sabato 8 novembre 2014

Occupazione: baggianate, tragedie … inettitudine

Occupazione: baggianate, tragedie … inettitudine
Diario 272 

Ormai è di moda “addio al posto fisso”, e il refrain che ministri e presidente del consiglio ripetono quotidianamente. Non sostengo che niente è cambiato, ma quello che è cambiato è peggio e viene descritto come un sogno realizzato (l’autogestione del tempo, la scelta delle opportunità a mano a mano che si presentano, l’indipendenza, ecc.).
Intanto cosa significa posto fisso?
-          la stabilità del lavoro, del reddito, della pensione, del TFR, dell’orario, dei turni (ove necessario), di un eventuale straordinario (altro reddito), ferie, lavoro a tempo parziale secondo necessità e possibilità … tutto contrattato collettivamente attraverso il sindacato;
-          secondo contratto, situazioni di malattia garantite;
-          mansioni, compiti, tipi di lavorazione fissati e programmati;
-          la possibilità di avanzamento nella gerarchia della fabbrica o dell’ufficio;
-          l’inutilità di tormentarsi sul cercare lavoro;
-          l’orgoglio, si anche quello, di essere membro di una collettività che produce certe cose, che realizza certe opere, che fa andare avanti certe istituzioni (pubbliche o private).
Tute blu e colletti bianchi, nonostante quello che si favoleggia, rappresentano più dei  2/3 della forza lavoro che risulta occupata, che cioè ha un posto fisso. Certo questo posto fisso è fisso fino ad un certo punto, le crisi generali e aziendali possono metterlo in discussione. Ma di questo diremo più avanti.
Si ha l’impressione che i “nostri” quando straparlano della massa felice priva del  posto fisso pensano alle professioni liberali di un tempo: avvocati, medici, dentisti, architetti, notai ecc. (alcuni di questi, già oggi, ove non difesi da norme corporative, come i notai, sono in situazioni molto peggiori dei loro genitori e nonni). La massa senza posto fisso e fatta di marginali, di contratti mensili o anche quotidiani, di “lavoretti” (come si dice) e che questi siano felici di non avere il posto fisso lo pensano alcuni insigni studiosi e politici (detentori spesso di un posto fisso non privo di privilegi).
Tra chi non ha il posto fisso ci stanno le forme di lavoro para-schiavista in molte campagne meridionali, o lavori a quelli assimilabili, quelli di alcuni call-center, centri di angherie e soprusi. Tutti felici di non sapere se potranno mangiare fino alla fine del mese? tutti felici di essere a carico dei genitori o nonni pensionati? tutti felici di cambiare lavoro continuamente? tutti felici di vivere facendo le babysitter o le babydog? Tutti felici di non aver una “carriera”? ma non scherziamo. Ma questa situazione è un danno per i lavoratori, un loro degradare, la perdita di personalità, l’inutilità degli studi, ecc. ma pone anche qualche problema alle  imprese e alle istituzioni, questione che viene rubricata, contraddittoriamente,  sotto la voce “produttività” (cosa direbbe il presidente del Consiglio se il personale di Palazzo Chigi cambiasse ogni mese? Di quanto diminuirebbe la produttività del palazzo?).
Non voglio dire, come potrei osare, che tutti dovrebbero avere un posto fisso, ma posso sostenere, e mi sembrerebbe giusto farlo, che in un mercato del lavoro così articolato, come si narra, così libero, affinché tutti possano sentirsi soddisfatti, anche chi non disponesse di un posto fisso dovrebbe godere delle prerogative e dei vantaggi di chi ha un posto fisso: salario, ferie, pensione, TFR, ecc. Trovo che sia indecente che un governo dei centro sinistra (sic!), che si appoggia su un partito di sinistra-democratica (sic!), lavori apertamente e nascostamente per ridurre, per quanto possibile i lavoratori con posto fisso alle stese condizioni di quelli che non lo hanno. Si può anche sostenere che il governo opera affinché siano garantite anche ai lavoratori senza posto fisso le condizioni di chi invece lo ha (mi pare si chiamino la messa in campo di nuovi e più moderni ammortizzatori sociali, sic!). Ma sembra prevaricante che questa possibilità possa essere realizzata riducendo immediatamente i diritti di chi gode del privilegio (sic!) del posto fisso.
Allora diciamo che allo stato dei fatti la questione  non è tanto di posto fisso o non fisso, ma il  mancato impiego della “manodopera” disponibile (non voglio annoiare con le percentuali della disoccupazione giovanile, tanto per fare un esempio). Si tratta di una situazione comune a tutte le economie occidentali (sul modello asiatico non mi pronunzio).
Dove sta la causa di questa situazione strutturale? Ma è ovvio nelle politiche restrittive della UE. Le politiche di austerità stanno uccidendo le economie di quasi tutti i paesi europei, o almeno dei più grandi. Questo si afferma, ma siamo sicuri che sia così? Quello che appare e di cui non si vuole tenere conto è che anche in quei paesi dove il PIL non va così male come da noi, l’occupazione non cresce (o cresce molto di meno da come ci si aspetti e da come sarebbe necessario): in tutti i paesi la disoccupazione tende a crescere, qualche balzo in alto del tasso di occupazione non scalfisce il tasso di disoccupazione). Insomma quella che viene chiamata disoccupazione strutturale (cioè una disoccupazione non eliminabile alle condizioni date) non è solo dell’Italia (e in particolare del suo Mezzogiorno) ma tende a diventare una condizione generalizzata (in misura diversa) in tutti i paesi.
Riduzione e modifica dei consumi, innovazione tecnologica, diseguaglianze crescente nella distribuzione della ricchezza e del reddito, obsolescenza di determinate attività, ecc. sono tra le principali cause di questa situazione. Certo che le politiche di austerità peggiorano la situazione, ma bisogna avere chiaro che politiche “espansive” non risolverebbero la situazione. Siamo ad un nodo della struttura sociale. Quello che i “nuovi ordinatori” non capiscono come, nella situazione attuale  sia indispensabile una vera rivoluzione.
Se la situazione fosse quella descritta, allora dovrebbe essere chiaro che i “provvedimenti” da prendere sarebbero ben altri. La “società” deve garantire tutti (Repubblica fondata sul lavoro), non è possibile far affidamento su ciascuno per la soluzione del problema (iniziativa, entusiasmo, ottimismo, capacità innovativa, ecc.). Certo ciascuno deve fare la sua parte, ma, soprattutto, deve fare la sua parte chi “governa”. Ciascuno nella propria individualità dovrebbe  essere messo in condizione di svolgere un qualche ruolo e questo ruolo non deve essere sociologicamente e psicologicamente stracciato da discorsi senza senso o da invettive mal indirizzate.
Appare chiaro, tuttavia, che matrice, riferimenti sociali e teorici rendono incapace questo governo (e quello della UE) di fare quello che sarebbe necessario. Ma non si tratta di cambiare uomini e donne, ma di costruire domande e soluzioni adeguate a partire dai movimenti sociali e politici. Ma fino a quando il paese resta affascinato dal populismo (progressista, sic!) di Renzi, dalle sue mirabolanti proposte, non resta che un lavoro politico di lunga lena.   

    

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