domenica 16 settembre 2018

Cristina Bianchetti, Spazi che contano


Cristina Bianchetti, Spazi che contano, Donzelli editore, 2916, pp. 119, 24,00 €

(da Città bene comune, La casa della cultura Milano, 2017)

Con questo suo ultimo lavoro Cristina Bianchetti continua, così a me pare, la sua esplorazione sulla fine dell’epoca moderna e sugli effetti di tale evento sul “fare” urbanistica.
Vorrei iniziare queste brevi note con una citazione del precedente lavoro (2011) della Bianchetti (Il novecento è davvero finito, sempre Donzelli editore); allora scriveva: “Un importante trasformazione nel regime economico e politico ha provocato (a partire dagli anni ottanta) lo smantellamento del regime keynesiano dei trent’anni successivi alla seconda guerra mondiale… Nei trent’anni di neoliberismo seguiti ai trenta gloriosi è cambiato il modo di insediarsi di famiglie, individui e imprese. È cambiato il territorio e il suo essere condizione nei processi di produzione, accumulazione e distribuzione di valore. È cambiato il rapporto del territorio con la politica: una politica che nel passato sapeva stare nel territorio e che oggi gioca il territorio contro la politica… Sono cambiate le grandi questioni pubbliche legate all’emancipazione, alla giustizia, alla politica della vita, riportate alla necessità di regolare preferenze, interessi, motivazioni personali. Naturalizzate in una dimensione che rimanda specificatamente all’individuo. Viene meno, in questa riduzione del pubblico all’individuale, il carattere politico, antagonista che esse avevano. Quel che si mobilita, nel mutare delle condizioni di sfondo, è una diversa accezione dei valori di riferimento. Cittadinanza, benessere, equità, funzionalità assumono declinazioni differenti che nel passato. Spesso una declinazione giuridica e regolatrice che li rende impegnativi in modo diverso”.
Il volume più recente indaga proprio queste trasformazioni, viste in se stesse e in relazione al territorio e alla sua progettazione (o mancata progettazione) dello stesso. L’autrice riconosce che una pianificazione funzionalista, cioè una pianificazione che assegna precisi ruoli e funzioni, non solo allo spazio ma anche agli individui e alle famiglie, nel neo-liberismo si scontra con le trasformazioni prima indicate, ma all’autrice non fa velo il “cambiamento”; dei nuovo moduli e modelli, usi e forme di regolazione, vede l’inadeguatezza (alla convivenza, direi) e anche una forma diversa di funzionalismo.
C’è un punto logico-interpretativo sul quale sarebbe necessario convenire. La pianificazione funzionalista non mai ha raggiunto pienamente i suoi obiettivi; sicuramente esprimeva il potere egemone e aveva chiare le relazioni tra territorio e accumulazione capitalistica, costruiva spazi conformi, ai quali il mercato dava “legittimazione democratica”, tuttavia questa regolamentazione è sempre risultata parziale. Ma non si tratta di incompetenza progettuale, ma della vivacità e vitalità della città, dall’essere un campo di contraddizioni, uno spazio espressivo di desideri, di volontà, di speranze e di angosce non coerenti. La città-fabbrica, che collegava la produzione tayloristica e l’operaio massa all’organizzazione della città è una metafora che non ha saputo cogliere la realtà della città. La condizione urbana per sua natura non è piegabile ad una solo dimensione, essa è plurima sul piano sociale, economico, culturale e politico, esprime progetti diversi non sempre compatibili, in questa situazione non solo sono notevoli le contraddizioni ma sono anche forti le tensioni nell’uso e nell’appropriazione dello spazio. Un territorio funzionalizzato costituisce una maglia, una rete, un perimetro, definiamolo come si preferisce, ma esso è continuamente forzato, è in continuo subbuglio.
Non condivido l’adesione dell’autrice alla tesi (di Bagnasco, ma non solo) secondo la quale il fordismo portava alla coincidenza industria/società; la trovo troppo schematica  e nega articolazione e ricchezza (di umori e interessi) della società, ed è solo con la fine del fordismo che l’individuo si è trovato non solo ma isolato. Marginalità, povertà, isolamento, diseguaglianze, alienazione, ecc. sono state anche modi di essere del potere fordista, questo non negando la forza di coesione, di lotta e, spesso, di vittoria dei lavoratori.
Il ruolo pubblico, negativo e positivo, è stato fondamentale nell’epoca fordista, per facilitare garanzie e opportunità, ma lo è anche (anche se sembra non saperlo) in epoca neo-liberista. È evidente che tanto più debole è il “potere” di regolazione (pubblica) tanto più numerosi, articolate e varie saranno le forzature.
