Sempre città occasionale
di Francesco Indovina e
Valentina Simula
(in Inforum, ottobrre, Bologna)
1. Alla
continua ricerca di “occasioni”
La città “occasionale”
(Indovina, 1993) è stata il risultato della messa in mora, sostanziale, del
processo di pianificazione nel governo delle trasformazioni urbane; non sarebbe
possibile sostenere che oggi, dopo vent'anni, la pianificazione abbia assunto
il ruolo di direzione nel governo delle città che le compete. Ad eccezione che
in alcune città la pianificazione rischia di essere un “genere letterario” più
che uno strumento di governo della città; questa vanificazione è avvenuta con
più peso nei vent'anni a cavallo del secolo.
Il processo di deregulation,
che ha caratterizzato gli anni '80, infatti, non è stato contrastato né da
provvedimenti normativi, né tanto meno da una prassi di governo, al contrario
altri elementi hanno contribuito ad alimentare l’occasionalità nella gestione
del territorio. Si tratta di alcuni tratti significativi di questo periodo che
per realizzarsi hanno avuto la necessita di una “attitudine”, si potrebbe dire
così, dei governi delle città a distaccarsi dall'idea di applicare una
pianificazione, comunque definita, che definisse obiettivi e prospettive
future. Piuttosto si è teorizzato che era proprio nell'interesse collettivo e
dello sviluppo della città “cogliere” le occasioni, trasferendo a livello
collettivo quella che poteva essere una prassi individuale, forse non del tutto
giustificata, anche se comprensibile in una fa di disarticolazione sociale.
Affermare che ancora oggi
possa valere la definizione di città occasionale per molte delle città italiane
(e non solo), deve essere considerata una descrizione della dinamica di molte
di tali città. Questo non sta a significare che non esistano casi in cui si è
tentato un approccio coerente di pianificazione. Ma non volendo fare una
casistica, in questa sede non proponibile, ma volendo cogliere un indirizzo
generale, pare di poter dire che l'occasionalità sia la cifra giusta della
tendenza qui esaminata.
Ma il tempo non passa invano,
delle novità ci sono, quella che pare rilevante è il tentativo di nobilitare le
occasioni facendole diventare un elemento costitutivo del piano. Un
tentativo che nega di fatto ogni ragione d'essere del piano, che per sua
costituzione è la formalizzazione di obiettivi definiti e non di obiettivi
maturati per caso. I tentativi in questa direzione non hanno incontrato nessun
conforto da parte dei critici (tranne di quanti questo approccio hanno
teorizzato), ma piuttosto il consenso degli amministratori delle città, che
hanno posto nell'occasione la speranza di uscire dalle difficoltà di governo.
Tali “occasioni” (spesso
chiamate proprio così), sono state, ovviamente, presentate come vantaggiose per
la città e la relativa popolazione, ma si è oscurato il fatto che venivano
“offerte” da gruppi pochissimo attenti agli interessi comuni.
Per altro il tanto parlare
di “reti di città” non pare abbia prodotto significative modifiche nelle
politiche urbane, mentre ha prodotto forme nuove di organizzazione dell'insediamento
umano nel territorio che richiedono maggiore e migliore pianificazione. Ma
anche in questo caso piuttosto che governare questi processi di urbanizzazione
diffusa si è lasciato che il processo si auto-organizzasse determinando effetti
negativi sul consumo di suolo, sull'ambiente e sui costi di gestione dei
servizi. Quello che pare paradossale è che difronte a questi fenomeni urbanisti
attenti e progressisti, piuttosto che porsi il problema di come “pianificare”
questi processi abbiano assunto un atteggiamento critico verso tali fenomeni
denunciandoli come “negazione” della città e non comprendendo che si trattava
della ricerca di una diversa e migliore città.
La tendenza ad attivare
“piani strategici” (piuttosto che strategie di sviluppo) ha costituito un
escamotage che doveva compensare la mancanza di idee e di visione di
amministratori e tecnici, per acquisire lo status di strumenti adatti a
“creare” occasioni. Senza parlare delle opzioni di “marketing urbano” che
costituiscono una dichiarazione ufficiale per assecondare la città occasionale.
