futuro di sottomissione e
privazioni, ma contro il terrorismo, contro un regime criminale, contro un
dittatura politica che si crea il proprio Dio. Dovrebbe essere una “pulizia”
fatta dagli stessi musulmani uniti con le forze internazionali, in una guerra
di liberazione. Ma pare difficile che i regimi musulmani, date le loro
divisione interne che alimentano lo stesso terrorismo e che sostengono l’ISIS, siano
disponibili per tale guerra di librazione..
In realtà non si farà nulla per il periodo medio-lungo,
si farà nel periodo breve una guerra priva di prospettive. E sulle macerie
sorgeranno nuove bandiere, nuove rivendicazioni e nuovi terrorismi.
Sentendo i capi di governo, ascoltando la voce della
gente, che quando impaurita dà il peggio di sé, non mi pare si possa essere ottimisti.
martedì 10 novembre 2015
Nasce la “sinistra italiana”: speranza, ottimismo e qualche osservazione
Diario n.303
11/11/2015
Nasce la “sinistra italiana”: speranza, ottimismo
e qualche osservazione
Che i parlamentari della “sinistra” formassero un nuovo
gruppo unitario era tempo, è il meno che ci si potesse aspettare.
Che da questa iniziativa nasca un percorso per la
formazione di un nuovo soggetto politico
apre alla speranza. Non si può non essere ottimisti, si deve essere ottimisti, ma non tanto da annullare il senso critico,
soprattutto se esso riguarda non il pelo ma l’uovo.
Non diffido, sono sicuro della sincerità di tutti,
singoli individui e organizzazioni, non si può non apprezzare il processo
democratico che si vuole avviare per la costruzione di questo nuovo soggetto politico.
La posta è importante, il percorso è importante, proprio per questo qualche
osservazione va fatta.
Ma prima di “osservare” vorrei apprezzare (con vera onestà)
il lavoro fatto da Il Manifesto, con
la sua iniziativa C’è vita a sinistra,
che ha raccolto negli ultimi 4 mesi molti contributi che oggi, proprio oggi,
vengono riproposti in un supplemento allegato al giornale. Forse troppi nomi della
tradizione; questa non vuole essere una critica, ma la registrazione di uno
stato di fatto ed anche della durata delle idee (la semina, ah! la semina).
Norma Rangeri, in una sorta di introduzione, mette in luce, in una rassegna
sintetica, i contenuti, qualche volta contraddittori, qualche volta dissonanti,
ma sempre interessanti, che i collaboratori hanno espresso.
Il documento che avvia il cammino per la formazione di un
nuovo soggetto politico forse, a mio
parere, avrebbe dovuto contener alcuni riferimenti più precisi. Capisco la
preoccupazione di non voler mettere il “cappello” sulla discussione, ma una
discussione su tracciati troppo generici non credo dia buoni risultati.
Mi ha disorientato proprio l’inizio quando si dice che il
nuovo soggetto politico deve essere in grado di lanciare “in modo autorevole e
credibile” la sfida al governo Renzi e al PD. Disorientato, non per il guanto
di sfida lanciato a Renzi e al PD,
abbattuti devono essere, ma perché non mi pare che con questo preambolo si
colga il nocciolo e perché la comunicazione è equivoca. Anche il M5* ed anche
la destra (unita o frammentata, non importa) possono, e di fatto lo fanno,
lanciare la stessa sfida. Vero che, nel documento in questione, si fa l’elenco
dei soggetti sociali che si vogliono rappresentare (“del variegato universo del lavoro subordinato e autonomo,
degli strati sociali che più soffrono il peso della crisi, dei loro diritti
negati e delle loro domande inascoltate, orientato a valorizzare la funzione
dei governi territoriali e dei corpi intermedi”), ma anche questi possono
essere dei “vocaboli” intercambiabili.
Renzi e il PD (con buona
pace della sua “sinistra” interna) hanno interiorizzato il capitalismo come
sistema e il mercato come regolatore, e questi rappresentano con più o meno
capacità.
“L’impronta neo liberista” (saremmo per un liberismo più
tradizionale?), “le ricette” adottate, ecc. non sono che l’espressione del
capitalismo di oggi, delle sue necessità della sua famelica volontà di
accaparramento. Dobbiamo e possiamo essere ancora anticapitalisti e comunisti? Nuove
analisi, nuove parole, nuove prospettive saranno necessarie ma questo è il tema.
