domenica 29 novembre 2020

Recensione di: Ismael Blanco e Oriol Nel-lo, Sulla segregazione urbana

 

Ismael Blanco e Oriol Nel.lo, Sulla segregazione urbana

(apparsa su cittabenecomune, casadellacultura di Milano  il 29 nov.) 

Il modo migliore di cominciare questa recensione probabilmente sarebbe stato quello di trascrivere il sommario del libro*. Così facendo sarebbe balzato subito all’occhio che quello di Ismael Blanco e Oriol Nel·lo – Quartieri e crisi. Segregazione urbana e innovazione sociale in Catalogna (ed. it. a cura di Angelino Mazza e Raffaele Paciello, INU Edizioni, 2020) – non è solo un saggio, ma un testo articolato e corale che dà conto di un progetto di ricerca che inizia nel 2013 – ed ancora non può dirsi concluso – che ha coinvolto istituzioni e competenze su un tema di grande rilievo per chiunque si occupi di progetto e politiche urbane e territoriali, quello della segregazione spaziale: una questione che è anche misura della capacità di innovazione sociale e dell’incisività delle politiche pubbliche.

I due temi, segregazione spaziale e innovazione sociale nelle politiche urbane, sono stati affrontati, sia sul piano metodologico sia su quello analitico, a partire dalla “misurazione” del fenomeno nella realtà catalana. Un lavoro di notevole portata scientifica i cui risultati, tuttavia, travalicano questo ambito per sfociare in quello della politica, suggerendo azioni di governo per intervenire o modificare i processi in atto, anche attraverso politiche di rigenerazione urbana. Ismael Blanco e Oriol Nel·lo chiariscono infatti che lo scopo di questo lavoro non è solo accademico-scientifico, ma muove dall’ambizione “di contribuire, per quanto possibile, ad orientare le politiche pubbliche e a dare impulso ai movimenti di cittadinanza”. Una ricerca dalle aspirazioni nobili, dunque, che – com’è nella tradizione della migliore urbanistica – tradisce un forte impegno civile sulle questioni urbane presenti e future.

Non è questa la sede per affrontare in dettaglio le questioni metodologiche (indicatori, parametri, ecc.) che nei vari contributi raccolti nel libro vengono sviluppate. Queste meriterebbero seminari specifici per coglierne e trasmetterne, con maggior frutto, la portata. Su questo aspetto sottolineo solo che in questo lavoro le questioni di metodo, al di là di ulteriori approfondimenti, sono state trattate con la dovuta attenzione, che i risultati appaiono convincenti e che la documentazione presentata è ricca e ben organizzata. In questo commento preferisco invece soffermarmi sulle indicazioni complessive che derivano dalla ricerca e su come queste sono sintetizzate nelle sue conclusioni. Prima di addentrarmi nella riflessione, tuttavia, pare necessaria una precisazione. Mentre se si parla di segregazione spaziale il concetto appare chiaro, meno limpido è quello di innovazione sociale, sia per le diverse situazioni politiche a cui possiamo fare riferimento sia, forse, per una diversa articolazione del conflitto sociale che caratterizza la città contemporanea. In questo testo con questa espressione si intendono “quelle iniziative orientate a soddisfare, attraverso la cooperazione tra le persone, le esigenze a loro correlate: ad esempio la casa, l’energia, le telecomunicazioni e l’alimentazione”.

Va detto che l’analisi dell’innovazione sociale, nella ricerca, non si presenta come qualcosa di astratto, ma fa riferimento a risultati che si basano su informazioni raccolte a proposito di ben settecento iniziative – identificate e mappate –, sulle risposte a questionari somministrati a un campione rappresentativo di persone coinvolte in questi stessi programmi, nonché sulle considerazioni raccolte dagli operatori. Un lavoro di scavo nella realtà concreta di rilevante impegno, uno sforzo di comprensione paragonabile a quello sulla segregazione spaziale per il quale, circa il contesto preso in considerazione, esisteva già una notevole quantità di dati. Il terreno comune a due grandi questioni – da una parte quella della segregazione urbana e dall’altra quella dell’innovazione sociale – sembra, agli autori, quello più adatto per affrontare il futuro di città e territori. Di certo è il punto di forza di questo lavoro e di questa pubblicazione. E credo che questo approccio possa essere condiviso.