Un ragionare in questo modo, dovrebbe liberare i mei colleghi urbanisti dall’angoscia del fallimento dei rispettivi progetti, ma non dovrebbe costituire un’opportunistica disponibilità a fare con faciloneria. I cambiamenti analizzati dalla Bianchetti sono reali, ma essi chiedono, ai fini di una convivenza civile, libera ed equa una migliore pianificazione.
Nel libro che si assume come occasione di discussione l’autrice in qualche modo, e con la sua lingua, mi pare condivida quel punto di vista logico-interpretativo, non a caso scrive: “sottovalutazione dell’adattamento come meccanismo che permette alla città di funzionare; della sregolazione; della familiarizzazione tra individui e spazi che deriva dalle forme d’uso parziali, inventive, distorte. La città reale funziona per incoerenza e temporalità”, ma mi pare che questa riflessione è inerente la fase neo-liberista, mentre “incoerenza e temporalità hanno operato, in forme diverse, anche nei “gloriosi trenta”.
La tesi, molto interessante, della Bianchetti è che, nel neo-liberismo, si è finiti per ricadere in un nuovo  funzionalismo, denominato “funzionalismo umanista” (con una forte componente moralistica), che tende alla semplificazione, che (spera) di sciogliere nodi, mentre in realtà ha finito per perdere la grana fine del territorio e dei processi reali.
L’autrice confuta la capacità operativa del nuovo funzionalismo su tre piani: perché non riesce a fronteggiare il sovrapporsi di familiare ed estraneo (lo spazio è familiare o estraneo, intimo o esposto; inondato di luce, igienizzato; in realtà è anche oscuro, patologico, irrazionale, alienato); perché non riesce a trattare il corpo come canale di transito, operatore di relazioni complesse con lo spazio (i soggetti sono scarnificati e trattati come silhouette, mentre, avverte l’autrice, “quanto più il corpo interagisce con lo spazio, tanto più lo comprende. È l’intrico delle relazioni tra corpo e spazio che rende lo spazio conoscibile e trasformabile”); perché non riesce a misurarsi con le forme molecolari, sconnesse, micro della sovranità e del conflitto (la sovranità e la capacità di decidere sottratta ai singoli si esprime in piccole “bolle”, azioni ristrette che ogni volta  appaiono (o si credono) risolutive anche sul piano “locale” e che invece risulta soddisfacente sul piano dell’ego.
Il rapporto tra familiarità ed estraneità, tra corpi e spazio e tra sovranità e conflitto sono descritti come fondamentali per avere una rappresentazione e una interpretazione sufficientemente realistica della condizione urbana oggi. Senza questa consapevolezza il progetto assume connotati “evasivi, consolatorie o ideologici”. 
Mi pare di poter condividere, per quello che vale, questa impostazione, tuttavia mi pare necessario anche cercare la “radice” di questa situazione.  Il rapporto familiare/estraneo, corpo/spazio, sovranità/conflitto, nel testo analizzati in dettaglio e con ricchissimi riferimenti, non sono, secondo il mio parere, caratterizzati da una soggettività libera, indipendente e priva di condizionamenti. Non si tratta di riportare in auge quelle che vengono definite “vecchie ideologie” (o più modernamente “narrazioni”), ma neanche dimenticare le loro lezioni fondamentali. Non sostengo che uomini e donne siano delle marionette le cui parole, passi, movimenti e azioni, non siano espressione di una propria volontà, ma non posso non pensare che esistono interessi specifici, che esiste una più o meno vasta egemonia culturale, che esistono debolezze (economiche, sociali e culturali) dei singoli, e che il manifestarsi dei modi nei quali le tre precedenti relazioni si manifestano (in concreto) costituiscono molto spesso dei costrutti sociali. Per esempio, la concezione che, in generale, si ha dell’estraneo e della sua relazione con la familiarità non è pensabile che come esito di un costrutto sociale (e politico), che magari “usa” l’estraneità per altri fini.  Trovare queste radici non costituisce la soluzione, ma rappresenta la possibilità di una concettualizzazione ricca che può permettere una riconoscibilità dei processi in atto e indicare, così, come si possa intervenire in modo (parzialmente) risolutivo, senza coartare l’individualità, ma al contrario permettendogli di esprimersi al meglio in un contesto di convivenza e di maggiore libertà.
L’autrice sottopone ad acume critico il manifestarsi, dentro il neo-liberismo, di quello che possiamo chiamare il nuovo vocabolario della condizione urbana e dei modi come si esprime la “costruzione” della città. È apprezzabile che l’autrice anche adoperando la sua fine critica cerchi, tuttavia, di salvare, per così dire, elementi positivi che da queste nuove pratiche possono derivare. Per quanto mi riguarda mi sembra troppo generosa e ottimista.
