La “questione”: case vuote e cittadini senza case (°)
di Francesco Indovina
La questione della casa ha costituito,
da sempre nel nostro Paese, un punto politico non risolto, e fa specie che tra
il gran numero di parole usate per prospettare il fiorente futuro del paese ministri
e sottosegretari usino con moltissima parsimonia il tema della casa.
Al tema della casa si può
guardare da almeno due punti di vista: tenendo conto del settore edilizio o,
invece, applicando attenzione ai modi di abitare (o non abitare) dei cittadini.
Sul primo aspetto non ci si
vorrebbe dilungare molto ma alcune poche cose vanno dette. Dopo la crisi e per
effetto della crisi è impensabile che si ripeta la consunta affermazione che
“quando il settore edilizio tira, tutta l’economia andrà bene”, e di
conseguenza bisogna porre il massimo impegno per incentivare tutte le
iniziative che possano rimettere in moto l’economia del mattone. Nessuno può
dimenticare che all’innesto della crisi attuale abbiano fornite un fondamentale
contributo le “bolle immobiliari” (figlie, anche di quell’adagio, oltre che
dell’interesse della finanza).
Anche se la crisi economica
generale e quella nel settore avessero finito per determinare una diminuzione
dei prezzi delle abitazioni e anche se si segnalasse una ripresa (modesta) delle
richieste di mutuo, si è ben lontani dalla situazione degli anni antecedenti la
crisi. Inoltre bisognerà prendere atto che la dimensione del patrimonio
edificato è di gran lunga eccedente la popolazione residente, che la domanda per seconde case risulta in
contrazione, per effetto della crisi economica ma anche per le sempre crescenti, anche se non
sufficienti, politiche di salvaguardia del territorio e data la mancata espansione dell’occupazione
giovanile, che dovrebbe costituire, teoricamente, la fascia di domanda più
dinamica, per immaginare improbabile un rilancio del settore edilizio.
Bisognerà accontentarsi di
qualche piccolo passo, tenuto conto anche del fatto che una quota rilevante
(intorno al 40%) degli acquisti recenti riguarda sistemazione per lavoro o
studio (fuori sede), e quindi si tratta, verosimilmente, di un patrimonio in
rotazione.
Detto questo resta immutato
ed anzi si aggrava ogni giorno la questione abitativa: crescono le case vuote (tra i due ultimi censimenti
sono aumentate del 25%), ma crescono anche le persone e la famiglie senza casa. Questa contraddizione è una
costante della situazione italiana, denunziata fin dagli anni ’70 e che si è
incrementata anno dopo anno.
La ragione delle case vuote
sono note. Il grande movimento migratorio (dal Sud al Nord, dalla campagna alla
città, e dalla montagna alla pianura) ha costituito motivo di abbandono di un
patrimonio in continuo e crescente degrado e che difficilmente, anche per la
sua localizzazione, potrà essere utilizzato (tranne speranzose e non fondate ipotesi di ritorno alla campagna). Lo sviluppo
delle seconde case per villeggiatura costituisce una quota rilevante di questo
patrimonio vuoto. Si tratta di una quota che subisce modeste contrazioni nei
casi nei quali queste case possano essere trasformate, data la loro
localizzazione e il tipo di tecnologia in dotazione, in case permanenti e
lasciate in uso a figli o nipoti che si sposano (senza casa) o che vorrebbero
acquisire una loro autonomia abitativa. Lo stock complessivo delle “seconde
case”, per localizzazione e tipo di attrezzature solo in parte potrebbe essere
trasformate in abitazioni permanenti (qui entrerebbero in gioco organizzazione
del territorio, sistema della mobilità, ecc.)
Infine esiste una quota
consistente di abitazioni che sebbene poste sul mercato, per l’affitto o la
vendita, non trovano aspiranti clienti. La crisi occupazionale, la
disoccupazione stabile che coinvolge anche quote rilevante di ceto medio, la
disoccupazione giovanile e, in ultimo, nuovi standard e idee dell’abitare, sono
tutti elementi che spiegano questa situazione.
Si propone di prendere le
mosse da quest’ultima fattispecie per fare qualche ragionamento, escludendo le
famiglie solvibili rispetto all’offerta che sebbene poco numerose appena si
acconciano a scegliere l’acquisto, ma anche l’affitto, fanno gridare alla “luce
infondo al tunnel” della crisi.
In sostanza da una parte
abbiamo un offerta di abitazioni (in vendita o in affitto) e dall’altra
individui e famiglie che non sono in grado di accogliere l’offerta di mercato. Non
è chiaro se l’offerta sia quantitativamente adeguata alla domanda potenziale,
di questa domanda si fa poca analisi e poca inchiesta (gli iscritti nelle liste
dei singoli comuni sono un “indice”, ma non la complessiva realtà, anche le
indicazioni che vengono da istituzioni di assistenza, come la Caritas, ci dicono della
gravità del fenomeno ma non della sua concreta e reale consistenza. Avanzo
un’ipotesi, ragionevole, che l’offerta quantitativa, a prescindere dai prezzi
di mercato, non sia sufficiente a soddisfare il “fabbisogno” (espresso o non
espresso).