A livello internazionale, quello della segregazione spaziale – anche dove appare poco studiato ovvero dove ci sono meno evidenze della sua esistenza come si potrebbe dire del nostro paese – affonda le sue radici nella questione urbana e, una volta conosciuto, apre delle voragini nella nostra idea di convivenza. Più articolata, si potrebbe dire, appare la questione dell’innovazione sociale. In questo caso le esperienze dei diversi paesi non sempre convergono sugli strumenti, anche se fanno riferimento a bisogni comuni. Per questo aspetto anche il confronto con l’Italia è meno facile. Questo sia perché qui da noi operano grandi istituzioni/associazioni, per esempio di tipo religioso, che tentano di venire incontro ai più pressanti bisogni della popolazione più debole. Sia per l’esistenza di una tradizione di “lotte sociali”, che assumono un carattere rivendicativo, e per la presenza di un sindacalismo forte che in qualche modo è – ma soprattutto è stato nella seconda metà del Novecento – investito della questione urbana e delle condizioni di vita delle fasce sociali più deboli.

Un aspetto importante dei risultati di ricerca, che Ismael Blanco e Oriol Nel·lo mettono in luce, non attiene solo la dimensione in termini assoluti del fenomeno della segregazione spaziale che, in Catalogna, è in continuo aumento anche in questo nuovo secolo, ma il fatto che non riguarda soltanto i gruppi sociali più deboli. Questa, infatti, si manifesta per il “confinamento” tanto di quelli più svantaggiati quanto di quelli che godono di migliori condizioni economico-culturali-sociali. Banalizzando il concetto, si può dire che poveri e ricchi tendono a isolarsi in propri territori e che le aree miste, quei tessuti plurali di cui storicamente è ricca la città europea, tendono a ridursi. Gli autori mettono altresì in evidenza che questo fenomeno non caratterizza solo diversi quartieri delle città, ma investe i comuni dell’area metropolitana. Così alcuni di questi finiscono per 'specializzarsi', per così dire, per i cittadini a più alto reddito, “dove la possibilità di somministrare servizi di qualità è maggiore per la più alta capacità fiscale dei suoi residenti e la presenza di necessità sociali meno intense”. Altri, al contrario, tendono a essere maggiormente attrattivi per cittadini con maggiori difficoltà economiche. Tale situazione, oltre a determinare una geografia polarizzata della società, mette in seria difficoltà le politiche pubbliche: quelle locali appaiono strutturalmente insufficienti ad affrontare il problema; quelle più generali finiscono per rafforzare le diseguaglianze. L’azione locale, per quanto sostenuta e ben giocata, non è in alcun modo sufficiente ad affrontare lo squilibrio. Piuttosto, sarebbero necessarie politiche sovralocali (regionali o nazionali) capaci di contrastare “l’ineguale capacità dei comuni di far fronte alle necessità delle loro popolazioni”. Ma queste stentano a decollare.

Per quanto riguarda le pratiche sociali innovative – quelle che per lo più prendono corpo dal basso in forma autorganizzata – nel libro si sottolinea non solo il loro forte incremento, ma anche il fatto che queste si traducono in forme di organizzazione sociale alternative a quelle esistenti. Il loro proliferare affonda le sue radici nel movimento degli “indignados”, nell’accentuarsi della crisi economica e nell’avvento delle politiche di austerità. Queste pratiche si manifestano con un alto tasso di politicizzazione, evidente nella loro capacità di mobilitare e catalizzare energie ma soprattutto negli obiettivi che pongono. “Gli orti urbani, i gruppi di consumo, gli spazi autogestiti non sono solo, e nemmeno in primo luogo, spazi di soddisfacimento delle esigenze fondamentali. Sono – sottolineano Blanco e Nel·lo – forme di sperimentazione, riflessione e rivendicazioni di nuove forme di vita comune che prendono forza in un contesto di crisi sociale e politica profonda”. Alcune di queste iniziative interagiscono con le istituzioni locali; altre rivendicano la loro piena autonomia. E se la loro distribuzione in generale è correlata ai tassi di popolazione, c’è un punto che merita essere sottolineato: queste prendono vita più numerose e funzionano meglio dove il tessuto sociale si caratterizza per uno status socio-economico medio. Mentre sono meno presenti nelle zone caratterizzate da fasce sociali più deboli. Questo tratto del fenomeno fa emergere da una parte come le iniziative di azione sociale innovative possano determinare un aumento degli squilibri tra le diverse zone e i diversi comuni; dall’altra evidenzia l’impossibilità di fare affidamento soltanto su questo tipo di iniziative restando essenziale un’azione pubblica.

