Diario 264
- La sinistra potrà sopravvivere?
- Tutti d’accordo, tutti contro tutti
- Le manovre presidenziali
- SEL:
si discute o tramonta?
- L’imbroglio della garanzia della Cassa
Depositi e Prestiti
La sinistra potrà
sopravvivere?
Con un articolo di Marc Lazar, il quotidiano La Repubblica (19 giugno) affronta
il tema della sopravvivenza della
sinistra europea. I sostanziali magri risultati della “sinistra” nelle recenti
elezioni europee (ad eccezione del PD in Italia) sono l’occasione di questa
discussione.
La sostanza è: il mondo è cambiato e la sinistra no, in
questa situazione potrà questa sinistra sopravvivere?
Il punto di vista sostenuto da Lazar tiene molto l’occhio
sulla situazione francese, ma generalizza. In sostanza ecco le motivazioni
esplicative (riassunte ma spero non tradite): carenza di organizzazione che
combatta la disaffezione dalla democrazia e dalla partecipazione; difficoltà a
riconquistare credibilità a fronte della diffidenza verso la classe politica; la
scelta degli elettori a cui fare appello in via prioritaria; quali politiche
pubbliche adottare a fronte della trasformazione del capitalismo; mancanza di identità
del socialismo del XXI secolo; quale sia il leader in grado di affrontare le
nuove forme della politica.
Certo si tratta di questioni non di poco conto, ma forse c’è
dell’altro. Alcuni autori, infatti, in testi
brevissimi, tendono a sottolineare altri
aspetti.
Alain Touraine individua nella necessità della difesa
dell’individuo (non individualismo), e quindi nella difesa dei diritti umani,
la chiave di una possibile ripresa del socialismo. Per Massimo Salvatori la
ripresa non può che essere strettamente collegata alla lotta alle
diseguaglianze. Marco Revelli fa riferimento ad una identità antiliberista.
Guido Craine fa appello alla necessità di attivare due gambe per far camminare
l’idea socialista: la prima è ridare fiducia ai cittadini nella democrazia, la
seconda è l’equità sociale.
A me pare (non ho nessun titolo se non quella di una lunga
militanza), che la questione di fondo sia la “natura” della società. Credo che
nella crisi del welfare state e nel conseguente aumento delle diseguaglianze economiche vada trovata il
nocciolo della crisi del socialismo. Il WS è stato considerato intanto come
statico, mentre la sua dimensione politica (e sociale) presupponeva un suo
dinamismo, una sua continua crescita, inoltre sulla base della crisi fiscale
dello stato si è iniziato a limarlo, in alcuni casi a tagliarlo con l’accetta.
Si tratta di un fulcro fondamentale della crisi dell’idea socialista (o
comunista, non del comunismo reale), proprio perché metteva in discussione una
prospettiva sociale e politica, offuscando la prospettiva di un futuro migliore.
In questa frattura si insinua il capitalismo del XXI secolo
che afferma con forza una società delle diseguaglianze e quindi il suo
dinamismo non è più fondato sulle lotte sociali ma sull'invidia, sul rosico e sulla capacità di
accaparramento.
Le diseguaglianze sociali sono il germe di una società
ingiusta che non sempre produce rigetto, ma
molto spesso corruzione sia intellettuale che fattuale. Oggi
le diseguaglianze sono crescenti in modo
insopportabile (non che ci sia un livello di diseguaglianza sopportabile, ma
insomma), e maturano all'interno dell’economia finanziaria.
Se il socialismo non deve morire deve aprire un fronte di
conflitto con il capitale finanziario, contro le diseguaglianze e per lo
sviluppo del WS e la crescita economica adeguata al tempo (se poi la “nuova
politica industriale” fosse quella annunziata in questi giorni dal governo,
allora potremmo dormire sonni pieni di
demoni).
Tutto molto facile a dirsi, lo so bene, ma pieno di
difficoltà, ma un po’ di strumenti concettuali sono disponibili.
Tutti d’accordo,
tutti contro tutti
Renzi, Berlusconi, Salvini, Grillo, prove di accordo
“costituzionale”, ma in realtà dietro l’accordo forse c’è l’avvio di una guerra
di posizione.