Per esempio è messa in luce come l’abitare è sempre più segnato da nuove virtù: cooperazione, e condivisone danno luogo a nuovi spazi.  A Bianchetti il “vicinato” non sembra un’alternativa alla metropoli, piuttosto la riproposizione di una famigli, ma guarda a questi episodi con interesse perché li intrepreta come “ribaltamento di valori e gerarchie della città moderna”.
Così come lo stare entre nous “mette in scena una provocazione quella di una nuova urbanità che avviene fuori dalla polis”; anche se in queste esperienze riconosce folklore, vanità e leggerezza , crede che finiscano per “assumere un carattere politico” uno scandalo rispetto all’abitare della città moderna. Ma trattandosi di episodi molto parziali, meriterebbe una riflessione e delle analisi circa la relazione (funzionale?) che si determinano tra il “vivere tra di noi” e i modi dell’esistenza della città moderna che non viene vanificata da questi episodi. Forse esiste una relazione di funzionalità tra queste forme e il meccanismo economico che governa la città moderna (detto in modo sintetico e un po’ grossolano, non si tratta forse di uno “scaricare” su individui e famiglie la soluzione di problemi ai quali il Pubblico non sa dare risposte concrete?)
Una lunga citazione permette di mettere in chiaro il pensiero dell’autrice e esprime il nocciolo teorico e programmatico del testo: “Rimango convinta che un ripensamento dell’urbanistica, dei suoi temi, dei suoi progetti possa molto avvantaggiarsi dalla riflessione sulla tensione tra individualismo e condivisione; tra felicità privata e aggressività; tra chiusura in sé stessi e bon voisinage; tra sostegni burocratici dello Stato e protezione sociale ravvicinata, tra welfare tradizionale e welfare fondato sull’impegno volontario, l’altruismo, il dono; tra paternalismo del pubblico e neo-paternalismo della condivisione; tra i giochi stretti della Self Building City e quelli larghi del progetto abitativo contemporaneo. … Ciò che essi mettono in evidenza è a livello micro il perpetuarsi di alcune grandi questioni con le quali l’urbanistica si è misurata nel Moderno… Questi giochi, come già detto, non sono innocui. E sul piano spaziale hanno importanti conseguenze poiché perpetuano asimmetrie, differenziali di proprietà, di accessibilità, di diritto.”    
Quella che emerge è una concezione tutta politica dell’urbanista, una modalità di intervento che pur avendo come oggetto principale l’organizzazione dello spazio non dimentica che questa spazio è occupato e usato da donne e uomini, con le loro preferenze e con i condizionamenti delle loro azioni derivanti da collocazione sociale, economica e culturale, e ancora che in questa fase storica tende a prevalere un individualismo che si traduce in progetti e realizzazioni non omologhi. Non so se l’autrice condivide completamente l’opinione che oggi più di ieri l’urbanistica non consista nell’applicazione di modelli, più o meno perfetti, quanto sul governo delle trasformazioni. Solo in questo modo l’organizzazione spaziale (e quella sociale) possono sfuggire all’occasionalità e contraddittorietà dei comportamenti e dei progetti di vita. Se democrazia, trasparenza, equità, solidarietà e convivenza fossero le guide di tale governo allora le emergenze e le novità di cui questo libro si occupa potrebbero non affermare una sorta di anarchia autarchica, ma la consapevolezza di contribuire a fare società, con le sue contraddizioni ma anche con le sue ricchezze.
Il testo della Cristina Bianchetti, di cui ho cercato di dare conto, a me pare un contributo importante per ragionare sulla “fase” attuale (sociale, economica, culturale e urbanistica) e sulle possibili vie di uscite.
La lettura di un testo non prescinde dalle idee del lettore, sebbene non facilissimo ho goduto di questa lettura per le assonanze che mi è sembrato di cogliere. Soprattutto c’è un aspetto che mi è sembrato rilevante, forse l’ho già detto ma voglia ripeterlo, colpisce l’attenzione dell’autrice nell’esame i singoli aspetti in cui si manifesta nella città e nel territorio il neoliberismo, né ha anche analizzato teoria e filosofia, ma ha mostrato una indipendenza e un acume critico di grande valenza senza farsi trascinare e traviare, se posso permettermi, dalle novità (che pur esercitano un grosso fascino su molti ricercatori). Un gran bel libro.       
      

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