La domanda cruciale a cui Ismael Blanco e Oriol Nel·lo provano a rispondere riguarda le caratteristiche di questa azione pubblica. In questo – mi pare di poter dire – facendo riferimento anche all’esperienza della ley du barrios, attivata in Catalogna quando Nel·lo dirigeva la pianificazione di quella regione: un’esperienza che, com’è noto, ebbe notevoli risultati positivi. Secondo Blanco e Nel·lo le politiche pubbliche dovrebbero fare tesoro di cinque raccomandazioni.

La prima di queste, denominata Bisogno, fa riferimento al fatto che la segregazione spaziale urbana e territoriale è determinata appunto da 'bisogni' di sussistenza essenziali che costringono le fasce sociali più svantaggiate a concentrarsi in quartieri o comuni che spesso non dispongono di adeguati servizi (scuola, salute, verde ecc.) determinando così un peggioramento nella vita di queste fasce della popolazione. Un criterio di giustizia sociale imporrebbe una distribuzione meno polarizzata in ambito urbano e territoriale e, ove questa fosse già avvenuta, politiche di riqualificazione che vadano nella direzione di migliorare i contesti dotandoli almeno delle infrastrutture e dei servizi essenziali. Questo – può apparire paradossale ma non lo è – senza preoccuparsi del fatto che tali miglioramenti, determinando una valorizzazione immobiliare, possano costituire un’ulteriore spinta alla segregazione mettendo in modo processi di espulsione dei soggetti o delle famiglie maggiormente in difficoltà e non in grado di sopportare i nuovi livelli di spesa (della casa in primis). Assumere a priori questa preoccupazione significherebbe legarsi le mani all’inattività e gli esiti della legge citata in precedenza indicano che ci possono essere modi di operare caratterizzati da intelligenza politica e istituzionale che possono efficacemente ridurre gli effetti negativi della segregazione spaziale senza particolari controindicazioni.

La Cooperazione costituisce la seconda delle raccomandazioni di Blanco e Nel·lo. Questa assume particolare rilevanza se fosse vero, come è vero, che i comuni dove è più accentuato il fenomeno della concentrazione delle fasce sociali più deboli sono quelli con più bassi livelli di risorse e una ridotta base fiscale. Una politica di rigenerazione se da un lato non può non essere locale nella sua promozione, conformazione e attuazione, dall’altro ha la necessità di adeguate risorse ed energie messe a disposizioni da tutte le amministrazione dello Stato. È cioè necessaria cooperazione a tutti i livelli della pubblica amministrazione finalizzata a massimizzare i risultati in condizioni di risorse limitate.

Per essere efficaci le politiche dovrebbero poi, secondo gli autori, caratterizzarsi per la loro Trasversalità: è noto che tra i fattori che incidono maggiormente sulla qualità di un quartiere o di un centro urbano ci sono gli spazi pubblici, la vitalità commerciale, le attrezzature urbanistiche, ecc. Qualsiasi intervento in questi ambiti dovrebbe essere trasversale, appunto, ovvero riguardare diversi aspetti della vita dei contesti e, al tempo stesso, coinvolgere differenti settori dell’amministrazione, il cui coordinamento appare strategico.

Il Coinvolgimento dei cittadini costituisce un’altra delle raccomandazioni fondamentali per la riuscita delle politiche pubbliche. Quello che appare necessario evitare a tutti i costi è la passività dei cittadini rispetto ai processi di rigenerazione urbana. Al contrario si sottolinea l’opportunità di fare dei cittadini i protagonisti di questi processi.

Infine, l’ultima raccomandazione riguarda la Valutazione. Una valutazione continua – osservano Blanco e Nel·lo – permettebbe di ricalibrare gli interventi avviati, introducendo strada facendo quei correttivi che ne garantirebbero il risultato voluto. L’importanza di tale raccomandazione appare evidente anche e soprattutto in questa fase storica in cui quartieri, città e territori sono investiti da fenomeni esogeni, come la pandemia, del tutto imprevedibili che rischiano di mandare in fumo azioni di lungo periodo su cui si sono già investite significative risorse.

Per concludere, il volume di Ismael Blanco e Oriol Nel·lo pare importante e utile per affrontare problemi cruciali della città e del territorio contemporanei. Questo, tanto sul fronte dell’analisi di un particolare fenomeno – quello della segregazione spaziale – quanto su quello della sua soluzione attraverso politiche sociali adeguate, fondate sull’esperienza e soprattutto sull’equità.