Gli elementi (reali e
materiali) che in questo ventennio hanno rafforzato lo sviluppo occasionale
della città non sono “nuovi” in assoluto, ma sicuramente è nuovo il peso
esercitato in questa fase storica. Da una parte si tratta del ruolo sempre
crescente assegnato al processo edilizio e dall’altra parte allo svilupparsi di
quella che è possibile chiamare l'urbanistica degli eventi.
Nell'anno di grazia 2012,
inoltre, non pare possibile affrontare il tema delle dinamiche urbane senza
fare riferimento agli effetti che la crisi economica determina sulla situazione
delle città e sul loro governo.
2. Il settore edilizio
Il settore edilizio ha
goduto e gode della fama, solo parzialmente veritiera (Indovina, 1972), di
essere un settore “volano”, al punto che è diventata verità non discutibile
l'affermazione che “quando il settore edilizio tira l'economia va bene”. In
questa versione si tratta di un settore che per le sue relazioni con gli altri
settori produttivi, determina il tenore del ciclo economico. Non è questa la
sede per contestare tale affermazione, ma quello che pare interessante è come
il settore edilizio abbia assunto una sua “autonomia”.
È possibile accettare
(criticamente) il ruolo di volano del settore edilizio, ma a patto di
considerarlo legato al ciclo economico stesso e alle modalità attraverso le
quali tale ciclo si manifesta. Così nel secondo dopoguerra il boom economico e
i grandi movimenti migratori avevano alimentato il ciclo edilizio urbano, mentre
più avanti negli anni il ciclo edilizio è stato alimentato da una domanda di
miglioramento abitativo, poi dalla domanda di seconde case, ecc.. Si è
argomentato che nei momenti di flessione dell'economia spingere il settore
edilizio può rilanciare l'economia (il volano). Quello che tuttavia è evidente
oggi è la crescente “autonomia” del settore, che si attorciglia su se stesso,
forza la domanda, sottrae risorse economiche agli altri settori produttivi e
determina la crisi. Non è questa la sede per cogliere come il settore da volano
di sviluppo sia diventato una volano della crisi, ma per quanto interessa in
questa sede è evidente che la crescita abnorme del settore sia stata
l'occasione di crescita insediativa fuori da ogni regola.
La dinamica urbana vive di
crescita edilizia, ma è quest'ultima che è funzionale alla prima, ma quando il
settore edilizio si rende autonomo è la prima che finisce “vittima”, infatti la
crescita dell'insediamento risulta avulso di ogni valutazione di fabbisogno o
se si preferisse anche di domanda. La crisi attuale di alcuni paesi (Usa e
Spagna in primis) e di alcune città, vittime di iniziative speculative di fondi
internazionali di origine, spesso, dai paesi arabi, legate ad una domanda delle
seconde e terze, quarte, ... case dei segmenti di popolazione molto ricca (gli
esempi di Londra, Dubai, ecc.), sono la dimostrazione di quanto qui affermato.
Anche in questo settore non
sono da sottovalutare gli effetti della ricerca della finanza internazionale di
occasioni di investimenti speculativi, e se alcuni di questi (molti?) sono
risultati fallimentari non è il caso di preoccuparsi per gli esiti negativi sul
piano finanziario, ma molto preoccupanti appaiono gli esiti di trasformazione
del territorio, manomissioni di ambienti, costruzioni di edifici interrotti,
ecc. L'euforia non controllata determina non solo guai finanziari (di cui non
ci occupiamo) ma guai territoriali che ci preoccupano.
3. Gli “eventi” .
Quella degli “eventi” ha
costituito una delle maggiore iatture che potevano capitare alle nostre città.
Non ci si riferisce, anche se la cosa ha un grande rilievo, ai fenomeni di
corruzione che hanno accompagnato, in generale, la realizzazione delle opere
destinate a permettere il pieno dispiegarsi dell'evento stesso, quanto piuttosto
agli effetti sia sulla pianificata crescita della città che sui “detriti” che
l'evento lascia in eredità alla città.
