Rossana Galdini, Terapie urbane. I nuovi spazi pubblici della città
contemporanea (Rubettino, 2017, pp. 168, 14 euro).
da ASUR, 2013
da ASUR, 2013
Tra le questioni che riguardano la
città contemporanea sicuramente si trovano quelle relative allo spazio
pubblico; i termini più ricorrenti sono quelli della sua crisi, della necessita
di un rifondazione del concetto, della riflessione sulla loro progettazione
oggi, ecc. In tutte queste riflessioni è possibile evidenziare un punto mai
completamente risolto: è la forma e struttura degli spazi pubblici che ne
determinino l'uso o piuttosto è il tipo di organizzazione sociale e di
organizzazione della vita quotidiana che determina l'uso che degli spazi
pubblici si fa. Che sia in una falsa alternativa è evidente, ma tale reciproca relazione mette
in evidenza come non sia possibile trattare la questione degli spazi pubblici
nell'ambito delle idee astratte di organizzazione della città o l’occasione per
applicare modelli più o meno realistici.
La piazza è sempre
là, uguale a se stessa, ma nel tempo l'uso che ne è stato fatto si è
notevolmente modificato ed è stato strettamente collegato ai bisogni che quella
collettività esprimeva in una determinata stagione storica; una funzione
sembrava decadere ma poi la stessa in forma diversa si ripresentava. L'appropriazione politica di quello spazio
pubblico sembrava scomparsa con il mutare della comunicazione politica, ma
all'improvviso essa accoglie migliaia di uomini e donne, di ragazzi e vecchi
che sentivano l’improvviso bisogno di
esprimere con la presenza del corpo la loro domanda politica, il loro disaggio,
la loro voglia di cambiamento. La piazza, spazio pubblico emblematico, mostra
tutta la sua disponibilità alla flessibilità. Si tratta di tema importante sui
si tornerà anche perché costituisce uno dei tratti principali del lavoro di
Rossana Galdini.
È proprio la ricchezza dei punti di
vista, l'articolazione dei ragionamenti e dei riferimenti che rende
interessante questo testo. L’autrice ci pone di fronte alla
coniugata differenza tra “spazio pubblico” e “spazi pubblici”, essendo questi
ultimi la materiale organizzazione dei primi, o ancora la distinzione tra
luoghi e spazi. Con riferimenti ricchi e appartenenti a campi disciplinari
diversi, l'autrice conduce in un percorso di definizioni, di ipotesi
progettuali e di osservazioni che rendono chiaro quanto sia centrale nel
discorso sulla città la questione degli spazi pubblici, tanto che è possibile affermare
che senza “spazi pubblici” non vi è città. Non si tratta solo di una modalità
di organizzare le relazioni spaziali, ma anche quello di dare corpo alla
socialità, costruire le possibilità materiale perché la colloquialità urbana
possa esprimersi, espandersi, dare senso alla città.
Osserva l'autrice che: “ non sempre esiste una diretta
conseguenza tra la presenza di uno spazio materiale è la creazione di uno
spazio relazionale. Molte volte lo spazio formale e il suo progetto facilitano
la realizzazione di spazi relazionali aperti, dell'incontro, del dialogo, altre
volte sono percorsi immateriali, relazioni interpersonali che creano spazi
pubblici informali”. Un'osservazione questa che apre a molte questioni, che
vanno dalla progettazione, alla previsione di bisogni presenti e futuri, alle
modalità attraverso le quali far partecipare le persone alla costruzione degli
spazi pubblici (collettivi), al ruolo della tecnologi nella ridefinizione degli
spazi pubblici, alla loro privatizzazione, alla perdita di ruolo della sfera pubblica
nella vita quotidiana e quindi al deperire dello spazio e degli spazi pubblici
e all’emergere, fino a quando non saranno investiti da una crisi di ruolo, di spazi privati ad uso pubblico. Tutte questioni importanti ma spesso
contraddittorie, che vengono nel testo esplorati mettendo il luce punti di
vista diversi, collegando la dinamica della “questione” all'evoluzione della
società, degli stili di vita prevalenti.
Si tratta di una trattazione quanto mai ricca e
documentata, un testo con una forte componente didattica, l’assenza di
banalizzazione e la ricchezza dei riferimenti hanno lo scopo di sollecitare la
riflessione, anche per l’attenzione posta agli strumenti adottati più
recentemente nel tentativo di reinventare gli spazi pubblici adatti alla nostra
epoca..
“Accanto all'opinione diffusa del declino dello spazio
pubblico, si è diffusa, parallelamente, anche l'ipotesi di una sua
reinvenzione, supportata da motivazioni differenti come l'ispirazione all'idea
di estetizzazione della scena urbana, alla tematizzazione degli spazi, alla
trasformazione recente di molte città in set turistici, o, al diffuso bisogno
di creare e ricreare spazi di interazione e luoghi di socialità”. L'autrice
mette in campo tutto il suo interesse e la sua capacità esplorativa,
soprattutto, sulle nuove metodiche di intervento; così esplora l’Everyday Urbanism, il Tactical Urbanism, il Temporary Urbanism, l’Ago puntura urbana, il Do it Yourself Urbanism.
A me pare, ma si tratta di un punto di vista molto
soggettivo, che queste metodiche possono finire per mettere in discussione senso e significato di spazio pubblico. Si tratta di metodiche che in misura più o meno grande
comportano il coinvolgimento della popolazione nella progettazione o anche
realizzazione e gestione degli spazi pubblici. La partecipazione dei cittadini costituisce, insieme, una
necessità, un’opportunità e di una ragionevole attenzione ad alcune modifiche
della società. Ma si tratta anche di una questione problematica. Il mio
atteggiamento non è contro la partecipazione ma questa non può essere nominata
e proclamata senza senso critico, come spesso avviene in tanti “innamorati”.
