Diario
10 maggio 2020
“come
è bella la città”, questo verso di una canzone, di cui non ricordo l’autore, mi
rimbomba in testa in questi giorni quando leggo rilevanti architetti che
sollecitano il ritorno nei “piccoli centri”; poi questa settimana Koolhaas in
una intervista su Robinson (supplemento libri di La Repubblica), sostiene che “la
campagna ci salverà”, tuttavia il suo non è un ennesimo ritorno in campagna ma delinea
un universo articolato di insediamenti, di tecnologia, di relazioni, insomma
non un “ritiro” ma una “opportunità professionale e di qualità della vita”.
Che
ci sia un problema non si può negare, ma non convince in generale questa
contrapposizione, nella quale la città rischia di essere abbandonata a se
stessa, nell’attesa che i ceti meglio attrezzati, da tutti i punti di vista, si
spostino.
La
città è all’origine di tutti gli avanzamenti sociali, tecnici, economici e
scientifici della specie umana. Ebbene si è la più grande invenzione, se
vogliamo usare questo termine, della specie, un fattore di promozione di tutto
il resto, sia come risposta a specifiche necessità, sia come un “trovato” della
scienza e dello studio dei fenomeni naturali e sociali.
La
città cresce di dimensione, in popolazione e in territorio, fino a diventare
metropoli. Ma non si tratta di una questione di quantità, o meglio sì la
quantità finisce per generare nuove opportunità, nuovi servizi. Tanto per fare
un esempio un produttore di “orchidee candite”, genere voluttuario gradito da
solo alcuni pochi buongustai, si localizzerà in una metropoli, perché solo la
massa della popolazione metropolitana potrà garantire quel numero ristretto di
consumatori necessari alla sopravvivenza dell’attività. Qualcuno potrebbe
obiettare che quella produzione potrebbe essere effettuata anche in un piccolo
centro, tanto poi Amazzon potrebbe trasferirla a livello mondiale. Vero, ma
dove nasce l’idea di produrre orchidee candite? Nasce nella città, nell’interazione
sociale, nel confronto, nell’esplorazione, ecc.
Ma
torniamo a bomba, non è pensabile programmare un universo urbano fatto di
alcune metropoli e di piccoli centri dispersi. Se riconoscessimo che la
quantità di popolazione interconnessa costituisse una enorme opportunità della
specie, allora il nostro obiettivo non potrebbe essere tanto quello di separare
le popolazione in metropolitana e no, ma piuttosto quello di far si che tutta
la popolazione sia metropolitana. Ma
essere metropolitana cosa significa? Non solo una connessione, uno scambio, una
qualche forma di relazione tra i membri della popolazione, ma anche la
possibilità di accedere e godere di servizi metropolitani, di poter utilizzare
le opportunità offerte dagli avanzamenti scientifici, tecnici e soprattutto
sociale.
Ma
per far questo è necessario che la popolazione viva concentrata in uno spazio
limitato? No! Ma è necessario che ogni insediamento della specie abbia le
caratteristiche di una metropoli, quella che, in altre occasioni abbiamo
chiamata la realizzazione di metropoli territoriale.
Cioè di una popolazione che nella sua dimensione appaia come una metropoli me
che si insedia in un territorio ampio e in modo diffuso, ciascuno guidato dalle
proprie esigenze e dalle proprie scelte culturali, ma godendo di tutti i
servizi e di tutte le opportunità che riconosciamo come metropolitane ai quali
accedere direttamente o a mezzo delle nuove tecnologie e dell’intelligenza
artificiale.
Ma
per realizzare tutto questo saranno necessari investimenti rilevanti, senza i
quali l’appello al ritorno ai piccoli borghi rischia di essere o la costruzione
artificiale di paradisi per pochi, o la discriminazione per molti.
Resta
un dubbio, ma su questo tema mi pare di capire che il dibattito sia molto
accesso: sono eguagliabili il rapporto
tra le persone nella forma mediata dalla tecnologia rispetto a quello nella forma faccia a faccia, e non tanto in
relazione alla soddisfazione personale,
ma soprattutto per i rilevanti effetti cognitivi e quindi di produzione di
nuove idee e di nuovi progetti.
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