Ogni evento, per sua natura
eccezionale, pretende delle procedure eccezionali, delle risorse eccezionali ed
è, a parole, carico di meravigliosi effetti sulla città, sulla sua economia,
sulla sua visibilità internazionale, sulla qualità della vita dei cittadini,
ecc.
Ogni evento, proprio perché
è una manomissione dell'ordinaria dinamica della città, richiede la messa in
mora dell'eventuale piano della città e richiede procedure eccezionali e quasi
sempre urgenti. Si tratta di un'occasione che la città non può perdere. A
fronte di queste affermazioni ogni rispetto del piano, della normativa, delle
procedure, ecc. rischia di essere una meschinità nei confronti di una grande
possibilità offerta alla città.
Ogni evento “non costa”,
certo ci vorrà un contributo pubblico, ma a fronte ci saranno enormi vantaggi
economici per la città e per il paese intero. I contributi pubblici nel tempo
tendono a crescere continuamente di pari passo con la valutazione dei sempre
maggiori vantaggi.
Ogni evento lascerà alla
città un patrimonio di “opere” che potranno essere utilizzate al meglio come
centro di innovazione tecnologica, polo di eccellenza, incu batori di imprese,
ecc. O attrezzature che potranno essere poi utilizzate dalla popolazione. Per
gli eventi di natura sportiva questa ultima notazione risulta veritiera con le
seguenti cautele: talvolta il dimensionamento eccede le possibilità della
popolazione; gli impianti vanno gestiti e la gestione è costosa per cui non
sono rari i casi di impianti “abbandonati” (e non si fa riferimento alle opere
non terminate in tempo che restato quali scheletri abbandonati – mondiali di
nuoto in Italia compresi).
Molto più complessa è la
situazione che riguarda le esposizioni. In questo caso gli edifici costruiti
non sempre (o meglio quasi mai) hanno l'utilizzazione sperata e dichiarata
(centri di ricerca, poli di eccellenza, ecc. hanno bisogno di idee, uomini,
attrezzature e non solo di edifici). Più spesso di quanto si potesse temere si
tratta di edifici dall'incerta utilizzazione e comunque sottoutilizzati.
Una questione rilevante
dell'urbanistica degli eventi intesa come l'urbanistica che si piega alle
necessità dell'evento, è il fenomeno che è possibile definire della
“moltiplicazione”: le strutture che si sono realizzate per l'evento per essere
utilizzate pienamente hanno necessità che gli eventi si moltiplichino, ogni
evento richiama la necessità di un altro evento. In un processo di disastro
continuo.
4. La crisi economica
Se si volesse avanzare qualche considerazione sul
governo urbano nell'attuale fase di “crisi”, sarebbe necessario specificare la
natura di tale crisi. L'interpretazione che si tratti di una crisi, anche se
molto grave, congiunturale, non pare condivisibile; così come, la speranza che
prima o poi, tutto ritornerà come prima, per effetto della forza regolatrice
del mercato, pare infondata. L'attuale crisi appare come la manifestazione di
una trasformazione profonda del capitalismo, generata da una lunga stagione
liberista, soprattutto in campo finanziario,incompatibile con l'ordine sociale
al quale ci eravamo abituati. Insomma, nulla sarà come prima.
Dentro la dinamica della crisi il governo delle città
subisce dei pericolosi contraccolpi, nell'indifferenza dell'opinione pubblica
che è sottoposta al bombardamento ideologico dei sacrifici (termine che
vorrebbe indicare un fenomeno limitato nel tempo), ma che, più correttamente,
si dovrebbe chiamare impoverimento strutturale. Non sono rare le ciniche
opinioni di chi intravede in questa tendenza un dato positivo con l'affermarsi
di uno stile di vita più sobrio, dimenticando che tale impoverimento si applica
in modo differenziato alla popolazione, colpendo sempre chi ha meno, mentre chi
ha più trova in questa situazione opportunità di arricchimento.
