NON TUTTE LE COLPE SONO DELL’URBANISTICA
Sul
libro di Agostini-Scandurra e sul commento di Consonni
Francesco
Indovina
(in
Città bene comune, La casa della cultura Milano, 2018)
Questa
mia nota si riferisce sia al libro di Ilaria Agostini e Enzo Scandurra – Miserie e splendori dell’urbanistica (DeriveApprodi, 2018) –, sia alla
recensione dello stesso libro di Giancarlo Consonni apparsa in questa rubrica –
In Italia c’è una questione urbanistica? (15 giugno
2018) –. I due testi dicono cose
interessanti, forniscono riflessioni acute ma, secondo me, non colpiscono
il bersaglio. In ambedue l’Urbanistica è assunta come responsabile di ogni
decisione che coinvolge la città (il suo sviluppo, la sua organizzazione, le
sue dinamiche, la sua capacità di rispondere alle necessità di chi l’abita,
ecc.). Non voglio dire che gli autori
disconoscono il ruolo della politica nei processi di trasformazione della città
– tutt’altro: essi ne sono perfettamente consapevoli – ma poi gli strali più
potenti e convinti sono indirizzati verso l’Urbanistica, disciplina che –
secondo gli autori – avrebbe tradito i suoi compiti, la sua gloriosa
tradizione, il suo ruolo. Ora, non si tratta di difendere l’Urbanistica, ne
tantomeno gli urbanisti, ma vorrei cercare qui di mettere a punto un
ragionamento in cui tutti i pezzi siano ben sistemati sulla scacchiera.
Intanto,
credo si possa convenire sul fatto che la città sia uno dei terreni principali
nel quale si manifestano i conflitti sociali (e i nostri autori ne sono
convinti come me): è infatti qui che le diverse componenti della società tendono
ad affermare i loro interessi (e non soltanto in termini di “occupazione” dello
spazio) senza, tuttavia, riuscire quasi mai a piegare l’intera organizzazione
urbana a un solo di questi (non so se questa interpretazione sia condivisa dai
tre autori che ho citato). La città, infatti, non è omologabile a un solo
interesse o agli interessi di un solo gruppo sociale: nella città convivono e convivranno sempre gruppi sociali antagonisti:
con proprie necessità, proprie speranze, proprie strategie. Ogni interesse
che cerca di imporsi troverà sempre ostacoli, oppositori. Si sbaglia analisi e
proposta politica ogni qualvolta si interpreta la città come totalmente
asservita a un solo interesse. Ci sono fasi in cui prevalgono alcuni, ma
difficilmente uno solo di questi può imporsi totalmente. Mi sento quindi di
affermare che il livello della qualità
sociale di una città dipende dal conflitto che in essa si manifesta e, al tempo
stesso, della ricomposizione di tale conflitto che si realizza tra i
contendenti. Stando così le cose, la qualità sociale di una città non può essere
attribuita a una specifica qualità dell’urbanistica che in essa si esercita ma,
piuttosto, alla forza e modalità del conflitto in essere in quel luogo e in
quel tempo, e come questo conflitto è governato dalla politica con l’ausilio
dell’urbanistica.
La
città è un oggetto in continua trasformazione: non solo conflitti economici e
sociali, ma anche modificazioni culturali, tecnologiche, negli stili di vita,
nella tipologia dei consumi, ecc. determinano un dinamismo che investe sia la
morfologia che la “condizione urbana”. Di tali modifiche, non c’è dubbio, la scelta urbanistica deve tener conto con un atteggiamento
di cautela, senza necessariamente fare riferimento a un “modello di città” ideale
ma, piuttosto, facendo i conti con le condizioni esistenti e le trasformazioni
in atto. Si potrebbe affermare che l’Urbanistica possa (debba) essere considerata
lo strumento per il governo delle trasformazioni. Ma in che cosa consiste
la scelta urbanistica? In molte occasioni, mi sono speso per
affermare che ogni scelta urbanistica debba essere considerata scelta politica
tecnicamente assistita. Scelta politica perchè l’intervento
urbanistico, giusto o sbagliato che sia, modifica di fatto la condizione di uso
della città, il che vuol dire che i cittadini di quella città e in generale chi
usa la città si troveranno in una condizione diversa. Vien dunque spontaneo
chiedersi chi è legittimato a decidere di queste modificazioni ed eventualmente
a contrastare o a dare un indirizzo diverso alle tendenze in atto?
