Nel libro Francesco Erbani
(Non è triste Venezia, Manni,
2018) della situazione di Venezia
focalizza tre aspetti: essere un modello di città per il futuro; la gravità del
fenomeno turistico; il ruolo della
laguna. Venezia obbliga, con la rilevanza dei suoi fenomeni, a seguire tracce
prestabilite.
Venezia città modello per il futuro (niente auto, nessun consumo di suolo, capacità di ricostruirsi molto alta), paradossalmente verrebbe da dire, data la sua vivibilità, “speriamo di no”. Come sarà la città del futuro? nessuno si azzarda in un’epoca di grandi trasformazioni (scientifiche, tecnologiche, sociali e culturali) a fare previsioni, e poi proiettare soluzioni che risolvano i problemi dello stato quo, non pare un buon metodo. Certo che Venezia è bellissima, la sua morfologia, la sua architettura, le modalità scelte della sua organizzazione funzionale la fanno preferire ad altre città, ma questo fino a quando non poniamo attenzione alla “condizione urbana” che proprio a Venezia mostra la sua indipendenza dalla morfologia urbana e si presenta disarmonica a quella. Sono pochi gli studiosi della città disposti ad accettare la separazione tra morfologia e condizione urbana, una relazione simbiotica che è stata valida per millenni.
Si può essere d’accordo con l’autore che Venezia, anche per le sue caratteristiche, potrebbe trovare la sua rivitalizzazione nello sviluppo di attività innovative, di ricerca, di un artigianato di qualità ecc. Si tratta di ipotesi che si sventolano da vent’anni, ma che non hanno mai trovato realizzazione. E se qualcosa è stata fatta in questa direzione, questa è stata soffocata dall’inettitudine della pubblica amministrazione e dalla sordità della società veneziana.
Una sordità determinata dall’enorme frastuono del turismo. Erbani dedica una parte consistente del suo lavoro a mettere in chiaro il peso del turismo nella trasformazione della città, nello spopolamento (permanente), nella modifica della struttura del commercio, ecc. Tutte questioni documentate che il nostro ha utilizzato per offrire un quadro chiaro e una spiegazione sicura. Una piccola obiezione mi sento di fare a proposito della questione delle “grandi navi” crocieristiche: tale questione non può essere trattata come un problema in sé, essa è interna al problema del turismo, del suo controllo, della sua limitazione, presa in se stessa rischia di essere un diversivo.
Sulla laguna, sul rapporto acqua/terra l’autore dice molte cose condivisibili, ma ci si poteva aspettare il tentativo di legare questa questione a quella iniziale del rinnovamento della città attraverso l’innovazione e le nuove tecnologie. Meraviglia l’aver accolto le “voci” perplesse circa la funzionalità del Mose (il sistema che dovrebbe difendere la città dalle acque alte), senza porre attenzione che lo stesso sistema è in funzione a Chioggia, e difende quella cittadina da molti anni.
È certo che l’amministrazione del Consorzio Venezia Nuova, con le sue politiche di spreco e corruzione, costringe oggi a discutere di quello che si sarebbe potuto fare e che non si è fatto. Si ha l’impressione che le responsabilità della “politica” (locale e nazionale) non sono state piccole. Appare una sorta di “spartizione”, la politica affidava senza guida e di fatto senza controllo al Consorzio la gestione di enormi risorse in cambio di piccoli favori. Molte voci si sono alzate contro questa situazione, molti sussurri alle orecchie dei politici che sembravano più attenti, ma l’esito è sempre stato nullo. Ma qui, bisogna dirlo, una parte della società veneziana è corresponsabile, la sua divisione in pro Mose e contro Mose è stata deleteria, anche perché ha finito per giustificare l’ignavia politica.