Berlusconi si sbraccia per il mantenimento dei patti, ma nello
stesso tempo lancia il “presidenzialismo”, che di fatto mette in discussione
l’impianto della riforma. Che gioco è? Nello stesso tempo il falco Brunetta
mette in campo una serie di “divergenze” sulla legge elettorale e sulla riforma
del Senato. Una distribuzione di ruoli diversi? O l’estrema confusione in
quella parte politica, l’una o l’altra non costituisce una buona garanzia.
Grillo esprime una sua disponibilità a trattare sulle
riforme costituzionali. Bene. Mette in campo una riforma elettorale proporzionale
(una testa un voto), che ha tutto il mio incondizionato accordo ma si tratta di
una proposta che collide totalmente con la riforma già approvata dalla Camera
dei deputati. E allora? O Grillo non conosce il testo approvato, o la proposta
del M5* è un tentativo di far suonare le campane silenti dopo la batosta delle
europee. O molto semplicemente si tratta di un modo per ricollocare il M5*
nell’ambito della prassi parlamentare dopo il periodo del No, No, No… non si
tratta con nessuno. Gli umori che esprime Grillo (proporzionale a parte) non mi
piacciono, hanno un tasso di autoritarismo e una inconcludenza politica
insopportabile. Va detto, tuttavia, che il M5* costituisce (o costituiva?) di
fatto l’unica opposizione presente in Parlamento e questo è salutare,
l’opposizione fa bene alla democrazia e al dibattito politico.
Salvini, che si fa forte di un modesto peso complessivo
della Lega, si dimostra d’accordo sulla riforma del Senato e del Titolo V che
ridà competenze legislative alle regioni. Che, si fa per dire, si presentano
come limpide ed efficiente istituzioni.
Renzi ha fretta, tanta fretta, vuole sedersi alla presidenza
del semestre italiano della UE con le riforme in tasca (o quasi): fissa una
data di scadenza il 3 luglio. Ma la fretta, quasi mai è una buona consigliera
(né lo è la sua Ministra alle riforme che invece costituisce un eco-renziana).
Nodi, i nodi esistenti sono molti, possono essere risolti da
un accordo strappato a Berlusconi e al… PD, ma i problemi restano. Sulla legge
elettorale il Presidente del consiglio sembra più duttile: ritiene il 40% dei voti ottenuti alle europee come messi in cassaforte
(io sarei più cauto), e quindi sembra disposto ad accettare, appunto al 40% dei
voti, la soglia minima per il premio di maggioranza. La soglia di “entrata” è
portata al 4%, tanto che importa ragiona il presidente del consiglio. Sembra
anche disposto a cedere sulle preferenze o sui collegi minimi.
Sulla riforma del Senato le cose sono più complicate perché
le divergenze sono più articolate. Non c’è un’opposizione che voglia
ripristinare il bicameralismo, ma non tutti condividono l’assenza di una
elezione diretta dei senatori. La elezione di secondo grado pone problemi
complessi di equilibrio e di rappresentanza, mentre la nomina di un numero di
senatori (5 o 21) da parte del Presidente della Repubblica convince pochissimo.
Renzi ha messo a tacere le sue opposizioni interne con la “forza”,non mi sembra
la trovata di un grande leader.
La mia impressione è che la fretta farà i gattini ciechi: la
riforma andrà in porto, ma risulterà piena di questioni non risolte e lascerà
degli strascichi.
Le manovre
presidenziali
A lato della riforma costituzionale, ma a quella strettamente intrecciata, sono
visibili le manovre per la
Presidenza della Repubblica: Napolitano potrà durare ancora
un po’ ma non troppo.
Casini fa le sue mosse, tutte tese ad acquisire riconoscenza
da parte di Renzi. Basterà? credo di no.
Ma da quando circola l’idea che i tempi sono maturi per una
presidenza al femminile, mi sembra che si
possa interpretare l’attivismo “convergente” della senatrice
Finocchiaro, come finalizzato anche a questa possibilità.
Due soluzioni del tutto insoddisfacenti, per ragioni uguali
e politiche. C’è di meglio, anche fuori dalle due Camere.
SEL: si discute o tramonta?
Il voto sul decreto fiscale ho diviso i parlamentari di SEL;
niente di grave, ma è la crisi di SEL, che preoccupa.