Certo non estremizziamo; ma possiamo parlare di uguaglianza?
Possiamo parlare di controllo dell’economia e dei suoi processi? Possiamo parlare
dello sviluppo di un’economia pubblica? Possiamo dire che lo Stato E’ la soluzione e non il problema? Possiamo
parlare di libertà individuali? Può il
nuovo soggetto politico avere un vocabolario che ne definisca o almeno ne
lascia intravedere il profilo?
Nel documento si parla del soggetto politico come “democratico, sia nel suo funzionamento interno (…) sia
perché deve essere il punto di riferimento e di azione di tutte/i i democratici
italiani di tutte e tutti, perché deve essere il luogo in cui tutte/i coloro
che si contrappongono alle politiche neoliberiste, alla distruzione
dell’ambiente e dei beni comuni, alla svalutazione del lavoro, alla crescente
xenofobia, alle guerre, all'attacco alla democrazia possono ritrovarsi e
organizzarsi in un corpo collettivo capace di superare antiche divisioni
nell'apertura e nel coinvolgimento delle straordinarie risorse fuori dal
circuito tradizionale della politica”. D’accordo, ma se non si chiarisce il nesso
con il sistema sociale capitalista l’insieme di questi obiettivi non fanno una
prospettiva, inoltre può sembrare che siano raggiungibili in se stessi; ed
invece no, se non si inquadrano in un chiaro riferimento, in grado di dare
alimento politico, forza sociale e dirompenza.
Ma non vorrei essere visto
come un estremista massimalista. Ritengo che essendo chiaro il nemico (non
Renzi e il PD, ma quello che sta dietro) poi si devono articolare singole
lotte, che assumono senso perché è chiaro quale è il moloc che sta dietro; si
possono perdere e si possono vincere ma comunque hanno senso se almeno scalfiscono la grande
roccia. Quella che va abbattuta.
Non possiamo adattarci alla
constatazione che oggi il capitale è diverso, è sempre più immateriale, e
sempre più lontano, questo è vero e falso contemporaneamente, è possibile
incidere sul sistema di accumulazione, è
possibile indebolire la sua impermeabilità, è possibile batterlo, anche perché non
sta tanto bene in salute. Non possiamo adattarci all'idea che la frammentazione
sociale rende difficile l’unificazione di tutti in un progetto di società (i contadini
pugliesi non avevano niente in comune con gli operai Fiat, eppure erano legati
da un progetto di società).
Se pensassimo che il capitale che ci è toccato
sia intangibile e che la società frammentata non è unificabile in un progetto, allora
tutto sarebbe inutile.
Cosa può offrire il futuro
non sempre è leggibile, ma bisogna essere pronti e sicuri di quello che si vede
con la sguardo nella prospettiva. Pensiamo che non sarà per domani, che ci vorrà più tempo, e poi all'improvviso
si scopre che è di oggi.
PS. Aggiungo, se qualcuno non l’avesse visto, il documento
completo di Sinistra italiana.
IL DOCUMENTO DI
“SINISTRA ITALIANA”
1. Noi ci siamo, lanciamo la sfida
Riteniamo non solo necessario ma non più procrastinabile avviare ORA il processo costituente di un soggetto politico di sinistra innovativo, unitario, plurale, inclusivo, aperto alle energie e ai conflitti dei movimenti dei lavoratori e delle lavoratrici, dei movimenti sociali, dell’ambientalismo, dei movimenti delle donne, dei diritti civili, della cittadinanza attiva, del cattolicesimo sociale.
Un soggetto politico in grado di lanciare in modo autorevole e credibile la propria sfida al governo Renzi e a un PD ridotto sempre più chiaramente a "partito personale del leader", in rappresentanza del variegato universo del lavoro subordinato e autonomo, degli strati sociali che più soffrono il peso della crisi, dei loro diritti negati e delle loro domande inascoltate, orientato a valorizzare la funzione dei governi territoriali e dei corpi intermedi. Dobbiamo rispondere in modo adeguato - con la forza, il livello di unità e la chiarezza necessarie - alla domanda sempre più preoccupata di quel popolo di democratici e della sinistra che non si rassegna alla manomissione del nostro assetto democraticocostituzionale, alla liquidazione dei diritti del lavoro e alla cancellazione del residuo welfare.