* Introduzione, Ismael Blanco e Oriol Nel-lo:  La segregazione urbana: aspetti teorici e contesti attuali, Carles Donat; Lo studio della segregazione urbana: approccio metodologico, Eduard Jimènez e Carles Donat; La segregazione urbana in Catalogna, Oriol Nel·lo; Un approccio sociale all’innovazione sociale, Quim Brugué e Rubén Martínez; Delimitare e mappare l’innovazione sociale, Helena Cruz e Rubén Martínez; L’innovazione sociale in Catalogna: un’analisi socio spaziale, Ismael Blanco e Helena Cruz;
Conclusioni, Ismael Blanco e Oriol Nel·lo
Postfazione all’edizione italiana,
 Per un futuro possibile delle politiche pubbliche, Angelino Mazza e Raffaele Paciello.

 

 

 

domenica 29novembre 2020

 

La proposta di una patrimoniale. Era tempo!

 


Diario

29 novembre 2020

 

Dal deputato Fratoianni, di Sinistra Italiana, e da alcuni altri deputati dello stesso partito (Muroni, Palazzotto,  Pastorino), e di alcuni esponenti del PD (Orsini, Gribaudo, Pini, Raciti e Rizzo Nervo) è stato presentato un emendamento alla manovra  di bilancio teso ad introdurre una imposta patrimoniale nell’ordinamento fiscale del nostro paese.

In particolare la proposta prevede un prelievo dello 0,2% per i patrimoni compresi tra i 500mila e un milione di euro; un prelievo dello 0,5% per i patrimoni compresi tra un milione e 5 milioni di euro; dell’1% per quelli tra 5 milioni e 50 milioni di euro; infine  del  2% per i patrimoni superiori. Inoltre, è previsto un prelievo straordinario del  3%  (solo per il 2021) per i patrimoni sopra il miliardo di euro, il cui ricavo dovrebbe essere utilizzato per la lotta alla pandemia.  Per patrimonio dovrebbe intendersi il valore dei beni  mobili e immobili tolto il residuo dell’eventuale mutuo e di altre passività.

Ovviamente contro la proposta si è scatenata una traversale opposizioni: Salvini, impreca, era da dire, nonostante tutte le sue dichiarazioni è il più fedele amico dei “padroni del vapore” (che, per fortuna, pare si fidano poco). All’interno del PD la manovra è più sottile, prevale la preoccupazione che una proposta di questo tipo potrebbe buttare a mare i “colloqui” con Berlusconi e FI (magari!).

In realtà il vero scandalo sta nel fatto che di una vera imposta patrimoniale in Italia qualche volta si parla, ma poi tutto si insabbia. Non è escluso che anche la proposta Fratoianni faccia la stessa fine. Una patrimoniale non è né uno scandalo né una rarità (anche in Spagna di recente è stata introdotta).

I nostri politici, tutti, ma soprattutto quelli di sinistra (qualsiasi sia l’intensità del loro rosso) dovrebbero vergognarsi del fatto che spesso, anche recentemente, i maggiori detentori di ricchezza richiedono una migliore progressività della tassazione.

 La proposta prevede anche la costruzione di un’anagrafe dei patrimoni, e la cancellazione di micro patrimoniali, che nella loro struttura non colpiscono i grandi patrimoni, ma finiscono anche per colpire quel poco di ricchezza diffusa che si è prodotta a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale.

Sarebbe auspicabile che la proposta di Fratoianni suscitasse un sostegno di massa, anche con manifestazione di popolo (non è possibile che possono manifestare solo gli stupidi negazionisti), non solo di piazza (nel rispetto delle norme di sicurezza sanitaria) ma con l’invio di mail ai singoli deputati e al presidente del Consiglio. Sarebbe bello creare un movimento di pressione; spesso non abbiamo niente da fare, stiamo chiusi in casa, allora spendiamo il nostro tempo per una giusta causa collettiva.

 

 

 

venerdì 27 novembre 2020

ADDIO ALLA CITTA ? MA VA LA!

 

 

Diario

27 novembre 2020

 

Informazioni frammentarie ed esaltate, commentatori di varia collocazione politica e di varia specializzazione, esperti e giornalisti, ci vogliono convincere che è iniziato il declino della città, soprattutto  della grande città. La pandemia, dicono,  dimostra che le grandi città sono il centro di ogni focolaio, è soprattutto lì che la gente si infetta, si ammala e muore, ma da queste è iniziato l’esodo.