Una crisi, come si dice, che viene da lontano,
dall'incapacità di rifondare una prospettiva comunista adeguata al XXI secolo,
sfuggendo dalle mode, dall'inseguimento ora di questo ora di quel movimento (ed
è ancora il meglio) o di agitare prospettive politichese, senza affrontare le
trasformazioni del capitalismo e della società, ma facendosi forte di un “dover
essere” che data la sua dimensione appariva più che velleitario. Il relativo
successo della lista per le europee poteva essere la buona occasione per
rifondare un discorso che affrontasse i nodi strutturali del processo economico
sociale della “nuova” società e facesse i conti con i fondamenti teorici.
Entrare nel PD o starne fuori a questo punto è indifferente,
almeno così mi pare e soprattutto inutile dal punto di vista politico generale.
L’imbroglio della
garanzia della Cassa Depositi e Prestiti
Ricevo dal mio amico
Angelo un’analisi su una questione oggi cruciale anche per l’apertura di una
procedura di infrazione della UE)
E'
possibile stare a sentire politici e grandi giornalisti accreditati, presso
tutti, come esperti, discettare su problemi non da poco senza che nessuno di
loro accenni alla sostanza delle cose.
Questa
mattina, nella trasmissione della "la 7"(19giugno), Alan Friedman
lamentava il ritardo nei pagamenti dei debiti dello Stato verso i propri fornitori,
debiti per i quali il Governo ha già deliberato che sia "la Cassa Depositi e Prestiti"
a fare da garante alle banche, affinché queste anticipino ai fornitori quanto dovuto
dallo Stato.
Ma
il capitale della CDP è di 3,5 miliardi più utili di 2,3 miliardi, mentre i
debiti dello stato ammontano (dicono, ma nessuno ne è sicurissimo) a 75
miliardi. Volete sapere a quanto ammonta la "cassa e disponibilità
liquide" della CDP? traendo il dato così come è scritto nel suo bilancio (31.12.2013),
risulta di 3.530 euro (lo ripeto in lettere a scanso di equivoci; "tremilacinquecento
euro"). Meno di quanto, forse, l'ultimo impiegato della CDP tiene in casa
per le spese correnti.
Mi
si obietterà che la liquidità reale è sui conti che la CDP ha nelle banche. Ma se
avesse conti a credito il saldo a credito del conto bancario sarebbe tra le
liquidità. Ma alla voce banche c’è un attivo di 14 miliardi 851 milioni di
euro, e un passivo di 24 miliardi 8
milioni.
La CDP gestisce tra l'altro, in
quanto titolare, i risparmi che gli
italiani hanno depositato presso le poste, quindi di chi sono i soldi su cui si
rivarranno le banche in caso di mancato pagamento alla scadenza del credito
finanziato ai fornitori dello Stato? Avete indovinato.
Ma
che bisogno c'è, se il debitore è lo Stato, che questo venga garantito dai
soldi dei cittadini italiani? E gli impiegati, quando vi invitano a fare buoni
del tesoro o libretti postali, non vi dicono che sono depositi sicuri in quanto
garantiti dallo Stato?
Vediamo,
allora, come funziona e soprattutto quale ne è la logica: i cittadini hanno i propri
depositi garantiti dallo Stato ma i loro depositi garantiscono i debiti dello Stato.
Sembra qualcosa di molto confuso ma a
ben guardare non lo è affatto. Il gioco è questo: io Stato non pago i debiti
verso i fornitori perché non ho soldi allora, in base alla garanzia
prestata, li paga la CDP con i soldi dei cittadini.
A questo punto lo Stato dovrebbe, in base alla garanzia fornita ai depositi
postali dallo Stato, restituire ai cittadini quanto utilizzato per pagare le
banche. Ma se lo Stato non ha i soldi che succede? Ecco: i fornitori sono stati
pagati dalle banche, le banche sono state pagate dai cittadini e i cittadini
sono restati con i depositi garantiti dallo Stato, che già li garantiva, ma che
non ha un euro.
Ma
attenzione. Vi diranno tutti che sia di fondamentale importanza che i fornitori
dello stato vengano pagati perché così si riavvia la "crescita" senza
la quale siamo perduti. Ma allora, perché la CDP non finanzi direttamente i fornitori dello Stato
senza passare attraverso le banche così, almeno, gli interessi che, senza
rischi, guadagneranno le banche li guadagnerebbe la CDP?