L'obbiettivo è lavorare fin d’ORA, in un contesto di dimensione europea contro le politiche neoliberiste, all’elaborazione di un programma comune con cui candidarsi alle prossime elezioni politiche alla guida del Paese, con una proposta politica autonoma e in competizione con tutti gli altri poli politici presenti (la destra, il M5S e il PD), nella consapevolezza che in Italia la stagione del centro-sinistra è finita. In Europa è evidente la crisi profonda delle tradizionali famiglie socialiste.
Ogni giorno che passa aumenta il disagio e il disastro nel Paese. Renzi ha declinato il tema della vocazione maggioritaria come politica dell'uomo solo al comando, alibi per un partito trasformista pigliatutto in realtà dominato dall'agenda liberista dell'Eurozona. Noi vogliamo al contrario costruire una sinistra in grado di animare un ampio movimento di partecipazione popolare e di realizzare alleanze sociali e politiche che mettano radicalmente in discussione le “ricette” nazionali ed europee che hanno caratterizzato il governo della crisi da parte di Popolari e Socialisti. Sappiamo perfettamente che non è sufficiente unire quel che c’è a sinistra del Partito Democratico, o autoproclamarsi alternativi, per costruire un progetto all'altezza della sfida, davvero in grado di cambiare la vita delle persone. Ma siamo altrettanto convinte/i che senza questa unità il processo nascerebbe parziale, o non nascerebbe affatto. Per questo noi questa sfida la lanciamo oggi. Insieme.
2. Definzioni del soggetto
Il Soggetto politico che vogliamo sarà: democratico, sia nel suo funzionamento interno (una testa un voto regola guida, strumenti e momenti di partecipazione diretta e online, pratiche di co-decisione tra rappresentanti istituzionali e cittadini, costruzione dal basso del programma politico) sia perché deve essere il punto di riferimento e di azione di tutte/i i democratici italiani di tutte e tutti, perché deve essere il luogo in cui tutte/i coloro che si contrappongono alle politiche neoliberiste, alla distruzione dell’ambiente e dei beni comuni, alla svalutazione del lavoro, alla crescente xenofobia, alle guerre, all’attacco alla democrazia possono ritrovarsi e organizzarsi in un corpo collettivo capace di superare antiche divisioni nell’apertura e nel coinvolgimento delle straordinarie risorse fuori dal circuito tradizionale della politica. Alternativo e autonomo rispetto alle culture politiche prevalenti d’impronta neoliberista che ci condannano al declino sociale e culturale, di cui oggi il PD tende ad assumere il ruolo di principale propulsore e diffusore. Innovativo sia nelle forme sia per la rottura con il quadro politico precedente, così come sta avvenendo in molti paesi europei. Differente dal sistema politico corrotto e subalterno di cui siamo avversari. Europeo in quanto parte di una sinistra europea dichiaratamente antiliberista, che, con crescente forza e nuove forme, sta lottando per cambiare un quadro europeo insostenibile.
3. L'anno che verra' - il 2016
Il 2016 ci presenta passaggi politici di grande importanza: le amministrative che coinvolgono le principali grandi città, il referendum sullo stravolgimento della Costituzione e la possibile campagna referendaria contro le leggi del governo Renzi.
In coerenza con il nostro obbiettivo principale per la scadenza delle amministrative vogliamo lavorare alla rinascita sociale, economica e morale del territorio, valutando in comune ovunque la possibilità di individuare candidati, di costruire e di sostenere liste nuove e partecipate in grado di raccogliere le migliori esperienze civiche e dal basso e di rappresentare una forte proposta di governo locale in esplicita discontinuità con le politiche dell’attuale esecutivo. Fondamentale è la costruzione di una forte campagna per il NO nel referendum sulla manomissione della Costituzione attuata dal governo Renzi e il sostegno alle campagna referendarie in via di definizione contro le leggi approvate in questi 2 anni.