Tornando al tema del governo
urbano non si possono considerare, in generale, gli amministratori locali
indifferenti alle condizioni delle popolazioni che sono insediate nei loro
territori. Molte amministrazioni risultano agguerrite nel contrastare le
politiche nazionali dei “tagli”, anche se con scarsi risultati. Molti ritengono
di fare “quello che possono, né pensano di poter fare di più”, anche se ciò che
riescono a fare non solo non pare sufficiente ma spesso finisce con l'essere
controproducente, aggravando le condizioni dei cittadini.
La metafora che ai più
sembra adattarsi a questa situazione è quella dell'incudine e del martello. Da
una parte si ha una popolazioni, che nella sua parte maggioritaria, vede una
contrazione del reddito; cioè la capacità di spesa di larghe fasce di
popolazione si contrae, con un peggioramento della condizione di vita.
Dall'altra parte le amministrazioni locali, specialmente quelle comunali,
subiscono tagli nei trasferimenti di risorse da parte statale e regionale,
effetto della crisi, e quindi finiscono per avere sempre meno risorse per la
gestione delle rispettive città.
Una situazione quale quella
descritta vorrebbe che le amministrazioni locali sviluppassero una politica
espansiva dei servizi sociali in modo da compensare le minori risorse delle
famiglie. Ma una politica di espansione dei servizi, ripetono tutti, anche se
fosse necessaria, sarebbe impossibile a fronte di una contrazione delle
risorse.
È proprio questo stare tra
l'incudine e il martello che condiziona le amministrazioni locali e che le
spinge a fare scelte sbagliate, anche se suggerite e ugualmente attivate anche
a livello nazionale. Tali scelte, come si potrà osservare alimentano
ulteriormente la dinamica occasionale delle nostre città.
Una tra le principali scelte
è quella di vendere il rispettivo patrimonio immobiliare (palazzi, aree,
abitazioni, ecc.). Fare cassa pare sia la parola d'ordine. Pur non volendo
considerare il caso, pur reale, di vendita di uffici che poi l'amministrazione
pubblica ha affittato da chi li aveva acquistati (con una perdita secca per
l'amministrazione pubblica), questa scelta sembra su diversi piani un errore.
Intanto è difficile “vendere
bene” in una situazione di crisi (le cronache ci raccontano di una diminuzione
dei prezzi degli immobili anche del 20%); più che vendere in questo caso si
tratta di svendere. Ma non basta, per il tema che qui interessa c'è un secondo
aspetto che merita attenzione. Vendere da parte dell'amministrazione significa
garantire che l'acquirente faccia un buon affare (il privato altrimenti non ci
sta), il che significa garantire, secondo i casi, ampliamenti volumetrici,
cambiamenti di destinazioni d'uso, ecc. cioè azioni tutte che hanno poco a che
fare con una città pianificata.
Inoltre non è raro il caso
che alcuni di questi edifici siano stati già destinati a usi collettivi,
arricchendo la città di funzioni di qualità. È vero che molto spesso questi
progetti restano non attuati per anni, per carenza di risorse, ma è sicuro che
la vendita di questi edifici sottrae una possibile risorsa futura alla città.
Questo non vuole dire che
non ci possano essere edifici suscettibili di essere venduti a ragion veduta,
ma è chiaro che la fase di crisi non può costituire una fase positiva per
queste operazioni. Anche qui ancora l'incudine e il martello, bisognerebbe
vendere ma il tempo sarebbe sbagliato. Un'altra scelta è quella di accordare
credibilità alla pressione di promotori immobiliari per processi di
urbanizzazione e di trasformazione di destinazione d'uso dei suoli. Dentro la
crisi, si suggerisce, non si può andare per il sottile, se queste operazioni
portano risorse, sono da benedire. Anche se la crisi fornisce poche speranze di
buoni affari, c'è sempre chi crede che tutto possa riprendere come prima.
Queste due scelte appaiono
produrre risultati negativi e soprattutto mettono lo sviluppo della città in
mano ai privati, scardinando ogni possibile strategia di governo per il futuro.