Secondo
la struttura democratica del luogo e del tempo in cui viviamo è sicuramente la
politica che possiede questa prerogativa; nella nostra situazione è
l’amministrazione pubblica (comunale e regionale) che possiede questo potere
legittimato da procedure, affidato a norme e valutato politicamente. La
partecipazione della popolazione è sempre desiderabile, e questa può esprimersi
secondo meccanismi istituzionali o attraverso iniziative autonome, ma le istanze che emergeranno
andranno interpretate sia sul piano politico che su quello tecnico: non saranno
mai decisionali e cogenti se non per quanto previsto istituzionalmente. La legittimità dell’amministrazione
pubblica a decidere dei destini della città e del territorio è caratterizzata
da un aspetto formale (ma non
privo di sostanza) che individua nella delega all’amministrazione stessa
(democraticamente eletta) il “governo” (pro tempore) della città e delle sue
trasformazioni e da un aspetto sostanziale che
riconosce all’amministrazione la consapevolezza dei bisogni dell’intera città,
della comunità che in essa è insediata, e non di sue singole parti o gruppi
sociali (prerogativa, questa, non sempre manifesta e garantita).
Vorrei
chiarire che la legittimazione della politica non riguarda le scelte specifiche
e puntuali di organizzazione urbana quanto, piuttosto, gli indirizzi di
evoluzione della città, la qualità dei servizi, la relazione da costruire tra
bisogni della popolazione e servizi pubblici offerti. Cioè la definizione di un
quadro di riferimento sull’evoluzione dell’organismo urbano e sugli indirizzi
di questa evoluzione. Non dovrebbe
trattarsi di un potere decisionale sulle specifiche realizzazioni quanto,
piuttosto, di un indirizzo denso di contenuti sulla dinamica futura di quella
specifica città. Non è un caso che tali indirizzi trovino in molte legislazioni
regionali una loro espressione formale nel “documento preliminare” che impegna
l’amministrazione pubblica su una linea di politica di sviluppo.
Il
“tecnicamente assistito” di cui dicevo prima fa, ovviamente, riferimento all’Urbanistica,
alle sue pratiche progettuali operative, ma non si tratta di un’attività di
routine o semplicemente tecnica (tipo larghezza delle nuove strade, distanze
tra gli edifici, ecc.). Piuttosto, questa va considerata come un’attività politico-culturale che chiama in
campo l’intelligenza creativa, la capacità di lettura della città e della sua
realtà sociale, che si esprime anche attraverso la domanda della collettività
per una città diversa e che, attraverso la traduzione degli indirizzi politici
generali in progetti di trasformazione, migliora la qualità della vita della
popolazione insediata. Non siamo, quindi, di fronte a un’attività neutra,
ma ad una che nell’ambito specifico delle proprie competenze pone problemi di
scelta e di alternative. Si tratta infatti di tradurre in “opere di
trasformazione” quanto contenuto negli indirizzi politici espressi dalla
pubblica amministrazione e sulla base di quanto, spesso, sta già avvenendo
nella città (del resto, secondo i casi, l’urbanista può essere coinvolto anche nella definizione di detti
indirizzi politici). Voglio dire che
esiste una responsabilità politica dell’urbanista, ma che tale responsabilità
può esercitarsi solo in presenza di una determinata scelta politica
dell’amministrazione.
L’Urbanistica
in sé e per sé non ha nessuna legittimità nel definire e attuare le
trasformazioni della città che graveranno sulla popolazione che in quella città
vive.
Non si tratta di difendere gli urbanisti o l’Urbanistica, ma soltanto di
mettere in evidenza ruoli e responsabilità. Non si può negare che in certe fasi
storiche l’urbanista si è sentito investito di poteri che invadevano anche la
sfera delle decisioni politiche, ma si è trattato di una fase nella quale lo
spirito riformista dell’Urbanistica ha incontrato una posizione progressista
della politica (i casi sono noti e riportati anche nei testi esaminati).
Tuttavia, anche in quella felice occasione la mancata distinzione di ruoli e
poteri ha spesso portato a conflitti, tra l’amministrazione e il “progettista”,
a continue discussioni e revisioni del
piano (fino a fare apparire l’Urbanistica un’attività senza presa sul tempo e
la realtà) che, spesso, hanno finito per vanificare o almeno depotenziare ogni
ipotesi pianificatoria. Per non parlare dei piani rifiutati in toto (i casi
sono molti e noti). Con questo ragionamento sul ruolo “tecnico” non
intendo sostenere che ogni urbanista sia costretto a fornire il suo specifico
sapere a qualsiasi decisione politica. Sarà scelta individuale del
professionista accettare o meno incarichi che contrastino con il proprio
sistema di valori (politici, ideali, sociali e culturali). Non va dimenticato, infatti, – anche in questo gli
esempi che potremmo portare sarebbero numerosi – che l’urbanista è anche un
intellettuale che combatte le sue battaglie su diversi piani e con molteplici
strumenti. Così come non può essere
dimenticato che, d’altro canto, alcuni urbanisti, in buona fede o per
opportunismo, hanno finito per legare il loro sapere agli interessi più biechi presenti
nella società. Da questo punto di vista i
nostri autori hanno ragione da vendere, ma sbagliano bersaglio quando investono
con la loro critica l’Urbanistica nel suo insieme come disciplina, piuttosto
che certi modi di praticare la professione.
