Rossana Galdini, Palcoscenici
urbani. Il turista contemporaneo e le sue architetture
Liguori Editore, 2011, pp. 121, € 19,90
Francesco Indovina
Il lavoro che si recensisce, appare di notevole interesse
su due piani: da una parte perché affronta un tema conosciuto ma molto poco
frequentato per la difficoltà di mettere ordine sistematico su una materia non
solo molto articolata ma che presenta, insieme, costanti e variazioni. Il
secondo motivo di interesse è come l’autrice documenta il fenomeno. Non mi riferisco
solo alle immagini, ma anche alle accurate descrizione. Il recensore spera e si augura che l’autrice abbia
potuto viaggiare molto tra queste
architetture alberghiere, in una sorte di “viaggio di istruzione” in un mondo piacevole,
anche se connotato di qualche stuccevolezza. So che si è capaci di descrivere
anche il “non visto”, ma spero che abbia potuto fare esperienza diretta, se non
di tutte almeno di una parte delle situazioni descritte, e che ne abbia goduto.
Il punto di partenza dell’autrice si può riassumere, in
parte con le sue stesse parole, è l’indagine di come le architetture,
soprattutto, ma non solo, alberghiere, tentino di rispondere alla “dimensione
di evasione dal quotidiano, di richiesta di autenticità o, al contrario, di
inautentica dimensione onirica, le architetture creano scenari adeguati alla
rappresentazioni richieste: palcoscenici urbani costruiti con elementi
spettacolari e soluzioni architettonici sorprendenti, citazioni del passato,
echi del contesto, ipermoderne tecnologie e richiami alla tradizione”.
Le architetture, come è banale osservare, non sono state
mai neutre (le architetture non l’edilizia) esse hanno avuto una componente,
spesso non piccola, celebrativa, vistosa evidenza del potere (spirituale o
materiale), apparato educativo, per chi
il potere non aveva, ma adatte a far riconoscere (e se possibile rispettare)
differenze, scale sociali ed esclusioni. Quelle di cui si occupa Galdini pare
che sfuggano a questo ruolo, esse sono, secondo l’autrice, una risposta alla nuova caratterizzazione
della “domanda” turistica. Certo che la
domanda ha un ruolo, ma come si risponde a questa domanda non sfugge, secondo
la mia opinione, ai determinanti della società. “L’architettura postmoderna
visibile nelle architetture turistiche contemporanee è soprattutto apparenza,
fantasia, sogno. Al di là della funzionalità è pura invenzione formale,
immaginaria, simbolica, metafora di una società dinamica e complessa, e trova la sua collocazione in
una città sempre più frammentata, luogo di sosta permanente, di passaggio, di
consumo di mille tribù metropolitane che l’abitano l’attraversano e la vivono
nella quotidianità”. Non so se sono
completamente d’accordo con questa formulazione, ma non è questo il tema,
quello che mi pare utile mettere in
evidenza è che tale formulazione “distingue” poco, per così dire.
Il turista è felice, è contento, che tutto questo sia
stato costruito, organizzato, pensato, per lui, per i suoi bisogni interpretati
e individuati senza neanche il bisogno di esporli. L’affetto che lo circonda lo gratifica, si gode questa, molto
interessata, attenzione. Avendo fatta la sua scelta sa quello che lo aspetta e
lo meraviglierà (l’atmosfera medievale o orientale, per esempio), tante
sorprese nell’ordine del convenzionale.
Ma chi è il turista? L’autrice non tenta una
classificazione, impossibile, ma mette in chiaro alcune delle contradditorie
esigenze del turista contemporaneo. Non
la semplificazione secondo l’ambiente prediletto (il mare, piuttosto che la
montagna, per esempio), non già secondo le esigenze dettate dall’appartenere ad
una determinata fascia d’età (la tranquillità per l’anziano, il divertimento
per il giovane), ma piuttosto soffermandosi su due sue caratteristiche “Una
pluralità di domande vengono rivolte alla scena turistica, caratterizzate da
due aspetti principali: varietà e ibridazione”. Si tratta di due aspetti che
rendono impossibile qualsiasi tipo di identificazione: la varietà si
presterebbe ad una possibile classificazione ma quando ogni varietà è ibridata
da “esigenze, desideri, e aspettative diverse” allora ogni classificazione va a
farsi benedire. Se fosse, quello di cui si scrive, uno studio sul turismo,
questa impossibilità di classificazione risulterebbe grave, ma trattandosi di
una ricerca sulle architetture che rispondono a domande varie e ibridate, danno
senso alla varietà di queste architetture ciascuna delle quali “crea” un
simulacro di una “cosa” desiderata.
All’interno di questo studio mi pare sia possibile
distinguere la parte che riguarda gli alberghi,
dalla parte che riguarda le trasformazioni della città attraverso la costruzione di architettura, in un certo
senso, “eccezionali” ma adatte a soddisfare il turista. Trasformazioni, che
nella terminologia dell’autrice, si configurano come “bolle” o come “set”. “La
differenza tra la bolla e il set riguarda il fatto che la bolla
implica il sentirsi a casa anche in un luogo lontano; è un prolungamento della
casa. Il castello di Neuschwanstein è invece il set esterno alla bolla, espressione
di partecipazione e full immersion, un
set dove il turista possa sentirsi altro
e giocare un ruolo”.