Altre scelte, come ridurre
al minimo tutti gli interventi di manutenzione, o contrarre i servizi sociali,
ecc., sebbene abbiano effetto sulla qualità della città incidono in modo
marginale sul tema qui affrontato.
Quanto descritto mette in
luce che tali interventi “amministrativi” in realtà non incidono sulla crisi e
di fatto, oltre rendere più grave la condizione delle fasce di popolazione più
colpite, toglie all'amministrazione ogni potere di governo della città, con una
cessione di potere agli interessi privati. Non pare che questa possa essere la
strada virtuosa che le amministrazioni locali possono seguire, il governo delle
città e dei territori, soprattutto nella crisi, ha un forte bisogno di
innovazione, non già una semplice amministrazione di bilancio, né tanto meno
assecondare politiche di privatizzazione mai a beneficio collettivo.
5. Dalle occasioni alle
opportunità
La sintetica esplorazione
effettuata ha messo in evidenza come in realtà l'occasionalità nelle scelte di
sviluppo urbano più che ridursi ha trovato negli ultime 30 anni nuovo alimento
nei fenomeni che hanno investito la città. Le amministrazioni, grandi e
piccole, restano costantemente vigili nel cogliere le occasioni che si
presentano per la loro città. Tanto più la crisi morde le città, tanto più la
ricerca delle occasioni diventa nell'immaginario politico la soluzione.
Si tratta di un
atteggiamento, forse comprensibile ma non condivisibile, che viene alimentato
dalle critiche talvolta giustificate, ma più spesso errate, nei riguardi della
pianificazione. Vale la pena di sottolineare con forza che la ricerca di
occasioni corrisponde ad una cessione di potere; il governo del territorio
costituisce una delle principali funzioni delle amministrazioni locali, questo
sta a significare che l'amministrazione locale ha il potere, e dovrebbe avere
anche la capacità, di governare le trasformazioni della città e del territorio.
Una tale attitudine starebbe a significare che l'amministrazione locale tiene
il volante della dinamica urbana e territoriale e guida tale dinamica verso
obiettivi condivisi e verificati. Giocare con le occasioni assume il
significato di cedere il volante: la dinamica non è più guidata secondo
obiettivi condivisi, ma prende la strada delle occasioni offerte dagli
interessi che attraverso ad esse si materializzano. Una cessione di potere che
può essere perniciosa per la vita della città.
Si può sempre sostenere che
l'amministrazione non è obbligata a cogliere le occasioni, ma può scegliere tra
esse quelle che sono coerenti con i propri obiettivi di sviluppo. Si tratta di
una affermazione tanto ragionevole quanto inverosimile. L'amministrazione
potrebbe esercitare questo potere di scelta se non fosse presa al collo dalle
necessità e dalle scarsità delle risorse. La sua carenza cronica di risorse,
accentuata enormemente dalla crisi, rende questo possibilità di scelta più
ipotetica che reale.
Se si puntasse alle
opportunità con connotato endogeno, questo potrebbe essere il terreno su quale
l'intelligenza politica delle amministrazioni potrebbe esercitarsi.
L'attenzione dovrebbe essere rivolto alle conseguenze della globalizzazione,
della finanziarizzazione e della crisi economica e agli effetti prodotti in una
prospettiva di “rinnovo urbano” (Cecchini, in stampa). La ricerca delle
opportunità all'interno delle profondissime trasformazioni della nostra era
potrebbe permettere di trovare il bando della complicata matassa della realtà
per intrecciare i fili lunga la via della razionalità, della salvaguardia ambientale
e dell'eguaglianza sociale e fare delle nostre città un modello di vita.
Opere citate
Indovina, 1972, a cura di, Lo
spreco edilizio, Marsilio editore
Indovina, 1993, a cura di, La
città occasionale, Frango Angeli editore
Cecchini A. (in stampa), “A great
work:renovatio urbis in the age of globalisation”, in Maciocco G. Johansson M,
Serreli S. (eds) City Project. Public Space, Springer.
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