venerdì 24 aprile 2015

La “questione”: case vuote e cittadini senza case

La “questione”: case vuote e cittadini senza case (°)
di Francesco Indovina

La questione della casa ha costituito, da sempre nel nostro Paese, un punto politico non risolto, e fa specie che tra il gran numero di parole usate per prospettare il fiorente futuro del paese ministri e sottosegretari usino con moltissima parsimonia il tema della casa.
Al tema della casa si può guardare da almeno due punti di vista: tenendo conto del settore edilizio o, invece, applicando attenzione ai modi di abitare (o non abitare) dei cittadini.
Sul primo aspetto non ci si vorrebbe dilungare molto ma alcune poche cose vanno dette. Dopo la crisi e per effetto della crisi è impensabile che si ripeta la consunta affermazione che “quando il settore edilizio tira, tutta l’economia andrà bene”, e di conseguenza bisogna porre il massimo impegno per incentivare tutte le iniziative che possano rimettere in moto l’economia del mattone. Nessuno può dimenticare che all’innesto della crisi attuale abbiano fornite un fondamentale contributo le “bolle immobiliari” (figlie, anche di quell’adagio, oltre che dell’interesse della finanza). 
Anche se la crisi economica generale e quella nel settore avessero finito per determinare una diminuzione dei prezzi delle abitazioni e anche   se si segnalasse una ripresa (modesta) delle richieste di mutuo, si è ben lontani dalla situazione degli anni antecedenti la crisi. Inoltre bisognerà prendere atto che la dimensione del patrimonio edificato è di gran lunga eccedente la popolazione residente, che  la domanda per seconde case risulta in contrazione, per effetto della crisi economica ma  anche per le sempre crescenti, anche se non sufficienti, politiche di salvaguardia del territorio e  data la mancata espansione dell’occupazione giovanile, che dovrebbe costituire, teoricamente, la fascia di domanda più dinamica, per immaginare improbabile un rilancio del settore edilizio.
Bisognerà accontentarsi di qualche piccolo passo, tenuto conto anche del fatto che una quota rilevante (intorno al 40%) degli acquisti recenti riguarda sistemazione per lavoro o studio (fuori sede), e quindi si tratta, verosimilmente, di un patrimonio in rotazione.
Detto questo resta immutato ed anzi si aggrava ogni giorno la questione abitativa: crescono le case vuote (tra i due ultimi censimenti sono aumentate del 25%), ma crescono anche le persone e la famiglie senza casa. Questa contraddizione è una costante della situazione italiana, denunziata fin dagli anni ’70 e che si è incrementata anno dopo anno.
La ragione delle case vuote sono note. Il grande movimento migratorio (dal Sud al Nord, dalla campagna alla città, e dalla montagna alla pianura) ha costituito motivo di abbandono di un patrimonio in continuo e crescente degrado e che difficilmente, anche per la sua localizzazione, potrà essere utilizzato (tranne speranzose e non fondate  ipotesi di ritorno alla campagna). Lo sviluppo delle seconde case per villeggiatura costituisce una quota rilevante di questo patrimonio vuoto. Si tratta di una quota che subisce modeste contrazioni nei casi nei quali queste case possano essere trasformate, data la loro localizzazione e il tipo di tecnologia in dotazione, in case permanenti e lasciate in uso a figli o nipoti che si sposano (senza casa) o che vorrebbero acquisire una loro autonomia abitativa. Lo stock complessivo delle “seconde case”, per localizzazione e tipo di attrezzature solo in parte potrebbe essere trasformate in abitazioni permanenti (qui entrerebbero in gioco organizzazione del territorio, sistema della mobilità, ecc.)
Infine esiste una quota consistente di abitazioni che sebbene poste sul mercato, per l’affitto o la vendita, non trovano aspiranti clienti. La crisi occupazionale, la disoccupazione stabile che coinvolge anche quote rilevante di ceto medio, la disoccupazione giovanile e, in ultimo, nuovi standard e idee dell’abitare, sono tutti elementi che spiegano questa situazione.
Si propone di prendere le mosse da quest’ultima fattispecie per fare qualche ragionamento, escludendo le famiglie solvibili rispetto all’offerta che sebbene poco numerose appena si acconciano a scegliere l’acquisto, ma anche l’affitto, fanno gridare alla “luce infondo al tunnel” della crisi.
In sostanza da una parte abbiamo un offerta di abitazioni (in vendita o in affitto) e dall’altra individui e famiglie che non sono in grado di accogliere l’offerta di mercato. Non è chiaro se l’offerta sia quantitativamente adeguata alla domanda potenziale, di questa domanda si fa poca analisi e poca inchiesta (gli iscritti nelle liste dei singoli comuni sono un “indice”, ma non la complessiva realtà, anche le indicazioni che vengono da istituzioni di assistenza, come la Caritas, ci dicono della gravità del fenomeno ma non della sua concreta e reale consistenza. Avanzo un’ipotesi, ragionevole, che l’offerta quantitativa, a prescindere dai prezzi di mercato, non sia sufficiente a soddisfare il “fabbisogno” (espresso o non espresso).
Questo fabbisogno è composto da individui e famiglie che possiamo classificare nelle seguenti coorti:
a)     nulla tenenti (poveri);
b)    sfrattati per morosità (altra versione dei poveri);
c)     che hanno perduto la casa perché non hanno soddisfatto gli impegni assunti con il mutuo (nel nostro paese non sono molte);
d)    immigrati (clandestini o meno, con poche risorse);
e)     capienti ma non a sufficienza rispetto ai prezzi di mercato.
A questi andrebbero aggiunti quote di domande temporanei come quelle degli studenti e dei lavoratori fuori sede. Ma non vorremmo ulteriormente complicare il ragionamento.
Questo gruppo tende sempre più a dilatarsi: per la crisi economica che butta in strada donne e uomini, che non offre che occupazione marginale, senza futuro e insostenibile economicamente ai giovani dei due sessi; per il fallimento completo della politica abitativa nel nostro paese.
L’idea che il problema abitativo si sarebbe risolto offrendo a tutti la possibilità di godere di una casa in proprietà è miseramente naufragata, così come ha fatto la stessa fine l’idea che erano i vincoli posti al mercato, con l’equo canone, a non permettere la soluzione del problema e che quindi cancellare il controllo sui fitti (modesto per altro e spesso trasgredito) era necessario per permettere al mercato di trovare il proprio equilibrio e risolvere il problema abitativo. In realtà ogni provvedimento che trasferiva e trasferisce la soluzione del problema al mercato non fa che aggravare la situazione.