4. Quindi...
Al fine di avviare il processo Costituente di questo soggetto politico, convochiamo per il XX xx dicembre 2015 una assemblea nazionale aperta a tutti gli uomini e le donne interessati a costruire questo progetto politico. Da lì parte la sfida che ci assumiamo e li definiremo la nostra carta dei valori. L'assemblea darà avvio alla Carovana dell'Alternativa, individuando le forme di partecipazione al progetto politico. Si tratta di definire il nostro programma, le nostre campagne e la nostra proposta politica in un cammino partecipato e dal basso che con assemblee popolari e momenti di studio e approfondimento coinvolga movimenti, associazioni, gruppi formali e informali unendo competenze individuali e collettive.
Entro l’autunno del 2016 ci ritroveremo per concludere questa prima fase del processo e dare vita al soggetto politico della sinistra.
1. Noi ci siamo, lanciamo la sfida
Riteniamo non solo necessario ma non più procrastinabile avviare ORA il processo costituente di un soggetto politico di sinistra innovativo, unitario, plurale, inclusivo, aperto alle energie e ai conflitti dei movimenti dei lavoratori e delle lavoratrici, dei movimenti sociali, dell’ambientalismo, dei movimenti delle donne, dei diritti civili, della cittadinanza attiva, del cattolicesimo sociale.
Un soggetto politico in grado di lanciare in modo autorevole e credibile la propria sfida al governo Renzi e a un PD ridotto sempre più chiaramente a "partito personale del leader", in rappresentanza del variegato universo del lavoro subordinato e autonomo, degli strati sociali che più soffrono il peso della crisi, dei loro diritti negati e delle loro domande inascoltate, orientato a valorizzare la funzione dei governi territoriali e dei corpi intermedi. Dobbiamo rispondere in modo adeguato - con la forza, il livello di unità e la chiarezza necessarie - alla domanda sempre più preoccupata di quel popolo di democratici e della sinistra che non si rassegna alla manomissione del nostro assetto democraticocostituzionale, alla liquidazione dei diritti del lavoro e alla cancellazione del residuo welfare.
L'obbiettivo è lavorare fin d’ORA, in un contesto di dimensione europea contro le politiche neoliberiste, all’elaborazione di un programma comune con cui candidarsi alle prossime elezioni politiche alla guida del Paese, con una proposta politica autonoma e in competizione con tutti gli altri poli politici presenti (la destra, il M5S e il PD), nella consapevolezza che in Italia la stagione del centro-sinistra è finita. In Europa è evidente la crisi profonda delle tradizionali famiglie socialiste.
Ogni giorno che passa aumenta il disagio e il disastro nel Paese. Renzi ha declinato il tema della vocazione maggioritaria come politica dell'uomo solo al comando, alibi per un partito trasformista pigliatutto in realtà dominato dall'agenda liberista dell'Eurozona. Noi vogliamo al contrario costruire una sinistra in grado di animare un ampio movimento di partecipazione popolare e di realizzare alleanze sociali e politiche che mettano radicalmente in discussione le “ricette” nazionali ed europee che hanno caratterizzato il governo della crisi da parte di Popolari e Socialisti. Sappiamo perfettamente che non è sufficiente unire quel che c’è a sinistra del Partito Democratico, o autoproclamarsi alternativi, per costruire un progetto all'altezza della sfida, davvero in grado di cambiare la vita delle persone. Ma siamo altrettanto convinte/i che senza questa unità il processo nascerebbe parziale, o non nascerebbe affatto. Per questo noi questa sfida la lanciamo oggi. Insieme.
2. Definzioni del soggetto
Il Soggetto politico che vogliamo sarà: democratico, sia nel suo funzionamento interno (una testa un voto regola guida, strumenti e momenti di partecipazione diretta e online, pratiche di co-decisione tra rappresentanti istituzionali e cittadini, costruzione dal basso del programma politico) sia perché deve essere il punto di riferimento e di azione di tutte/i i democratici italiani di tutte e tutti, perché deve essere il luogo in cui tutte/i coloro che si contrappongono alle politiche neoliberiste, alla distruzione dell’ambiente e dei beni comuni, alla svalutazione del lavoro, alla crescente xenofobia, alle guerre, all’attacco alla democrazia possono ritrovarsi e organizzarsi in un corpo collettivo capace di superare antiche divisioni nell’apertura e nel coinvolgimento delle straordinarie risorse fuori dal circuito tradizionale della politica. Alternativo e autonomo rispetto alle culture politiche prevalenti d’impronta neoliberista che ci condannano al declino sociale e culturale, di cui oggi il PD tende ad assumere il ruolo di principale propulsore e diffusore. Innovativo sia nelle forme sia per la rottura con il quadro politico precedente, così come sta avvenendo in molti paesi europei. Differente dal sistema politico corrotto e subalterno di cui siamo avversari. Europeo in quanto parte di una sinistra europea dichiaratamente antiliberista, che, con crescente forza e nuove forme, sta lottando per cambiare un quadro europeo insostenibile.