 

Ci dicono quanti abitanti hanno lasciato Londra, New York, Parigi, ecc. ma non ci dicono se queste persone hanno abbandonato la città trasferendosi definitivamente o solo hanno raggiunto le loro seconde case. Ma tutto fa brodo per acclarare la tesi dell’abbandono della città. Un tema agitato già prima della pandemia di corona-virus.

 

Non voglio assolutamente negare che ciascuno abbia il diritto di decidere dove risiedere, così come non nego che ci possono essere delle persone e delle famiglie disposte ad abbandonare la grande città. A questo proposito ricordo che in Liguria si sono restaurati dei piccoli centri abbandonati, dotandoli di tutte le tecnologie più moderne di collegamento, mettendo a punto un “rifugio” per chi voleva abbandonare la città, per chi doveva compiere un lavoro nella pace e senza rumori molesti, vicini, ecc. tipico il caso dello scrittore. Ma non di questo si parla, ma piuttosto di una nuova tendenza della popolazione a lasciare la grande città, perché ai “suoi mali tradizionali” si è aggiunta la sua infettività.

 

Ma siamo sicuri che una delle più importanti invenzioni sociali che l’umanità ha prodotto circa 4.000 anni prima di Cristo, la città,  sia destinata ad essere smantellata. La città che ha superato distruzioni, guerre, saccheggi, terremoti, maremoti, violenze di ogni tipo sia destinata a tramontare? Siamo sicuri che una tendenza storica e naturale dell’umanità di assembrarsi, si trasformi nel suo contrario? Abbiamo sempre visto, fino ad ieri, che dai piccoli centri, dalle piccole comunità, i giovani le persone più intraprendenti fuggivano per raggiungere la … città, mentre oggi, ci dicono il movimento si fa inverso. Si dice che le nuove tecnologie, che sempre nella città e nell’ambiente urbano hanno avuto il massimo della loro diffusione e della loro utilizzazione, siano invece oggi le più adatte per smembrare la città.  

 

La città cambia e resiste, per ovvi quanto chiari motivi. La città è il motore della produzione della ricchezza, è il centro dello sviluppo e dell’innovazione culturale, è il meccanismo che sollecita la socialità, il riconoscimento dell’altro, uguale o meno, del diverso, è la produttrice di bisogni sociali, è  il luogo dove si organizzano le forze sociali per il cambiamento (il cambiamento della stessa città), dà la possibilità di sperimentare la curiosità, per le cose e le persone, e ancora per lo scambio di esperienze. L’incontro tra le persone, occasionale o di prassi genera società, la colloquialità urbana è una opportunità importante del vivere quotidiano, per costruire la memoria individuale e collettiva, per esercitare le passini. Non nego che alcune di queste possibilità si possono realizzare a “distanza”, penso a come si possa guadagnare con il lavoro a distanza, che tuttavia mi ricorda il “lavoro a domicilio e in nero”, fonte di enorme sfruttamento.

 

Ma torniamo alla pandemia del virus. È certo che nella città e soprattutto nella grande città è più facile contrarre il contagio, si incontrano molte persone, si frequentano luoghi affollati, si prendono mezzi di trasporto che non rispettano la rarefazione e la distanza, non sempre la popolazione che si incontra è ligia nel rispettare le regole imposte. Tutto vero, nella città è più facile infettarsi che non vivendo in una cascina tra i monti o in un piccolo centro.  Ma attenzione, se tutto questo è vero non bisogno dimenticare che nella città si trovano gli ospedali più attrezzati, che nella città è più attiva una catena sanitaria a cui fare riferimento, autoambulanze, pronto-soccorsi, centri di ricerca che si occupano di salute o se si preferisce di malattie, ecc.  Nella città si intende dire si trovano tutte e due le facce della medaglia, quelle condizioni che ci possono infettare ma anche quelle strutture che ci possono salvare.

 

 

 

 

giovedì 19 novembre 2020

Viva la Calabria!

 

Diario

19 novembre 2020

 

In questo periodo c’è molto da meravigliarsi, molto da scandalizzarsi, molto da restare senza parole. Chiunque, politico, giornalista, commentatore, o “uomo della strada”, prende parola non mette limite al proprio pensiero (sic!), elaborando ragionamenti spesso incoerenti, contraddittori e … scandalosi.