Una soluzione di questi tipo sarebbe oggi ancora più paradossale tenuto conto che il 20% delle famiglie italiane è stata classificata (nel 2013, oggi la situazione è più grave) in povertà (assoluta e relativa); si tratta di 10 milioni di persone di cui 6 milioni in povertà assoluta. Sulla dimensione della povertà sulla sua distribuzione spaziale e sociale, sugli interventi, ecc. ci sarebbe molto da dire ma non è tema di queste note, ma va detto che si tratta di una popolazione che somma vari disagi a quelli economici si sommano quelli abitativi.
Il nostro è il paese, in Europa, con il patrimonio abitativo pubblico di minor dimensione, è, inoltre, sicuramente il peggior gestore di questo patrimonio, sia sotto l’aspetto del controllo degli aventi diritto (dando luogo non solo ad abusi ma a veri e propri favoritismi) che sotto l’aspetto della manutenzione (non è un caso che una quota di questo patrimonio non è abitabile). Per non parlare della periodica vendita di parte di questo modesto patrimonio.
Le persone del gruppo e) potrebbero essere aiutate con qualche provvedimento di aiuto, con accordi con la proprietà, ecc., a risolvere il problema abitativo anche all’interno del mercato esistente. Ma attenzione, e questo non solo per gli “aiutati” ma anche per chi trova una propria autonoma soluzione di mercato, si tratta di individui e famiglie che spesso si accollano un costo per la casa del tutto incongruo rispetto al loro reddito, con conseguente  contrazione dei consumi, anche grave, dei beni essenziali.  Esistono dati incerti ma significativi del fenomeno, e per quanto sacrifici facciano si tratta di situazioni che sboccheranno nello sfratto o nell’esproprio da parte della banca.
Complessivamente gli altri individui e famiglie potranno pensare di vedere risolto il loro problema solo sulla base di un ampio e articolato intervento pubblico. Ma perché questo sia efficace ha bisogno di misurarsi con il problema dell’abitare non solo con quello della casa, e considerare una qualche soluzione dell’emergenza, soluzione  tampone, lungo una via di soluzione permanente. Non si può, cioè, pensare soltanto ad una soluzione di medio-lungo periodo e non occuparsi dell’emergenza (mentre il medico studia il malato muore).
Per quanto riguarda l’emergenza sarebbe ragionevole fossero  presi provvedimenti immediati in grado di non aggravare la situazione: blocco degli sfratti e blocco degli espropri da parte delle banche (per modesti che siano i casi). Inoltre dovrebbero essere presi provvedimenti idonei a realizzare delle “case parcheggio”; la gran mole degli edifici di proprietà pubblica, come caserme, magazzini, complessi, ecc., potrebbero essere attrezzate in breve tempo, magari con l’aiuto dei futuri utenti, per risolvere temporaneamente il problema di chi non ha un tetto sulla testa. Sarebbe un uso sociale, equo e civile di questo patrimonio piuttosto che venderlo per fare cassa (e per le modalità come queste vendite vengono fatte, contribuire alla manomissione delle città).
Così come non dovrebbe essere esclusa l’occupazione temporanea delle case vuote, e nel caso specifico le amministrazioni comunali dovrebbero operarsi perché non avvengano sgombri di abitazioni o edifici già occupati.
La questione come è noto non è soltanto un “tetto sulla testa”, ma anche e soprattutto una questione dell’abitare, si tratta cioè di “costruire” porzioni di città dotate di servizi (pubblici e privati), di infrastrutture, di servizi collettivi, di verde ecc., e di una presenza di diversità sociale.
È noto che una politica keynesiana non goda di buona stampa presso i nostri governanti, crediamo anche che pensare a soluzioni esclusivamente keynesiane per l’uscita dalla crisi sia forviante date le forze in gioco e relativi comportamenti economici, politici e sociali, ma crediamo che una politica che abbia un’impronta pubblica molto consistenze possa alleviare e mitigare  situazioni di disaggio e contribuire a migliorare e mitigare la situazione occupazionale. Quello che intendo sostenere è la necessità di un programma straordinario pubblico per la casa. Un programma articolato che mobiliti risorse che oggi vengono utilizzate a fini elettorali e che non incidono né nelle situazioni sociali destinatari, né sul clima economico complessivo.    
Indicativamente e un po’ semplicisticamente questo piano dovrebbe avere quattro punti di forza:
1.     l’emergenza, di cui si è fatto cenno precedentemente;
2.     il recupero (un tempo si sarebbe detto il riuso) di parti di città abbandonate, soprattutto parti del centro storico. Con due conseguenze positive, quello di venire incontro al bisogno abitativo e quello di riqualificare porzioni di città e come conseguenza la città tutta. È noto che questo tipo di intervento ha dovuto nel tempo superare due ostacoli: il primo riguarda la mobilizzazione di risorse private, mentre il secondo fa riferimento a spesso non giustificati vincoli di trasformazione. Nessuno di questi ostacoli è sembrato superabile se non per “episodi” molto esigui o per casi molto noti e celebrati ma proprio perché supervano tali ostacoli con l’intervento pubblico diretto, sia economico che tecnico. Oggi si tratta di (ri)puntare sull’intervento pubblico, su un coinvolgimento culturale e dei saperi che nel rispetto non ossessivo dell’identità storica apra verso processi di trasformazione (l’intervento pubblico a differenza di quello privato, garantisce il rispetto di vincoli ragionevoli posti), ma anche sulla costruzione di laboratori di quartieri che possano mobilitare forse sociali e i futuri possibili utenti;
3.     l’affermarsi, come proposto dalla cultura più avanzata e sensibile, di un nuovo standard nei processi di trasformazione: il 30% dell’edilizia realizzata dovrebbe essere a prezzi controllati e calmierati, affidati a inquilini indicati dalle amministrazioni comunali (magari per sorteggio);
4.     piani di sviluppo integrati di nuova edilizia pubblica attenti alla dotazione di infrastrutture e servizi, ai collegamenti, e agli impianti collettivi. In questi piani potrebbero essere integrati facilmente e favorevolmente anche interventi privati (vedi sopra). Si tratta, soprattutto, di cambiare strada rispetto alle esperienze del passato la maggior parte delle quali non si possono che segnalare come incongrue (e non ci si riferisce ai casi limite delle Vele a Napoli o dello Zen2 a Palermo, ma all’insieme dell’edilizia pubblica).