Se
guardiamo al panorama complessivo del nostro Paese e delle nostre città, non possiamo affermare di essere di fronte
al “fallimento” dell’Urbanistica ma, piuttosto, alla “sconfitta” della
disciplina. Il che fa una notevole differenza. L’Urbanistica quale attività
di continuo riordino della città, di riduzione delle sperequazioni spaziali,
quale “norma” che elimina l’arbitrio dei singoli nella trasformazione della
città, ha molti nemici che solo una politica progressista tecnicamente
assistita può sconfiggere o, almeno, contenere. Caricare sulle spalle dell’Urbanistica tutto quello che non ci soddisfa
dell’organizzazione urbana non porta lontano, così come non cogliere le
trasformazione negli stili di vita della popolazione può portare ad attribuire alla
disciplina responsabilità che travalicano il suo specifico ambito di azione.
Un solo esempio: esaltare condizioni di vita come quelle dei Sassi di Matera
nel secondo dopoguerra – cosa che non mi sento di condividere nonostante il
carattere comunitario che le caratterizzavano in quel particolare contesto
fisico e sociale – accusando di grave errore urbanistico il tentativo, peraltro
non completamente riuscito, di fornire a quella comunità – che viveva, non
dobbiamo dimenticarlo, in condizioni deprecabili – una sistemazione più civile,
mi pare una posizione senza speranza.
Non ho alcun dubbio
che i miei interlocutori, nelle linee generali del mio ragionamento, possano
condividere questa sistemazione dei ‘pezzi’ sulla scacchiera – si tratta di
studiosi avveduti, preparati e colti – ma proprio per questo non posso
accettare il loro giudizio sull’Urbanistica. Questo è frutto di una semplificazione che porta a dire che questa
disciplina si sia chiusa in una falso tecnicismo, si sia legata ai poteri forti,
insegua e avalli trasformazioni della città che peggiorano le condizioni di
vita dei cittadini. Torno a dire l’urbanista è un intellettuale che
combatte le proprie battaglie con strumenti diversi (comprese le “dimissioni”,
in virtù di un ideale o, forse, un’illusione). Non solo: mi pare di poter
affermare che il dibattito urbanistico presente nel nostro Paese non abbia
uguali altrove, per intensità e articolazione. Ricorrere alle semplificazioni,
dunque, non è lo strumento adatto per comprendere una realtà assai articolata.
Fare di “tutta un’erba un fascio” non rende giustizia all’intelligenza e alla
cultura dei miei interlocutori e finisce per disconoscere la ricchezza della
ricerca in Urbanistica, anche se capisco che siano molti i segnali che spingono
in questa direzione.
La
consapevolezza della necessità di aggiornare strumenti operativi, teorie,
pratiche o anche solo punti di vista non è prerogativa di un piccolo gruppo di
intellettuali, seppur ampiamente qualificati. In nessun Paese europeo e forse
nel mondo sono presenti tante riviste di settore come in Italia, ben due
associazioni nazionali di urbanisti che conducono analisi sullo stato di salute
delle nostre città e della disciplina e collane editoriali specificatamente
dedicate ai temi della città e della pianificazione. Il dibattito è vivace,
franco, e spesso senza inutili prudenze diplomatiche. Come non capire che chi
ha parlato di “cassetta degli attrezzi” non pensava a pinze, martelli e
cacciaviti ma, piuttosto, ad attrezzi concettuali, né faceva un discorso di
“tecniche”? Come non riflettere sul fatto che il campo dell’attività
dell’urbanista sia quello dell’elaborazione di politiche adatte alla
realizzazione di obiettivi pubblici, condivisi, e che per queste non esiste un
prontuario ma la loro elaborazione impegna saperi, creatività e intelligenza di
chi opera? Ci si può, certo, accomodare sulla banale semplificazione ma,
proprio per quanto detto prima, non si
può tralasciare di considerare che il campo conflittuale nel quale si misurano
le forze sociali – ovvero la città – non può che influenzare anche quelle culturali
che proprio della città si occupano. Una qualsiasi riflessione
sull’Urbanistica merita attenzione contro ogni riduzionismo e richiama la necessità
di confrontarsi con mente aperta, senza pregiudizi.
