di
Francesco Indovina
Ho
sempre sostenuto che la città costituisce la nicchia ecologica della specie
umana, l’ambiente che ha permesso l’evoluzione stessa della specie. Una nicchia
ecologica offre alla specie insediata occasioni positive di crescita e
sviluppo, ma anche accidenti negativi che la specie deve superare (e questa è
anche una delle ragioni dell’evoluzione) pena la sua estinsione. Storicamente e
sinteticamente possiamo dire che la città ha offerto grandi occasioni di
evoluzione (rapporti sociali, strumenti di conoscenza, avanzamenti tecnici e
scientifici, ecc.), ma anche accadimenti negativi (guerre, pestilenze, fame,
ecc.), e che, sostanzialmente, la specie ha saputo affrontare e superare questi
aspetti negativi e ogni volta, utilizzando la sua intelligenza e la
collaborazione con i suoi simili, ne è uscita più forte inventandosi sempre
nuove forme di convivenza.
Tuttavia
si può sostenere che la specie umana in realtà ha il mondo intero (l’universo?)
come sua nicchia ecologica generale, ma di questa sua collocazione ha sentito
spesso l’aspetto negativo, tanto da costruirsi
una specifica nicchia ecologica la città. A differenza di tutte le altre specie
che trovano in natura la propria nicchia ecologica la specie umana si è costruita
la propria specifica nicchia, ma costruire
significa anche governarne le
trasformazioni. Questi due fatti, costruzione artificiale e governo delle
dinamiche si possono riscontrare nella storia dalle prime città. La trasformazione
della città è stata l’esito dell’attività sociale delle popolazioni, ma queste
sono state esaltate o coartate, secondo i casi, dall’azione di governo, non
sempre con esiti positivi. È difficile
pensare che un’organizzazione complessa come quella di una città possa essere
gestita da una sorta di automatismo che prenda le mosse dalle pratiche sociali
per giungere ad un’organizzazione urbana efficace ed efficiente. Da sempre, mi
pare di poter dire, le città sono state governate.
In
questo processo va colta una costante: la città ha costituito, per la specie
umana, l’ambiente “rifugio”, il luogo di sempre crescente concentrazione e la
zona adatta per continui rilanci verso livelli superiori di civiltà. Partire da
queste sommarie considerazione di lunghissimo periodo può costituire una base
per rispondere alle domande che con sempre maggiore insistenza vengono avanzate
per effetto dell’epidemia: la città è da conservare contro le tendenze
antiurbane rinascenti, e che forma potrà assumere?
Domande
complesse alle quali da una parte si può dare una risposta semplice e sicura, si la città è da conservare, ma come
sarà questa dopo l’epidemia è difficile dirlo, ma si
possono indicare alcune alternative in gioco.
Intanto
liberiamoci da un equivoco, che, cioè, la città sia all’origine dell’epidemia, come
è ben spiegato nel secondo editoriale di Oriol Nel.lo a questo numero di ASUR,
la città, soprattutto le grandi città, hanno moltiplicato il contagio ma in
ragione dei propri servizi e attrezzature sono state il luogo dove l’epidemia è
combattuta.
Guardiamo
alla città durante l’epidemia: la
città vuota di persone fa impressione, anche perché viene negata una delle sue prerogative: la città, le sue strade e piazze sono luoghi
di socializzazione. Ma qui commettiamo un errore di prospettiva, facciamo
riferimento cioè ad una idea di città e non vogliamo prendere atto che da
questo punto di vista è stata snaturata dalla mobilità individuale e meccanica.
Tranne alcune zone, soprattutto quelle storiche (pedonalizzate o meno) strade e
piazze sono state in un certo senso desertificate, anche se affollate, si sono inventati luoghi nuovi e non urbani per
la socializzazione, ma la nostalgia di una città viva e vissuta sta nelle nostre
corde. Ma pare interessante che si prenda coscienza che una città con uno
scarso vissuto pedonale è una contraddizione in termine, forse da questa
consapevolezza possono, forse, scaturire comportamenti diversi.
Il
secondo aspetto molto declamato è la limpidezza dell’aria e dei corsi d’acqua.
Il cielo è trasparente, le albe e i tramonti hanno una colorazione inusitata,
le stesse nuvole, quando ci sono, ci appaiono diverse. L’assenza della
circolazione automobilistica, la chiusura di molte fabbriche, la riduzione del
riscaldamento domestico per effetto della buona stagione, sono tutte cause di
eliminazione dello smog e della conseguente limpidezza dell’aria. Soprattutto
nelle grandi città il fenomeno è appariscente. Ma attenzione non si tratta solo
di una questione estetica, la limpidezza dell’aria ha a che fare con la nostra
salute. Vogliamo mantenere questa situazione?