Questo fabbisogno è composto
da individui e famiglie che possiamo classificare nelle seguenti coorti:
a)
nulla tenenti
(poveri);
b)
sfrattati per
morosità (altra versione dei poveri);
c)
che hanno perduto
la casa perché non hanno soddisfatto gli impegni assunti con il mutuo (nel
nostro paese non sono molte);
d)
immigrati
(clandestini o meno, con poche risorse);
e)
capienti ma non a
sufficienza rispetto ai prezzi di mercato.
A questi andrebbero aggiunti
quote di domande temporanei come quelle degli studenti e dei lavoratori fuori
sede. Ma non vorremmo ulteriormente complicare il ragionamento.
Questo gruppo tende sempre
più a dilatarsi: per la crisi economica che butta in strada donne e uomini, che
non offre che occupazione marginale, senza futuro e insostenibile
economicamente ai giovani dei due sessi; per il fallimento completo della
politica abitativa nel nostro paese.
L’idea che il problema
abitativo si sarebbe risolto offrendo a tutti la possibilità di godere di una
casa in proprietà è miseramente naufragata, così come ha fatto la stessa fine
l’idea che erano i vincoli posti al mercato, con l’equo canone, a non
permettere la soluzione del problema e che quindi cancellare il controllo sui
fitti (modesto per altro e spesso trasgredito) era necessario per permettere al
mercato di trovare il proprio equilibrio e risolvere il problema abitativo. In
realtà ogni provvedimento che trasferiva e trasferisce la soluzione del
problema al mercato non fa che aggravare la situazione.
Una soluzione di questi tipo
sarebbe oggi ancora più paradossale tenuto conto che il 20% delle famiglie
italiane è stata classificata (nel 2013, oggi la situazione è più grave) in
povertà (assoluta e relativa); si tratta di 10 milioni di persone di cui 6
milioni in povertà assoluta. Sulla dimensione della povertà sulla sua
distribuzione spaziale e sociale, sugli interventi, ecc. ci sarebbe molto da
dire ma non è tema di queste note, ma va detto che si tratta di una popolazione
che somma vari disagi a quelli economici si sommano quelli abitativi.
Il nostro è il paese, in
Europa, con il patrimonio abitativo pubblico di minor dimensione, è, inoltre,
sicuramente il peggior gestore di questo patrimonio, sia sotto l’aspetto del
controllo degli aventi diritto (dando luogo non solo ad abusi ma a veri e
propri favoritismi) che sotto l’aspetto della manutenzione (non è un caso che una
quota di questo patrimonio non è abitabile). Per non parlare della periodica vendita
di parte di questo modesto patrimonio.
Le persone del gruppo e)
potrebbero essere aiutate con qualche provvedimento di aiuto, con accordi con
la proprietà, ecc., a risolvere il problema abitativo anche all’interno del
mercato esistente. Ma attenzione, e questo non solo per gli “aiutati” ma anche
per chi trova una propria autonoma soluzione di mercato, si tratta di individui
e famiglie che spesso si accollano un costo per la casa del tutto incongruo
rispetto al loro reddito, con conseguente contrazione dei consumi, anche grave, dei beni
essenziali. Esistono dati incerti ma
significativi del fenomeno, e per quanto sacrifici facciano si tratta di
situazioni che sboccheranno nello sfratto o nell’esproprio da parte della
banca.
Complessivamente gli altri
individui e famiglie potranno pensare di vedere risolto il loro problema solo
sulla base di un ampio e articolato intervento pubblico. Ma perché questo sia
efficace ha bisogno di misurarsi con il problema dell’abitare non solo con quello
della casa, e considerare una qualche soluzione dell’emergenza, soluzione tampone,
lungo una via di soluzione permanente.
Non si può, cioè, pensare soltanto ad una soluzione di medio-lungo periodo e
non occuparsi dell’emergenza (mentre il medico studia il malato muore).
Per quanto riguarda
l’emergenza sarebbe ragionevole fossero
presi provvedimenti immediati in grado di non aggravare la situazione:
blocco degli sfratti e blocco degli espropri da parte delle banche (per modesti
che siano i casi). Inoltre dovrebbero essere presi provvedimenti idonei a
realizzare delle “case parcheggio”; la gran mole degli edifici di proprietà
pubblica, come caserme, magazzini, complessi, ecc., potrebbero essere
attrezzate in breve tempo, magari con l’aiuto dei futuri utenti, per risolvere temporaneamente
il problema di chi non ha un tetto sulla testa. Sarebbe un uso sociale, equo e
civile di questo patrimonio piuttosto che venderlo per fare cassa (e per le
modalità come queste vendite vengono fatte, contribuire alla manomissione delle
città).