Ci sono due
questioni con le quali vorrei concludere queste mie osservazioni. Mi pare che
ogni discorso sull’urbanistica in
azione non
possa essere sviluppato senza affrontare il nodo della politica. La
degradazione di questa pare enorme e con questa situazione dobbiamo fare i
conti non solo come urbanisti ma anche come cittadini. Su questo fronte mi pare
di cogliere, in generale e senza fare riferimento ai miei interlocutori, molte
illusioni, se non la tendenza ad imboccare scorciatoie. Eppure la città è un
fondamentale campo per misurare effetti e conseguenze delle scelte politiche e
forse, proprio da ciò, bisognerebbe partire per affrontare qualsiasi
riflessione sull’argomento. Partire
dalla politica non significa abbandonare il terreno specifico della disciplina.
Le trasformazioni della città sono l’esito aggregato di spinte economiche (sull’appropriazione
dello spazio), di tensioni ideali, dell’affermarsi di nuove scoperte tecniche e
scientifiche, delle dinamiche della cultura (in generale e specificatamente
della città): un insieme che va analizzato e incardinato nella realtà di ogni contesto.
Il dibattito urbanistico è spesso vivace ma le contrapposizioni tra le
differenti posizioni culturali, in realtà, non riescono a nascondere una
questione di fondo: quella del tipo di
società sottesa a ogni idea di città (desiderata). La critica sullo stato della società ci obbligherebbe a qualcosa di più
dell’esplicitazione di un semplice “sogno”, a qualcosa di diverso dalla
riaffermazione di un modello di città ideale: ci inviterebbe a lavorare, a
riflettere, a mettere a frutto i nostri saperi e la nostra cultura per dire
qualcosa della città del XXI secolo, sfuggendo alle mode ora della città
ecologica, ora della smart city, ora della
“rigenerazione”, ora della “città digitale”, o ancora delle comunità in
estinzione, ecc. Fare i conti con tutto questo e altro ancora è
fondamentale per poter dire qualcosa di sensato e di utile per noi e le future
generazioni.
Ridurre le
sperequazioni spaziali, contribuire a limitare le diseguaglianze sociali,
costruire spazi collettivi adeguati ai tempi e ai bisogni (espressi o
sottaciuti), fornire le condizioni perché comunità diverse da quelle che magari
si amano possano realizzarsi, accrescere la responsabilità collettiva, cercare
di “manomettere” il senso comune degradato verso la ricerca di un risanamento
sociale, dare dignità a tutti i soggetti sociali anche a quelli nuovi,
riconoscere esigenze culturali diverse dalla nostra tradizione, avere
consapevolezza che il tempo di ciascuno di noi può essere sfruttato, utilizzato
socialmente e attingere ad attività creative, ecc. Queste e altre sono le possibilità
offerte al lavoro dell’urbanista che costituiscono, ciascuna di esse, un campo
di confronto-scontro politico.
Bisogna
essere convinti che l’età dell’oro delle città non sta nel passato ma nel
futuro. Avere i piedi nel passato è indispensabile. Tuttavia considerare che il
passato può essere il fango che ci tiene fermi non significa negare le radici,
ma essere consapevoli di una certa realtà; lo sguardo al futuro, alle grandi
possibilità esistenti, può permetterci di ragionare sulle condizioni attuali e
future proponendo soluzioni che non ci separino violentemente da ciò che è alle
nostre spalle ma che, contemporaneamente, sappiano guardare a ciò che ancora
deve venire.
Francesco
Indovina
N.d.C. - Francesco
Indovina, già professore ordinario di Tecnica e Pianificazione urbanistica, ha
insegnato per anni Analisi delle strutture urbanistiche e territoriali
all'Università IUAV di Venezia. Dal 2003 insegna alla Scuola di Architettura di
Alghero. Da sempre è fautore di un approccio interdisciplinare agli studi sulla
città e il territorio coniugato a un saldo impegno civile. È autore di numerose
pubblicazioni e ha fondato e diretto i periodici "Archivio di studi urbani
e regionali" e "Economia urbana" (già "Oltre il
Ponte"); dirige inoltre la collana di Studi urbani
e regionali della Franco Angeli.
Per Città Bene Comune ha scritto: Si può essere "contro" l'urbanistica? (20 ottobre 2015); Quale urbanistica in epoca neo-liberale (3 febbraio 2017); Pianificazione "antifragile":
problema aperto
(23 giugno 2017); Una
vita da urbanista, tra cultura e politica (24 novembre 2017).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri
R.R.