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Pubblicato su Internazionale l'8 marzo 2017
Mentre Donald Trump, e con lui i suoi fans di destra e purtroppo anche di
sinistra, fantasticano un’improbabile de-globalizzazione, spunta (o rispunta)
un movimento femminista che ha tutte caratteristiche di un movimento globale.
Mentre i media mainstream capovolgono l’elezione di Trump nella sconfitta del
femminismo perché il famoso tetto di vetro non è stato infranto neanche
stavolta, spunta (o rispunta) un movimento femminista che mette il tetto di
vetro suddetto all’ultimo posto della sua agenda, e al primo la vita. Mentre
l’egemonia del capitalismo neoliberale vacilla ovunque sotto i colpi di una
crisi ormai decennale, e ovunque ripropone per tutta risposta le sue ricette
fallimentari senza trovare a sinistra ostacoli rilevanti e aprendo a destra vie
di fuga razziste e fascistoidi, spunta (o rispunta) un movimento femminista che
si riappropria della centralità femminile nella produzione e nella riproduzione
sociale, ne fa una leva sovversiva e chiama tutti, donne uomini e altri generi
di ogni paese e di ogni colore, a unirsi a questa spinta sovversiva. Sono i
colpi d’ala che solo la politica delle donne è capace periodicamente di
inventarsi, gli scarti imprevisti dall’agenda politica e mediatica del presente
che solo la politica delle donne è capace periodicamente di produrre. E che
fanno dell’8 marzo di quest’anno una giornata diversa dal solito, inedita,
irrituale, inaugurale.
Ma non estemporanea. Lo sciopero delle donne dal lavoro e dalla cura
dichiarato per oggi in una quarantina di paesi del mondo – in Italia dalla rete
“Non una di meno”, con l’adesione dei sindacati - arriva a coronamento di un
anno che ha visto i movimenti femministi al centro, e alla guida, di
mobilitazioni straordinarie, su un’agenda ben più ampia e articolata di quella
“di genere”. L’inizio fu il Black Monday polacco, il 3 ottobre
dell’anno scorso, quando un’imponente manifestazione sotto la pioggia e gli
ombrelli bloccò la legge che voleva proibire l’aborto, prima azione politica
contro i governi reazionari che si sono succeduti in quel paese. Poi il Mércoles
Negro contro la violenza sessuale in Argentina il 17 ottobre,
convocato dalla rete NiUnaMenos, sigla migrata in Italia con la manifestazione
contro la violenza del 26 novembre, tanto sorprendente per quantità e qualità
quanto ignorata da giornali e tv, all’epoca troppo impegnati nello sfornare
sondaggi sulla rimonta del sì al referendum costituzionale poi stravinto dal
no. Infine l’immensa Women’s March del 21 gennaio a Washington
e ovunque nel mondo, in risposta alla misoginia suprematista di Trump, tre
milioni di donne e uomini in piazza negli Usa e due nel resto del pianeta,
altro che protezionismo e de-globalizzazione: America first, ma
in tutt’altra direzione da quella neopresidenziale.
Vengono infatti da quella marcia, e sono vistosamente marcate dal lessico
politico radicale americano, le due parole-chiave, inclusive e
intersectional, che orientano la giornata di oggi.
Inclusivo, perché l’organizzazione e la regia della mobilitazione è
femminile ma apre a chiunque ne condivida le intenzioni, lasciandosi il
separatismo alle spalle. Intersezionale, perché il dominio di genere si
intreccia con altri dispositivi di dominio e di esclusione, di classe e
razziali in primis, e domanda in risposta “l’alleanza dei corpi”, per dirlo con
il titolo dell’ultimo libro di Judith Butler, di tutte le soggettività
interessate.
Perché allora l’8 marzo, e perché le donne al centro e al timone? Si
possono dare due risposte. La prima è che le donne e il femminismo sono state e
sono l’oggetto privilegiato della rivoluzione neoliberale, e non stupisce che
ne diventino il soggetto antagonista di prima fila. L’egemonia neoliberale deve
molto della sua presa al modo in cui ha cercato di trascrivere la libertà
politica e la padronanza sul proprio destino guadagnate dalle donne nel
femminismo in autoimprenditorialità e libertà di consumo, nonché al modo in cui
ha “valorizzato”- nel senso dell’estrazione capitalistica di valore - il lavoro
produttivo, il lavoro di cura, l’intera vita delle donne. Non a caso la pratica
di lotta scelta stavolta è quella dello sciopero: per sottrarsi a questo
sfruttamento, e per mostrare – per sottrazione, appunto – quanto il lavoro
femminile - visibile e invisibili, contato e non contato nelle statistiche,
retribuito e gratuito – sia tanto cruciale per far girare la macchina
produttiva e riproduttiva quanto sottostimato e sottovalutato, in tutti i sensi
del termine.
La seconda ragione è politica, ed è tutta inscritta nella genealogia e
nella memoria del femminismo. In una stagione come quella di oggi, in cui la
politica ufficiale di opposizione, orfana delle sue appartenenze e strutture
storiche, sembra non trovare vie diverse dalla ripetizione del passato da un
lato e dalla demagogia populista dall’altro, il femminismo conosce l’arte della
tessitura di un “noi” che si costruisce non malgrado ma in forza delle sue
differenze e molteplicità costitutive. E’ l’arte della tessitura di relazioni
libere ma non per questo volatili, che consente al movimento delle donne di
andare e venire dalla ribalta della cronaca, ma di tornare sempre, imprevisto,
quando e dove occorre. Non a caso si chiude con un richiamo a Carla Lonzi il
testo di Non Una di Meno che convoca lo sciopero di oggi: “Il Soggetto
Imprevisto ha fatto nuovamente irruzione nella politica e nelle nostre vite.
Riconosciamo a noi stesse la capacità di fare di questo attimo una
modificazione totale della vita”.