giovedì 4 luglio 2013

Lavoro … dove, come, quanto, quando




La discussione sul lavoro è quanto mai accesa. I termini sono, tuttavia, sempre gli stessi: Il lavoro che manca; Il lavoro che è cambiato; la fine del posto fisso (degli altri); Il lavoro per i giovani; la riduzione dell’orario di lavoro; il reddito di cittadinanza; contro il reddito di cittadinanza, per un reddito da lavoro; le politiche attive per il lavoro (che non si vedono e non si sa quanto efficaci), il rosario potrebbe continuare. Proverò a fare, pur nella ristrettezza di spazio, un po’ d’ordine, senza nessuna pretesa .

È vero che il lavoro è cambiato, intanto guardiamolo dal punto di vista della “quantità, o se si preferisse relativamente alla popolazione; c’è e ci vuole sempre meno lavoro per produrre “merci”. Le innovazione di processo attuali e quelle che si profilano per il futuro, hanno drasticamente ridotto la necessità di lavoro vivo. So che il rapporto tra sviluppo tecnologico e occupazione è un assillo degli economisti di tutti i tempi, ma la conclusione facile che la tecnologia riduceva da una parte ma richiedeva altro lavoro in altri settori, soprattutto di servizi alla produzione, mi pare che non regga più, proprio per la natura presente e futura delle nuove tecnologie di processo. 

Ma incombe un altro problema. Le economie sviluppate sono state sempre economie di esportazione godendo di notevoli vantaggi competitivi (qualità del lavoro, tecnologia, risorse, ecc.). Tali vantaggi competitivi mi sembra si siano drasticamente ridotti: oggi tutti fanno tutto; il vantaggio competitivo di alcuni paesi ha finito per identificarsi in un temporaneo minor costo del lavoro. 

È vero, tuttavia, che esistono dei “beni posizionali” (allargando il concetto) che sono prerogativa di determinati luoghi (paesi), non riproducibili e che costituiscono una sorta di rendita di posizione, ma come tutte le rendite soggette a famelici appetiti. Così le risorse energetiche, oppure la risorsa acqua scatenano appetiti che non si fermano neanche difronte alla guerra (leggi per esempio Iraq, o lotte all’interno dell’Africa presentate come guerre tribali). Ma anche i beni non trasferibili (storici, ambientali, ecc.) sono oggetto di appropriazione di limitati gruppi. Ma sia i primi che i secondi sono settori a scarsa occupazione, o a occupazione stagionale. I paesi che godono di queste prerogative non possono che molto limitatamente fondare su questi settori lo sviluppo dell’occupazione.

C’è sempre qualcuno che pensa al rilancia l’agricoltura; solo un’agricoltura senza tecnologia, senza macchine può essere una fonte consistente di occupazione. Mentre chi pensa ad un “nuovo ciclo edilizio” o è in malafede o uno che non conosce la realtà del nostro paese (qualcuno si ricorda del “piano casa” dell’ultimo governo Berlusconi che avrebbe dovuto mobilitare diecine di miliardi di investimenti, ed invece non successe nulla? 

C’è un altro tipo di cambiamento che viene presentato come “epocale”: indipendenza (la fine del lavoro fisso e stabilmente organizzato), flessibilità, autonomia, auto imprenditorialità, ecc. Ma quando guarderemo dentro queste attività? Semplificando si può dire che nessuno è “indipendente”, tutti sono sottoposti alla necessità di “guadagnare”, per questo lavorano l’agognata indipendenza si riduce al lavoro “in conto terzi”, essi cioè entrano in una o più catene di realizzazione di valore aggiunto, ma chi sta alla testa di questa catena rastrella il valore aggiunto realizzato dai diversi anelli della catena ai quali resta poco. Non è casuale che si tratta di un settore effervescente, dove muoiono e nascono continue “imprese”. 

Non ignoro che esistono delle professioni che servono le imprese e le famiglie (avvocati, notai, architetti, ecc.), ma dovrebbe essere altrettanto noto che quando si dice servono anche le “famiglie”, bisogna intendere un certo tipo di famiglie. Questo apre una questione tanto importante quanto di “nicchia”, la “disuguaglianza” (chi volesse potrebbe leggere, tra le altre cose, il recente lavoro di Stigliz – Einaudi), ma qui merita che la questione sia trattata per paradossi: quale è la giustificazione per accettare che un chirurgo che mi sostituisce il cuore, o mi apre la testa per togliere un tumore, o mi riattacca un organo, ecc. “guadagni” meno, ma molto meno, migliaia di volte meno, di un calciatore?

Dal punto di vista dell’occupazione abbiamo l’ampio settore dei servizi commerciali, ma anche questi falcidiati dalla tecnologia (acquisti via internet), dall’organizzazione (supermercati, centri commerciali, catene specializzate, ecc.), ristorazione, ecc. Gli andamenti sono contradittori al loro interno ma non fortemente espansivi. Qualcuno per nostalgia, per ricerca di qualità, ecc. vorrebbe un “ritorno al passato”. Che quando avviene afferma l’esclusività e non genera che modeste apporti occupazionali.

Poi esiste il grande settore che possiamo definire del “vivere bene”, che comprende attività tradizionali (scuola, ospedali, biblioteche, musei, sicurezza, ecc.) ma anche necessità nuove (salvaguardia dell’ambiente, idrogeologia, servizi di igiene territoriale, parchi, restaura e riorganizzazione urbana, manutenzione degli edifici pubblici, ecc.) ed anche necessità legati al mutamento della piramide demografica (anziani). Un settore questo del “ vivere bene” che potrebbe spandersi oltre ogni ottimistica decisione, ma si tratta di un settore che ha un grave difetto, non essendo una produzione di merce non produce reddito. Questo è il dramma che va sotto la formula “chi paga”?

Detto tutto questo, e mi scuso per la sintesi estrema forse oscura in qualche passaggio, mi pare che per raggiungere livelli molto alti di occupazione non resta che puntare sul settore del “vivere bene”. Lavori che sul piano della qualità della vita compenserebbe alla grande qualche necessaria sobrietà nel consumo di merci, ma affinché questo si realizzi sarebbe necessario un cambiamento profondo di regime sociale: abbattimento delle diseguaglianze, riduzione dell’orario di lavoro, distribuzione di tutto il lavoro, ecc. Si potrebbe dire una rivoluzione, ma tutti aspettano il ritorno del passato (senza speranza), e il lavoro resta un sogno. 



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