3. L'anno che verra' - il 2016
Il 2016 ci presenta passaggi politici di grande importanza: le amministrative che coinvolgono le principali grandi città, il referendum sullo stravolgimento della Costituzione e la possibile campagna referendaria contro le leggi del governo Renzi.
In coerenza con il nostro obbiettivo principale per la scadenza delle amministrative vogliamo lavorare alla rinascita sociale, economica e morale del territorio, valutando in comune ovunque la possibilità di individuare candidati, di costruire e di sostenere liste nuove e partecipate in grado di raccogliere le migliori esperienze civiche e dal basso e di rappresentare una forte proposta di governo locale in esplicita discontinuità con le politiche dell’attuale esecutivo. Fondamentale è la costruzione di una forte campagna per il NO nel referendum sulla manomissione della Costituzione attuata dal governo Renzi e il sostegno alle campagna referendarie in via di definizione contro le leggi approvate in questi 2 anni.
4. Quindi...
Al fine di avviare il processo Costituente di questo soggetto politico, convochiamo per il XX xx dicembre 2015 una assemblea nazionale aperta a tutti gli uomini e le donne interessati a costruire questo progetto politico. Da lì parte la sfida che ci assumiamo e li definiremo la nostra carta dei valori. L'assemblea darà avvio alla Carovana dell'Alternativa, individuando le forme di partecipazione al progetto politico. Si tratta di definire il nostro programma, le nostre campagne e la nostra proposta politica in un cammino partecipato e dal basso che con assemblee popolari e momenti di studio e approfondimento coinvolga movimenti, associazioni, gruppi formali e informali unendo competenze individuali e collettive.
Entro l’autunno del 2016 ci ritroveremo per concludere questa prima fase del processo e dare vita al soggetto politico della sinistra.
martedì 3 novembre 2015
Privatizzazione del patrimonio culturale
Tommaso Montanari, Privati
del patrimonio, pp. 166, 12 euro, Einaudi, Torino, 2015.
Francesco Indovina
ASUR (?)
L’Italia, come è noto, è depositaria di un enorme patrimonio
storico e artistico, di questo ci si pavoneggia, anche se il merito della presente generazione
è nullo, mentre a questa generazione
resta il compito di conservarlo, tutelarlo, e farlo rendere culturalmente. Lo fa? Ci sono forti dubbi.
Tommaso Montanari, in questo suo libro, molto documentato,
scritto con una verve polemica accattivante, indaga su come questo patrimonio sia
gestito e sulla perniciosa idea, che prevale ed è prevalsa all’interno di
tutti i governi, che si tratta di una ricca risorsa che deve essere sfruttata.
Non abbiamo petrolio ma il patrimonio
storico e culturale ne fa le veci. Il ministro Dario Franceschini, citandone
uno per tutti, ha detto “Penso che il ministero della Cultura sia in Italia
come quello del petrolio in un Paese arabo”. Si tratta dell’attuale ministro
della cultura, non dimentichiamolo.
Quale è il corollario di questa posizione: lo stato non ha
risorse per rendere produttivo questo patrimonio, per farlo rendere bisogna
coinvolgersi ai privati. La loro capacità manageriale potrà far rendere questo
nostro “giacimento”, solo questa collaborazione ne permetterà lo sfruttamento. Il
testo di Montanari è una puntuale denunzia degli effetti di questa mentalità e dell’ingresso
dei privati nella gestione di questo patrimonio. E non si tratta di una
posizione ideologica, vetero statalista si potrebbe dire, ma di una ragionata
documentazione che mostra come l’entrata dei privati, nelle diverse forme, da
una parte svilisce il contenuto culturale e formativo di questo patrimonio e
dall’altra parte rende solo ai … privati.