Intanto la partecipazione dovrebbe rendere espliciti i
bisogni della popolazione, le necessità che complessivamente o in gruppi, più o
meno grandi esprimono. Tuttavia se la crisi degli spazi pubblici fosse interpretata come l'esito della frantumazione
sociale, la società liquida, per fare riferimento ad una
interpretazione che gode molti consensi, allora ogni aggregazione di popolazione finalizzata
alla definizione di un bisogno comune
non potrebbe che essere considerata temporanea, caduca, e non tale da essere
assunta come riferimento per la costruzione di spazi pubblici che rispondano a
bisogni espressi. È la caducità di tali bisogni, non esito di un aggregato
sociale stabile, a rendere inagibile tale domanda come programmatica.
Se da una parte sembra difficile che la frammentazione
della società possa essere assunta come riferimento, con tutte le conseguenza
che si riverberano sul problema degli spazi pubblici, dall'altra parte la
società esprime disagi che una buona organizzazione degli spazi pubblici
potrebbe attenuare, e ancora esprime, anche se in modo contraddittorio,
esigenze di socializzazione che spesso esplodono contro ogni previsione. La
società pur nella sua frammentazione, nel prevalere di un individualismo
distruttivo di ogni senso di appartenenza, continua ad esprimere bisogni di
collettività. È proprio l'espressione individuale di questi bisogni che non
appaiono stabili e si esprimono in forma individualistica che spesso non può
permettere processi di aggregazione.
La risposta consapevole a questo stato di cose è
l'individuazione dello “ spazio flessibile”
come opportuno è necessario. Gli spazi pubblici flessibili costituiscono
la frontiera più avanzata della progettazione della città; spazi che si
prestano ad essere adattati secondo bisogni e necessità espresse. Questa enfasi
sulla flessibilità lascia intendere che gli spazi pubblici della tradizione
urbana, usiamo questo termine generico, fossero caratterizzati da rigidità. Ma
è proprio così? Non credo. La piazza, assumiamo
questo spazio emblematico, è stata ed è ancora, mercato, luogo di
manifestazioni politiche, campo di gioco e spazio sportivo, vi si fanno anche
corsi di cavalli e partite di calcio, palcoscenico per manifestazioni
artistiche e culturali, luogo di socializzazione, parcheggio di auto, luogo
adatto per i venditori ambulanti, spazio
per manifestazioni religiose o di preghiera. E chi sa quanto altro ancora. Non
sono così stupido da pensare che tutte le piazze siano uguali e così
flessibili, ma voglio sottolineare che in generale gli spazi pubblici sono per
loro natura flessibili, ed entro ceri limiti possono essere utilizzati a scopi
diversi. Non nego che esistano spazi specializzati e non flessibili, penso alle
corsie preferenziali per le tranvie, per esempio, o ancora agli spazi
specializzati per specifici sport, tutto vero, ma in generale gli spazi pubblici
si presentano in larga parte già predisposti ad usi diversi. Da questo punto di
vista l'invenzione della gente, dei giovani è molto superiore a quanto previsto
da progettisti e amministratori. Non sono gli spazi ad essere rigidi, ma molto
spesso è l’amministrazione e la politica che mette ostacoli alla flessibilità.
Quale è stato il contributo della street art nel modificare il senso di alcuni
spazi? Si pensi a cosa potranno presto diventare le gradi rotatorie di cui oggi è disseminato il
paese come preso da un virus?
Non sto dicendo che tutti gli spazi pubblici si
presentano con un alto tasso di flessibilità,
credo che molta attenzione a questo aspetto vada posto nella progettazione
di nuovi spazi pubblici (da questo punto di vista, tuttavia, mi spaventa l'idea progettuale che dovrà programmaticamente essere fissata sulla flessibilità). Non è lo spazio che sarà flessibile ma l'uso
che le persone ne faranno.
Quello che in realtà si sta perdendo, ed è positivo, è l'idea
prevalente di spazi pubblici monofunzionali, anche se di alcuni di questi ci sarà
ancora bisogno. La città sempre più si apre ad esperienze diverse, a culture
estranee, a bisogni modificati e in continua
evoluzione, gli spazi pubblici che della città costituiscono l'ossatura
portante, dovranno adattarsi a questa situazione ma a partire dalla loro reale
natura: substrato da cui è possibile esercitare il diritto alla città, elementi
che danno senso alla condizione urbana, luogo dove si esercita una possibilità
di espressione sociale e individuale. Saranno necessari aggiustamenti ma non mi
pare che la strada giusta sia quella di inseguire una frammentata domanda è
l'esercizio di un individualismo rivendicato come diritto. Nella partecipazione frammentata, nella
volontà del piccolo gruppo di realizzare un proprio punto di vista, va colto il
dato di arbitrarietà e di egotismo.
Il testo di Rossana Galdini di questo e di altro ancora
si occupa. Che ci vogliano dei “nuovi spazi pubblici” come recita il
sottotitolo del libro è necessario, che nuovi esperimenti andranno fatti è pur
vero, ma assumiamo che la città è in continuo cambiamento e che questo non sarà
tanto l'esito di un progetto audace, ma la creazione delle possibilità che il
nuovo possa realizzarsi e che i vincoli che imponiamo, o che abbiamo la pretesa
di imporre, non riescano a trascinare nell’ignavia la capacità creativa della
popolazione e che questa dovrà misurarsi con le contraddizioni nel suo seno.
Un testo da studiare per i suoi molti filoni seguiti,
non già una ipotesi preconfezionata ma una vera ricerca tra le molte ragioni, i
molti esperimenti, tenendo ferma la
relazione tra città e spazi pubblici.
Francesco Indovina