Assumendo
queste due variabili come sintomatiche della situazione delle città durante
l’epidemia (una positiva, la purezza dell’aria, e una negativa, la rarefazione
delle persone per strada) è possibile in modo del tutto ipotetico ragionare
sulla eventuale trasformazione della
città ad epidemia finita. Ma attenzione la città non è espressione autonoma
della società, essa è di questa la proiezione nello spazio, dei suoi rapporti
di produzione, delle sue diseguaglianze, delle differenze sociali, delle
discriminazione e dei conflitti. Questo
aspetto deve essere sempre presente altrimenti ogni ragionamento rischia di
essere costruito sul vuoto.
La
città del dopo coronavirus sarà l’esito di scelte di governo, cioè sarà
l’esisto di opzioni politiche, ma queste nel contesto democratico (si può
sorvolare sulla qualità di questa democrazia) non possono non considerare le
opinioni dei … cittadini, o almeno della loro maggioranza.
Quello
che pare potersi cogliere da queste opinioni è la dichiarazione unanime, o
quasi, che “niente potrà essere come
prima”. Non è chiaro, o non mi è chiaro, se questa affermazione sia un riflesso
della consapevolezza degli esiti dell’epidemia, o non sia piuttosto
l’affermazione di una coscienza diffusa circa la necessità di dover cambiare
strada. Per quello che interessa in questa sede si può assumere che esiste in
modo diffuso la consapevolezza che bisogna cambiare e che la città prossima
ventura non potrà essere come prima.
Ma
come cambiare la città? Di seguito non si vogliono indicare precisi percorsi di
trasformazione, non sarebbe né il luogo né il caso, ma piuttosto indicare
alcune possibili sentieri di “trasformazione”.
Il
primo di questi, non ci si può nascondere dietro un dito, è la possibilità di
una riaffermazione che, contrariamente a quanto desiderato, tutto sarà come prima. Il comportamento
dei cittadini, infatti, è influenzato, certo da decisioni autonome, ma anche
(soprattutto?) da influenze esterne che ne determinano indirizzi e scelte. In
emergenza tende a prevalere l’influenza del governo, ma di solito l’influenza
maggiore è del meccanismo economico sociale.
Perché
tutto potrebbe essere come prima? Perché mi pare che il governo (italiano ma
non solo) è animato dalla volontà di far ripartire il processo produttivo com’era
ex ante coronavirus, a parte di qualche generica affermazione il tema è quello
di pompare risorse verso il sistema produttivo affinché riparta e verso le
famiglie perché consumino. Si può osservare che la televisione mentre continua
a elogiare i cittadini per il loro buon comportamento, e continua ad informarci
sul numero dei contagiati, delle persone in terapia intensiva e sui, poi e
contemporaneamente ci somministra dose massicce di pubblicità come nel passato,
sostanzialmente degli stessi prodotti e beni, comprese le automobili. Sappiamo
tutti quanto nel nostro comportamento pesi l’influenza degli stimoli a
consumare.
Non
mi nascondo che qualsiasi cambiamento abbia bisogno di una ragionevole
preparazione, di un tempo di implementazione, ecc. , ma quello che mi pare
evidente che niente di tutto questo è presente nelle espressioni governative,
non parlo solo di quelle italiane. È evidente che le nostre società sono
immerse in una sorta di contraddizione permanente: ad una, più o meno forte, voglia di cambiamento si
contrappone una processo economico-sociale che il cambiamento magari lo sogna,
ma di fatto non lo vuole.
Il
tutto come prima significa il
riaffermarsi di un liberismo poco temperato, la ripresa di un consumismo
irragionevole, una distribuzione della ricchezza fortemente sperequata, come
ora, una disoccupazione endemica, una povertà crescente. E nella città questo
non può non significare una ripresa e aumento della mobilità meccanica
individuale, un ritorno dell’inquinamento dell’aria, una distribuzione della
popolazione secondo il principio dell’organizzazione sociale dello spazio,
determinato dalla rendita, la crescita dei poveri per strada, quartieri
marginali e in alternativa, per chi se li può permettere, zone molto
attrezzate, deperimento crescente dei beni collettivi. Mentre le autorità pubbliche
dovranno fare i conti con risorse sempre scarse e con un debito pubblico che è
molto cresciuto a fronte di un forte incremento delle domande di aiuto e di sostegno dalle fasce di popolazione più deboli.
Ma
ci può essere di peggio, quanto prima sperimenteremo forme di controllo
individuale in difesa del contagio, si dice forme anonime e ci crediamo. Ma è
certo che già oggi, in forma esplicita o opaca, siamo continuamente
controllati, o scusate monitorati (dai telefonini, alle telecamere, ai programmi
televisivi che guardiamo, ai social, ecc.) oggi e ogni giorno si aggiungono
nuove tecnologie, e siamo preoccupati che tutto questo armamentario servirà a chiudere ciascuno di noi in uno… schedario, con
pericolo per la nostra liberta. Le città
in questo saranno un mezzo potente. Ma mi domando se non dobbiamo cominciare a
disinteressarci di tutto questo, assumendo che la nostra libertà sta appunto
nelle negazione di ogni forma di privacy (considerando questa una trappola).
So
che la città descritta possa apparire pessimistica, ma si rifletta che non è
altro che una descrizione della situazione esistente qualche settimana fa,
prima dell’epidemia. Appunto: tutto come
prima.
