Diario
13 maggio 2018
E’ molto probabile che nei prossimi giorni avremo il
nuovo governo dei due fratelli siamesi Di Maio e Salvini, certo devono ancora
superare lo scoglio di trovare una “persona terza” di prestigio e che voglia
assumersi un incarico sicuramente prestigioso, ma altrettanto sicuramente
compromettente, di breve durata e di fatto senza potere di controllo (non ha
una “sua” maggioranza in parlamento né nel consiglio dei ministri. Le ambizioni
sono incontenibili, la troveranno).
Un governo che si presenta con il marchio, autodefinito,
del cambiamento. Che nelle parole dei
due leader significa una diga contro i poteri forti e la costruzione di un
nuovo “sistema”. Il punto di attenzione,
secondo sempre le parole dei due, sono i cittadini.
Basta uno sguardo a quello che è noto dei venti o trenta
punti del “contratto” (a proposito il
contratto con i cittadini si è trasformato in un contratto matrimoniale tra le due
forze, senza comunione dei beni), per capire come le esigenze dei cittadini,
nelle interpretazione di grillini e leghisti, sono miserevoli. Il reddito di cittadinanza trasformato in un
assegno di disoccupazione limitato nel tempo, la riforma fiscale in un regalo a
chi più ha, l’estensione della legittima difesa, ecc. L’unica cosa certa è una
stretta sull’immigrazione. Certa? Dipenderà dalle pressioni che settori produttivi faranno
in ordine alla necessità di ampliare la massa del lavoro nero e irregolare.
Ma non al programma e struttura del governo (questa dà i
brividi, sei i nomi noti venissero confermati) che vorrei dedicare poche
osservazioni, ma ad una questione più generale, al ruolo fondamentale nella
crisi del capitalismo dei movimenti populisti.
Il sistema di produzione capitalistico occidentale non promette niente di
buono, esso è strutturalmente inadatto a affrontare le grandi trasformazioni in
corso. La sua cifra fondativa è stata la trasformazione
ma adesso non è in grado di fornire risposte positive e progressiste a questi
cambiamenti. La ricetta prevalente sembra la violenza, il controllo, l’aumento
delle diseguaglianze, disoccupazione, ecc.
Qualche saltino in alto (di reddito, produzione, consumi, occupazione,
ecc.) non riesce a consolidarsi, la
prospettiva più favorevole sembra forme diverse di stagnazione.
La globalizzazione, anch’essa, non gode di ottima salute,
le incipienti guerre commerciali, il nascente nazionalismo economico e culturale, ecc. rischiano di minarne
consistenza e sopravvivenza.
Intanto il calore della pentola sociale si alza,
segmentazioni, divisioni, accomodamenti, ecc. servono, ma il rischio che la
temperatura si alzi molto e possa determinare lo scoppia della pentola esiste.
Ma come ha scritto Miche Salvati “il capitalismo ha la
pelle dura” e così usa mezzi e strumenti diversi per abbassare la temperatura
della pentola sociale.
Intanto una battaglia culturale che, facendo perno sulla
crisi della grande fabbrica, tende a far cancellare il concetto stesso di
sistema capitalista,di un sistema di produzione specifico basato sullo
sfruttamento della forza lavoro. La dilatazione delle “forme di lavoro”, la
teoria dell’auto produzione, ecc. hanno annacquato il “sistema” a punto che
ormai non si nomina, non si concepisce, non lo si vede più come l’origine dei
disaggi.
È sorprendente come questo sia potuto avvenire in così poco
tempo e in modo così diffuso. Certo esistono delle “sacche di resistenza”, ma
non hanno la forza di controbattere a livello generale (l’organizzazione che
nel tempo aveva assunto questo ruolo, diventando anche egemone, è stata essa
stessa infiltrata dal neoliberismo, dilaniata da lotte di potere,
insignificante sul piano elettorale).
Del resto in questo clima culturale anche questioni
rilevanti, che hanno origine nel sistema sociale di produzione, come la questione
ambientale, assume grande rilievo, mobilita forze e intelligenze, ma sembra una
questione separata dal sistema di produzione: non tutti gli ambientalisti sono
così … distratti, ma molti si, fino ad affermare che l’ambiente sarebbe potuto
essere una business (di fatto lo è, ma lo è soprattutto sul piano politico, perché
separa la questione rispetto al sistema di produzione).
In secondo luogo ha fagocitato tecnici, che messi in
posti di “governo”, hanno attivato strumenti per risolvere la crisi, si è
detto, ma piuttosto per nasconderla più che si può (Santo Draghi, sii adorato).
Ma la temperatura della pentola continua ad andare su e giù,
e il pericolo di una deflagrazione è sempre presente. È vero che in assenza ad una interpretazione
della struttura della società e dei rapporti sociali, il sovrabollimento produrrebbe
rivolte più che rivoluzioni, ma è meglio
non fidarsi del “popolo” (magari si organizza, riflette, assalta una libreria e
trova risposte alle sue domande!). Ci vogliono, politicamente, mezzi più efficaci mezzi di distrazione di massa. Strumenti in grado di indirizzare il
disaggio di massa verso obietti “altri”. Nei vari paesi, secondo le proprie
condizioni specifiche culturali e sociali, secondo il loro percorso storico
sono sorti movimenti populisti di carattere “sovranisti” (per lo più di
impianto fascista)o “populisti”. Solo l’Italia gode del privilegio di averli
ambedue, in due hanno diviso il paese:
un nord sovranista e un sud populista.
Così Di Maio e Salvini più che essere anti-istituzionali sono,
utilizzando il linguaggio della terza internazionale, i lacchè del capitalismo
di oggi, strumenti di distrazione di massa.
Questo governo nascente potrà avere breve vita (come
minaccia Berlusconi), ma anche quello che seguirà avrà gli stessi connotati
fino a quando non sarà concreta una forza che sul piano culturale, della teoria
e dell’organizzazione non si pone come alternativo al sistema di produzione,
individuando i mezzi e gli strumenti adatti alla situazione attuale, e prospetti una società futura diversa, non
con qualche sussidio (sotto qualsiasi forma), ma fondato su libertà e uguaglianza (un futuro che subirà
a sua volta una sua rivoluzione, e così via).
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