Così come non dovrebbe essere
esclusa l’occupazione temporanea delle case vuote, e nel caso specifico le
amministrazioni comunali dovrebbero operarsi perché non avvengano sgombri di
abitazioni o edifici già occupati.
La questione come è noto non
è soltanto un “tetto sulla testa”, ma anche e soprattutto una questione
dell’abitare, si tratta cioè di “costruire” porzioni di città dotate di servizi
(pubblici e privati), di infrastrutture, di servizi collettivi, di verde ecc.,
e di una presenza di diversità sociale.
È noto che una politica
keynesiana non goda di buona stampa presso i nostri governanti, crediamo anche
che pensare a soluzioni esclusivamente keynesiane per l’uscita dalla crisi sia
forviante date le forze in gioco e relativi comportamenti economici, politici e
sociali, ma crediamo che una politica che abbia un’impronta pubblica molto
consistenze possa alleviare e mitigare
situazioni di disaggio e contribuire a migliorare e mitigare la
situazione occupazionale. Quello che intendo sostenere è la necessità di un
programma straordinario pubblico per la casa. Un programma articolato che
mobiliti risorse che oggi vengono utilizzate a fini elettorali e che non
incidono né nelle situazioni sociali destinatari, né sul clima economico
complessivo.
Indicativamente e un po’
semplicisticamente questo piano dovrebbe avere quattro punti di forza:
1. l’emergenza, di cui si è fatto cenno precedentemente;
2. il recupero (un tempo si sarebbe detto il riuso) di
parti di città abbandonate, soprattutto parti del centro storico. Con due
conseguenze positive, quello di venire incontro al bisogno abitativo e quello
di riqualificare porzioni di città e come conseguenza la città tutta. È noto
che questo tipo di intervento ha dovuto nel tempo superare due ostacoli: il
primo riguarda la mobilizzazione di risorse private, mentre il secondo fa
riferimento a spesso non giustificati vincoli di trasformazione. Nessuno di
questi ostacoli è sembrato superabile se non per “episodi” molto esigui o per
casi molto noti e celebrati ma proprio perché supervano tali ostacoli con
l’intervento pubblico diretto, sia economico che tecnico. Oggi si tratta di (ri)puntare
sull’intervento pubblico, su un coinvolgimento culturale e dei saperi che nel
rispetto non ossessivo dell’identità storica apra verso processi di
trasformazione (l’intervento pubblico a differenza di quello privato,
garantisce il rispetto di vincoli ragionevoli posti), ma anche sulla
costruzione di laboratori di quartieri che possano mobilitare forse sociali e i
futuri possibili utenti;
3. l’affermarsi, come proposto dalla cultura più avanzata
e sensibile, di un nuovo standard nei processi di trasformazione: il 30%
dell’edilizia realizzata dovrebbe essere a prezzi controllati e calmierati, affidati
a inquilini indicati dalle amministrazioni comunali (magari per sorteggio);
4. piani di sviluppo integrati di nuova edilizia pubblica
attenti alla dotazione di infrastrutture e servizi, ai collegamenti, e agli
impianti collettivi. In questi piani potrebbero essere integrati facilmente e
favorevolmente anche interventi privati (vedi sopra). Si tratta, soprattutto,
di cambiare strada rispetto alle esperienze del passato la maggior parte delle
quali non si possono che segnalare come incongrue (e non ci si riferisce ai
casi limite delle Vele a Napoli o dello Zen2 a Palermo, ma all’insieme
dell’edilizia pubblica).
Non si è fatto riferimento
alla presenza di individui e famiglie di immigrati extra-comunitari, non per
indifferenza ma perché questa popolazione, a prescindere dalla cittadinanza,
debba godere di diritti uguali a quelli dei cittadini autoctoni. Non si tratta
di una versione celata di un indirizzo di integrazione obbligatorio, ma solo
dalla convinzione che l’uguaglianza dei diritti permette una migliore
vivibilità alla società e anche ai singoli una espressione di identità non
antagonistica (né sul piano sociale, né su quello politico).
Ho cercato di cogliere gli
elementi presenti nelle relazioni di questa sezione ed anche nell’insieme del
seminario, spero di esserci riuscito. Ho la piena consapevolezza che quanto
detto in queste brevi note trova maggiore giustificazione e ricchezza nei testi
dei colleghi, così come ho coscienza che le proposte sono delle semplificazioni
e che esse hanno bisogno di più attente considerazioni, di riflessione, di
documentazione e di un lavoro collettivo. Tuttavia mi è sembrato necessario, data
la morta gora della politica ma anche
delle nostre discipline, indicare una linea di indirizzo che sembra, non solo a
me, l’unica per affrontare il tema della questione abitativa che coinvolge
milioni di persone e famiglie.
(°) in Atti del Seminario Il Diritto alla Casa, a cura di Laura Fregolent