Diario 15 agosto 2020
Sergio Bellucci mi ha inviato un suo saggio sulla “pianificazione dell’imprevedibile”
(chi volesse leggerlo si può collegare a https://mondo.info/scheduling-the-unpredictable/), uno scritto molto
denso e che pone, implicitamente ed esplicitamente, problemi di grande momento.
Nella prima parte elabora una rapida rassegna delle più aggiornate teorie
che si sono sviluppate a partire dall’affermarsi delle tecnologie informatiche (connessionismo,
le procedure di prova ed errore, la complessità, ecc.). L’autore sostiene che
questo bagaglio scientifico e metodologico è rimasto estraneo alla sfera della politica.
Detto brutalmente i “politici” operano nell’ignoranza di tutte queste novità, o
al più orecchiando.
Ma non solo di questo si tratta, è l’ignoranza
della popolazione che determina le condizioni di impotenza della politica e quindi
costituisce un ostacolo al cambiamento, inoltre
gli egoismi individuali o di gruppo costituiscono delle barriere difficili da superare.
Nonostante queste condizioni, potremmo dire di partenza, Bellucci mette in
campo, nella seconda parte del saggio, un chiara visione delle necessità di
trasformazione ed esplicita la necessità di un cambiamento di sistema: un
governo del sistema che miri a ridurre l’egemonia dei bisogni soddisfatti con
beni e che incoraggi forme sperimentali e nuova di produzione per la creazione
e soddisfazione di bisogni sociali.
L’autore esprime tutta la sua convinzione che pur in presenza di una
ignoranza strutturale del personale politico, e di una ignoranza diffusa tra la
popolazione dei risultati enormemente innovativi delle scienze, esistano le
condizioni “oggettive”, determinate appunto dai grandi cambiamenti scientifici,
per un trasformazione sostanziale del sistema economico-sociale. Sembra
convinto che basti la “consapevolezza” delle grandi possibilità offerte già
oggi per cambiare la società (una sorta di illuminismo estremo). “Gli
economisti più accorti hanno da tempo annunziato che una crisi immensamente più
grande di quella del 2008, si sarebbe aperta come un abisso sotto i piedi di un
mondo che sembrava danzare sul ponte del Titanic”.
Mentre non gli pare convincente la strada che i
governi sembrano seguire, ciò delle ignizioni di liquidità, in attesa di una
risposta “automatica” del sistema, all’autore e a me pare che in assenza di
interventi che modifichino la “macchina sociale” le speranze di un mutamento
sembrano molto poche. “L’intervento necessario dovrebbe avere natura doppia”;
da una parte sostenere produzioni già interne ad una logica di sostenibilità
ambientale e dall’altra parte sostenere la produzione di valore d’uso. “Ora
dobbiamo partire per un nuovo viaggio. La crisi non può essere affrontata con i
precedenti
schemi e richiede un salto di qualità una discontinuità”.
L’autore
mi pare riporti in primo piano il dramma dell’epoca presente: la consapevolezza
della necessità di modifiche radicali nel modo di produrre, di
consumare e di distribuire la ricchezza prodotta, mentre individua le
possibilità reali di questi cambiamenti, così come potrebbero essere suggerite
dai progressi scientifici, esprime la coscienza di un deficit di capacità nell’individuare
i modi, o se si preferisse i passi, di
questi cambiamenti e i soggetti in grado di organizzare tali cambiamenti. Su
questo terreno sono di più i balbettii che non le parole limpide che vengono
pronunziati da chi questo cambiamento dovrebbe guidare. Si tratta di un buco nero del processo e del
progetto sociale che non lascia intravedere una strada chiara per il “nuovo
viaggio”, ma piuttosto ci mostra una umanità proiettata verso un burrone, dove
il buco nero dei nostri egoismi non ci lascia scampo.
Ma non ci perdiamo d’animo la soluzione forse c’è anche se stanchi occhi
non la vedono, dove l’incontro virtuoso del progresso scientifico e la
mobilizzazione della popolazione costruiranno una vera alternativa. E se così
non fosse, non abbiamo molto da fare.