Possiamo
chiamare il secondo sentiero come quello del miglioramento dell’ambiente, che non mette in discussione il nostro sistema
economico produttivo ma attiva la creatività di architetti nel creare nuovi
spazi. Un’opzione di questo tipo per la
città potrebbe prevedere, in casi estremi, una riduzione drastica della
mobilità automobilistica e in generale del trasporto su gomma, uno sviluppo
della mobilità ciclabile, una cura del ferro, come si dice, nei trasporti; l’intensificazione
del verde urbano (viali, parchi, ecc.); il miglioramento, forse, dei quartieri periferici; qualche incremento
dei servizi collettivi, ecc.
È
evidente che questo sentiero prevede diverse linee di approfondimento, resta il
fatto che porta ad un miglioramento
della città illusorio (che non vuol
dire inutile), perché non intacca il
processo sociale-produttivo. Immutati restano i rapporti sociali di produzione, la
distribuzione del reddito, le discriminazioni, ecc. Siamo ridotti a sperare che questo si avveri,
come il minore dei mali.
Al terzo sentiero possiamo attribuire la denominazione nuova
città in nuova società. Un
sentiero di questo tipo presuppone modifiche sostanziali nella struttura
economica-sociale. Non si tratta di rendere pubbliche tutte le attività
produttive, ma di un intervento determinante sui settori strategici (strategici
per il buon vivere), sulla regolamentazione delle condizioni di lavoro, modificando
il rapporto sociale di produzione. Fa perno sui beni collettivi, a discapito di
quelli individuali; su un sistema fiscale che svolga una funzione reale
perequativa; che punta su un innalzamento culturale della popolazione con un’istruzione
continua almeno fino a 20 anni; su un
continuo tentativo di rendere reale un “buon vivere” per tutti; su strutture sanitarie adeguate alle necessità
e pronte alle nuove emergenze; su un sistema di infrastrutture di mobilità efficiente
e continuamente controllato e manotenuto. E sul piano sociale si ponga
l’obiettivo di cancellare la povertà, il bisogno, le sperequazioni.
La
città in questa opzione subirà una doppia mutazione, da una parte una sorta di
ritorno all’antico: luogo di socializzazione, di incontro, di opportunità
sociale. Dall’altra parte una grande trasformazione proiettata in avanti che
sarà determinata dalla crescita dei beni
collettivi (scuole, biblioteche, ospedali, ecc.), dalla drastica riduzione del
traffico privato, dalla crescita di attrezzature per la salute e lo sport
(stadi, parchi, palestre, piste, campi giochi per i più piccoli, luoghi di
incontri per gli anziani, ecc.), dall’innalzamento del tasso di sicurezza in
ragione di una presenza continua in strade e piazze di persone, dal recupero
dei quartieri periferici e degradati, rendendo tutto lo spazio urbano omogeneo
dal punto di vista delle attrezzature e dei servizi. Cresceranno anche attività
private o in collaborazione con il pubblico. I privati saranno stimolati ad
inventarsi nuovi servizi e nuove produzioni (coerenti) da offrire al pubblico e
per questa strada anche “arricchirsi”. Molto rigido sarà il controllo sull’ambiente
e sulla sua difesa: i cittadini saranno educati a comportamenti coerenti.
Ma
non si tratta di immaginare una sorta di città-paradiso, emergeranno sempre nuovi
conflitti, nuove esigenze, nuove aspirazione, ma tutto questo si manifesterà in
una ambiente sociale solidale, in un ambiente politicamente attivo e
partecipativo. Non un’utopia, da costruire una volta per sempre, ma piuttosto
l’attivazione delle condizioni per affrontare le continue contraddizioni e per
garantire un buon vivere per tutti. Questo
tipo di città deve prevedere riforme pregnanti. Come il riaffermare di una reale
tassazione progressiva compresa la revisione della leggi che regolano la
successione, chi si arricchisce, nella nuova situazione,potrà godersi in vita
le proprie ricchezze ma alla sua morte tutte i beni passeranno allo Stato. Così
come devono essere disegnate le funzioni delle banche; come devono essere
assunti provvedimenti per quanto riguarda i rapporti di lavoro, la loro
stabilità, la loro remunerazione, ecc., costruendo uno spazio operativo per i
sindacati e per i dipendenti, insomma tutto quanto fosse necessario per
contrastare l’iniqua società.
L’affermarsi
di una società equa e di una città giusta non si realizza per autonomismi né
per automatismi, ma ha bisogno di un governo dal chiaro indirizzo, fornito di
una piena capacità realizzativa e da un forte principio di trasparenza, esito
di una mobilizzazione di massa.
Solo
in questo modo nulla sarà come prima,
ma non si può aspettare sdraiati al sole, ci vuole impegno individuale e
collettivo, intelligenza sociale e forme nuove di organizzazione, impegno
partecipativo e controllo collettivo. Si tratta di rendere operativi gli
insegnamenti indiretti della pandemia.
Nessun commento:
Posta un commento