Il primo passo di questo processo che ora pare inarrestabile,
e che bisognerà arrestare, è stato compiuto quando era ministro della cultura Ronchey
che con la legge che porta il suo nome rese affidabili ai privati i così detti
“servizi aggiuntive”, ma la spallata decisiva è stata “sferrata da un
insospettabile tecnico: il sopraintendente Paolucci, divenuto ministro per i
beni culturali del governo di Lamberto Dini” che allargò le concessioni anche
ai servizi non aggiuntivi (accoglienza, informazione, guida e assistenza
didattica e di fornitura di sussidi catalografici, audio visivi ed informatici,
fino alla biglietteria e all'organizzazione delle mostre). “Per avere un’idea
delle conseguenze del passo compiuto da Paolucci basti notare che nel 2010 su
46.209.838,83 euro incassati attraverso i servizi gestiti dai privati, a questi
ultimi sono andati 40.015.164,17 euro,
allo Stato 6.194.674,66”.
Montanari mette bene in evidenza che attraverso mecenati e
sponsor, concessioni, fondazioni, consorzi, ecc., lo Stato (cioè, noi, scrive
l’autore) rinunzia a gestire a beneficio di tutti questo patrimonio mentre ne
favorisce lo sfruttamento da parte di
pochi. È proprio l’idea del giacimento che si afferma: il
giacimento, in forme diverse viene consegnato ad un privato che lo sfrutta come
una miniera d’oro. Ma solo se c’è l’oro. Antonio Catricalà, garante della
concorrenza e del mercato, ha scritto in un suo rapporto al Parlamento “Che una
diretta gestione pubblica potrebbe essere giustificata soltanto qualora si intenda
rendere usufruibile un determinato sito culturale che non sia rilevante sotto
il profilo economico (ciò può accadere, ad esempio, nei casi in cui vi sia una
scarsa affluenza del pubblico)”. Sconvolgente: la gestione pubblica invece di
essere la regola può essere “solo giustificata”, quando ci sono pochi
visitatori, altrimenti deve essere assegnata ai privati. La miniera deve avere
l’oro e questo deve andare ai privati, se la sua gestione è in perdita allora
dobbiamo pagare noi (cioè lo Stato).
Ma non basta questo, il problema non è solo economico, ma è
soprattutto culturale. L’autore fa molte esempi ma quello più vistosamente
evidente è il settore delle mostre: prive di qualità culturale, utilizzando la
cessione del patrimonio pubblico (con accordi anche di lungo periodo), si
mettono in piedi mostre “eventi”, che squalificano le stesse opere mostrate. I
casi che vengono messi in carta sono molteplici ma uno vale la pena di essere
citato in ordine al suo contenuto culturale, o per meglio dire al degrado
culturale e alla mercificazione estrema e banale delle opere, ci si riferisce alla mostra: Tuthankamon, Caravaggio, Van Gogh. La sera e
i notturni dagli Egizi al Novecento.
E che dire dei monumenti ceduti come location: il Salone dei
Cinquecento per una sfilata di moda; lo stilista Stefano Ricci che fa correre
una tribù di Masai nei corridoi degli Uffizi per presentare una sfilata di moda
neocoloniale (neanche ); il cortile
dell’Ammannati in Palazzo Pitti travestito in una pagoda per il matrimonio di un magnate indiano; Ponte
Vecchio per la festa della Ferrari, ecc. L’autore osserva: “Non si tratta di
una scala solo materiale: l’alienazione e anche alienazione psicologica,
morale, spirituale, sociale. Quanto modifica la nostra vita e la nostra
democrazia l’abitudine a noleggiare, affittare, privatizzare pro tempore i
luoghi più simbolici e parlanti del nostro patrimonio culturale?”. Ma anche la
città diventa oggetto da sfruttare: Debora Serracchiani, presidente della
regione nonché, ai noi, potente vicesegretario del PD, impone un accordo a
ministro della cultura secondo il quale le attività e le strutture temporanee “allestite
in luoghi monumentali” non sono assoggettabili
al parere della Soprintendenza, “al fine di accogliere le esigenze manifestate
dalle categorie economiche”.