Non si è fatto riferimento alla presenza di individui e famiglie di immigrati extra-comunitari, non per indifferenza ma perché questa popolazione, a prescindere dalla cittadinanza, debba godere di diritti uguali a quelli dei cittadini autoctoni. Non si tratta di una versione celata di un indirizzo di integrazione obbligatorio, ma solo dalla convinzione che l’uguaglianza dei diritti permette una migliore vivibilità alla società e anche ai singoli una espressione di identità non antagonistica (né sul piano sociale, né su quello politico).
Ho cercato di cogliere gli elementi presenti nelle relazioni di questa sezione ed anche nell’insieme del seminario, spero di esserci riuscito. Ho la piena consapevolezza che quanto detto in queste brevi note trova maggiore giustificazione e ricchezza nei testi dei colleghi, così come ho coscienza che le proposte sono delle semplificazioni e che esse hanno bisogno di più attente considerazioni, di riflessione, di documentazione e di un lavoro collettivo. Tuttavia mi è sembrato necessario, data la morta gora della politica ma anche delle nostre discipline, indicare una linea di indirizzo che sembra, non solo a me, l’unica per affrontare il tema della questione abitativa che coinvolge milioni di persone e famiglie.   

(°) in Atti del Seminario Il Diritto alla Casa, a cura di Laura Fregolent





Nessun commento:

Posta un commento