Venezia città modello per il futuro (niente auto, nessun consumo di suolo, capacità di ricostruirsi molto alta), paradossalmente verrebbe da dire, data la sua vivibilità, “speriamo di no”. Come sarà la città del futuro? nessuno si azzarda in un’epoca di grandi trasformazioni (scientifiche, tecnologiche, sociali e culturali) a fare previsioni, e poi proiettare soluzioni che risolvano i problemi dello stato quo, non pare un buon metodo. Certo che Venezia è bellissima, la sua morfologia, la sua architettura, le modalità scelte della sua organizzazione funzionale la fanno preferire ad altre città, ma questo fino a quando non poniamo attenzione alla “condizione urbana” che proprio a Venezia mostra la sua indipendenza dalla morfologia urbana e si presenta disarmonica a quella. Sono pochi gli studiosi della città disposti ad accettare la separazione tra morfologia e condizione urbana, una relazione simbiotica che è stata valida per millenni.
Si può essere d’accordo con l’autore che Venezia, anche per le sue caratteristiche, potrebbe trovare la sua rivitalizzazione nello sviluppo di attività innovative, di ricerca, di un artigianato di qualità ecc. Si tratta di ipotesi che si sventolano da vent’anni, ma che non hanno mai trovato realizzazione. E se qualcosa è stata fatta in questa direzione, questa è stata soffocata dall’inettitudine della pubblica amministrazione e dalla sordità della società veneziana.
Una sordità determinata dall’enorme frastuono del turismo. Erbani dedica una parte consistente del suo lavoro a mettere in chiaro il peso del turismo nella trasformazione della città, nello spopolamento (permanente), nella modifica della struttura del commercio, ecc. Tutte questioni documentate che il nostro ha utilizzato per offrire un quadro chiaro e una spiegazione sicura. Una piccola obiezione mi sento di fare a proposito della questione delle “grandi navi” crocieristiche: tale questione non può essere trattata come un problema in sé, essa è interna al problema del turismo, del suo controllo, della sua limitazione, presa in se stessa rischia di essere un diversivo.
Sulla laguna, sul rapporto acqua/terra l’autore dice molte cose condivisibili, ma ci si poteva aspettare il tentativo di legare questa questione a quella iniziale del rinnovamento della città attraverso l’innovazione e le nuove tecnologie. Meraviglia l’aver accolto le “voci” perplesse circa la funzionalità del Mose (il sistema che dovrebbe difendere la città dalle acque alte), senza porre attenzione che lo stesso sistema è in funzione a Chioggia, e difende quella cittadina da molti anni.
È certo che l’amministrazione del Consorzio Venezia Nuova, con le sue politiche di spreco e corruzione, costringe oggi a discutere di quello che si sarebbe potuto fare e che non si è fatto. Si ha l’impressione che le responsabilità della “politica” (locale e nazionale) non sono state piccole. Appare una sorta di “spartizione”, la politica affidava senza guida e di fatto senza controllo al Consorzio la gestione di enormi risorse in cambio di piccoli favori. Molte voci si sono alzate contro questa situazione, molti sussurri alle orecchie dei politici che sembravano più attenti, ma l’esito è sempre stato nullo. Ma qui, bisogna dirlo, una parte della società veneziana è corresponsabile, la sua divisione in pro Mose e contro Mose è stata deleteria, anche perché ha finito per giustificare l’ignavia politica.
So bene che erano in campo
opzioni d’intervento diverse, ma era chiaro che Porto Marghera non era in
discussione, con quello che significava in termini di transito di navi e quindi
di necessità di canali. La politica
locale avrebbe dovuto essere il propellente non di una mediazione, ma piuttosto
di una integrazione delle due ipotesi (come alla fine si finirà per fare), ma
contemporaneamente essere il garante di un “resto”, per la città in termini di tecnologia, ricerca,
innovazione. Proprio questo ruolo è mancato: far fruttare il finanziamento
pubblico per la salvaguardia di Venezia e della laguna, anche per avviare la
ricostituzione di un tessuto innovativo, di scienza, tecnologia e
ricerca.
Francesco Indovina
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