Montanari ha un’altra idea, il suo riferimento è la
Costituzione dalla quale si ricava che “il patrimonio appartiene ad ogni
cittadino – di oggi o di domani, nato o immigrato in Italia – a titolo di
sovranità, una sovranità che proprio il patrimonio rende visibile ed
esercitabile”. Ed ancora: “il patrimonio culturale non può essere messo al
servizio del denaro perché è un luogo dei diritti fondamentali della persona. E
perché deve produrre cittadini: non clienti, spettatori o sudditi”. In sostanza nell’idea dell’autore il
“patrimonio” non solo è un bene collettivo che non può essere ceduto per essere
sfruttato, ma deve essere utilizzato per la costruzione di una cittadinanza
consapevole. Esso non può che essere gestito dallo Stato, esso non può che
essere gestito con professionalità, esso non può che essere oggetto di ricerca,
esso non può che essere messo a disposizione dei cittadini, esso deve essere la
base per operazioni culturali.
Ma i privati devono essere tenuti fuori? Non è questa
l’opinione dell’autore, devono essere tenuti fuori gli sfruttatori di questo
patrimonio, esso deve rendere cultura e non soldi (neanche per lo Stato). Si
tratta di un patrimonio di tutti e per tutti e allora, argomenta, tutti possono
contribuire alla sua conservazione e valorizzazione culturale. Egli fa
riferimento alla “donazione volontari” che in molti paesi ha dato risultati
sorprendenti, raccogliendo piccole e grandi donazioni. Attraverso queste
donazioni, per esempio, “la National Gallery di Londra e la National Gallery di
Edimburgo hanno raccolto 7,4 milioni di sterline per arrivare ai 50 milioni
necessari per acquistare un capolavoro di Tiziano; nel 2010 settemila donatori
hanno permesso al Louvre di acquistare le Tre
Grazie di Lucas Cranach; il restauro della Nike di Samotracia è stato sostenuto con un milione di euro
attraverso 6700 donazioni”. Anche la “concessione” può essere virtualmente
utilizzata “il punto veramente innovativo non è affidare la concessione ad un
soggetto non profit, ma scegliere un
soggetto in base alla sua capacità di fare ricerca e di farla non privatamente
ma in stretta connessione con l’università e organi di tutela”.
Quello che teme Montanari, e noi con lui, è la completa
mercificazione del nostro patrimonio (che si può anche vendere per sanare i
bilanci comunali, come proposto dal sindaco di Venezia): “E credo che questo
sia il punto: quando si arriva a non distinguere più un centro commerciale da
un museo va ancora tutto bene o abbiamo un problema? E il problema non è la
presunta desacralizzazione dell’arte, il problema è il tipo di società che
stiamo costruendo: la mercificazione non fa male alle opere d’arte che ci guardano
impassibili e possono permettersi di attendere tempi più umani. No, la
mercificazione del patrimonio culturale fa male a noi: che passiamo veloci e
non possiamo attendere quei tempi. Perché ci toglie un altro spazio di libertà
dal mercato, una rara palestra di virtù civile e di umanità gratuita. Ci toglie
uno dei pochi autentici spazi pubblici”.
Questo libro meriterebbe di essere testo di formazione sia
per educazione civile che per storia dell’arte, ma non pare che siano
discipline che godano attenzione nei nostri ministeri. Mi sento comunque di
raccomandarlo, non sia assunto come una lamentazione, ma piuttosto come una documentate
denunzia di una deriva che chiama sia la responsabilità collettiva che quella
individuale. Non si può che essere grati
all'autore di averci fatto toccare con mano la nostra distrazione, ogni tanti
ci “indigniamo” per i casi più eclatanti, ma nello stesso tempo la politica dell’impoverimento
della cultura e del patrimonio galoppa nell'indifferenza più che nell'attenzione.
E la distrazione e tale che niente ci meraviglia, al contrario siamo portati ad
accogliere positivamente tutto quello che Montanari denunzia. La mercificazione
del patrimonio culturale fa male a noi, in realtà a già fatto male, ci ha reso
ciechi, e stupidi. Forse dovremmo reagire.
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