Il turismo è un settore economico sempre più rilevante
nelle economie di certe città e di certe regioni. Le nuove architetture o
l’immagine del passato costituiscono l’attrazione, lo strumento per tentare di fare concorrenza ai molti luoghi che
vorrebbero attrarre a loro volta il turismo, e dove gli abitanti locali fanno
la figura delle comparse. Per parlare di un caso ovvio ricordiamo quello di Venezia,
ove l’esaltazione dell’unicità della città, definizione dal significato
insondabile, mette assieme 50.000 residenti e 22.000.000 milioni di
turisti.
Ma proprio il caso di Venezia mette in tensione, in un
certo senso, una componente del saggio di Galdini; quella relativa alla
tipicizzazione del turista, o per meglio l’impossibilità di tale
tipicizzazione. In realtà l’autrice in
alcuni passaggi mette in evidenza che esiste un problema si status economico ma
lo mette in discussione in relazione alla nuova fenomenologia del consumo:
“Nella concezione di consumo come indicatore di status sociale l’acquisto di
particolari merci corrisponde ad un preciso stile di vita. In quest’ottica il
consumo è ridotto ad una logica distintiva di riproduzione della posizione
sociale degli attori”. Ma si potrebbe sottolineare non solo per la
“riproduzione”, ma per l’esplicitazione di una posizione sociale raggiunta o
conquistata (nel nostro paese, con specifico riferimento ai politici gli esempi
riempirebbero pagine e pagine). “Le tendenze emergenti a partire dagli anni
sessanta pongono in discussione questa visione. Si osserva, infatti, lo
sviluppo di una nuova prospettiva ‘culturale’ della società dei consumi che
considera il fenomeno per la valenza sociale simbolica in sé dell’agire del consumo, e non solo in
base alle differenze sociali.”
Non sono un esperto di sociologia del consumo, ma le
osservazione sopra riportate sembrano plausibili a condizione che li
applichiamo ad un segmento molto ristretto della popolazione (non dico quella
dell’ 1% ma molto vicina ad essa). Il
consumo è possibile convenire, e quello turistico in particolare, è legato
alla capacità a pagare di ciascuno; la
tassonomia costruita dall’autrice che non tiene conto di questa variabile non
vale, o meglio vale per un segmento della popolazione. Il turismo che utilizza le architetture di
cui il volume si occupa, sarà differenziato, sarà rinnovato, sarà ibridato ma a
questa parte della popolazione appartiene.
Ma il testo non intende entrare in questo campo e si riferisce ad un tipo “ideale” che esiste ma che è solo una
parte della massa di turisti.
L’analisi, anche tipologica, delle architetture
turistiche pare interessante, come pura quella parte dedicata alle trasformazioni che queste
architetture inducono nelle città. Si tratta di un tema che forse avrebbe
meritato una maggiore attenzione perché, almeno così mi pare, esiste un nodo non facile da districare. Esistono
delle architetture che si definiscono come attrattive (un museo, Bilbao; un
albergo, Parco dei Principi di Sorrento; ecc.), esse attraggono in se stesse; ma esistono anche delle città che sono
attrattive in quanto tali (Parigi, Londra, Barcellona, ecc.) e che in parte,
solo in parte, sono trasformate dalle architetture turistiche. La loro dimensione, in un certo senso,
garantisce la tenuta della loro specificità.
In quest’ambito le architetture turistiche, continuando ad usare questa
categoria, possono se del caso influenzare
una parte della città, ma la città, nel suo complesso, ne esce indenne.
Quando ci si trova di fronte ad un modello di
insediamento a “saturazione”, come è il caso di Venezia (50.000 residenti e
22.000.000 di turisti), la risposta all’articolata domanda (anche dal punto di
vista economico) produce una profonda
trasformazione della città. Gli edifici più rilevanti si trasformano in hotel
il cui numero di stelle non sempre è un indicatore sicuro di qualità; mentre
nel ginepraio, di quella che è definita architettura minore, si ha una
trasformazione che, in modalità diverse, soddisfa domande turistiche altre. Ma
non è finito: un monumento della storia turistica veneziana, il Gran Hotel de
Bain, viene trasformato in appartamenti, nell’ipotesi, non ancora verificata,
che in questo modo sia possibile risolvere una crisi che ha investito un
“luogo” ormai usurato agli occhi di un certo tipo di turismo.
Appunto, come dice
Galdini, il turista cambia (cambiano i desideri, le domande, le aspettative,
ecc.) e cambia anche l’architettura che lo ospita. Ma l’industria turistica non
è settore economico “facile”, e per quello che qui interessa, non è un settore economico leggero, ma
piuttosto un’industria pesante, nel senso che le sue realizzazioni, non
funzionali in senso stretto al luogo dove sorgono, costituiscono spesso un
segno anomalo.
Lo studio di Rossana Galdini, appunto sui palcoscenici
urbani, come già ho avuto occasione di dire, mi pare di notevole interesse per
chi fosse attento alle trasformazioni urbane e territoriali, offre un punto di
vista specifico e particolare ma non per questo di minore importanza.
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