Ma tutto è niente a fronte della dichiarazione dei “reggitori” (sic!) della Regione Calabria. Questi rivendicano il loro diritto all’autogoverno, una sorta di autogoverno estremo, e per questo richiedono che il commissario alla sanità debba essere calabrese. La Calabria, dicono, ha risorse umane di eccellenza e in grado di provvedere alle necessità del momento.

Non mi è chiaro se tutto questo sia l’effetto della vulgata sull’identità, o se invece si nascondono questione più pelose, l’unica cosa certa è che bisogna avere una faccia di bronzo quale non si trova in nessuna parte del mondo, per rivendicare la calabresità nella gestione della sanità regionale, quando proprio la Regione ha ridotto la sanità regionale nello stato descritto dalle cronache.

Non voglio entrare nel merito dell’utilità o meno del regionalismo, segnalo l’esistenza di governi  regionali virtuosi, come per esempio il Veneto e l’Emilia-Romagna (certo tutti hanno qualche piccolo scheletro nell’armadio), insieme a governi disastrosi, uno per tutti quello della regione Lombardia. Ma appunto senza sfiorare questo tema, pare indispensabile  che l’opinione pubblica si attrezzi a valutare gli esiti delle azioni di governo, ma non una valutazione politica, dove la fede prevale sulla ragione, ma una valutazione tecnica specifica.

Si potrebbe pensare ad una sorta di Corte Regionale, che ogni anno sottoponesse le singole regione ad una valutazione degli effetti delle singole scelte. Non quindi sul contenuto delle scelte, che è questione eminentemente politica, ma sugli effetti attesi e su quelli realizzati. Sarebbe anche un modo per uscire dal pantano della rissa politica.

 

giovedì 12 novembre 2020

Una nuova economia ?

 


 

Diario

12 novembre 2020, anno primo dell’era covid

 

Massima attenzione all’economia, rilanciare l’economia, aiutare l’economia, ecc. politici e  commentatori non mettono limite alla loro creatività nell’indicare che il problema dell’economia, insieme a quello della pandemia, è fondamentale. Non si può dubitare che l’economia, qualsiasi cosa si può intendere con questo termine, è lo strumento (per così dire) per distribuire “reddito” alle persone, quindi in una situazione nella quale questo strumento è in difficoltà, a ragione del virus, c’è un problema di sopravvivenza della stessa popolazione. La soluzione è quella dell’intervento dello Stato. Questo assume varie forme: aiuti alle famiglie, trasferimenti a tutte le attività commerciali e di servizi che per effetto dei vincoli adottati non riescono a raggiungere le entrate di sopravvivenza, cassa integrazione, finanziamento alle imprese industriali, spostamenti o cancellazione delle scadenze, fiscale, ecc. Tutto RAGIONEVOLE, tutto GIUSTO (nella sostanza), tutto NECASSARIO. Bene, ma tutti si mettono le mani davanti agli occhi per non vedere come la nostra società-economica sta cambiando.

Detto in modo semplice e forse provocatorio: che tipo di società liberista è quella che alla prima difficoltà si chiede e si rivendica di mungere la mucca pubblica? Ma si dice non è colpa dei singoli, ma di una valanga esterna, ciascuno non ha colpa. Ah, ah, calma, non è proprio così, in una economia liberista chi intraprende una qualche attività deve fare i conti anche con ipotesi di avvenimenti contrari, e a questi prepararsi (banalmente ci sono le Assicurazione). Ma va bene consideriamo lo Stato di eccezionalità e consideriamo quanto lo stato fa ragionevole, giusto, necessario ecc. , ma ci si rende conto che se lo Stato di eccezionalità continuasse, come pare probabile, due, tre, quattro, cinque …. mesi la nostra economia, tutte le attività, di fatto sarebbero statali? Saremmo senza accorgersene entrati in una forma spuria di economia mista, nella quale il peso pubblico sarebbe molto rilevante.

Non auspico un’interruzione del flusso di risorse dallo Stato ai privati, ma piuttosto penso sarebbe utile riflettere sul tipo di economia che si potrebbe realizzare una volta debellato il maledetto virus.

È  certo che le piccole attività di servizio e di commercio potrebbero essere riconsegnate ai privati, ma sono cero che un discorso diverso si potrebbe e dovrebbe fare per le attività industriali, per le attività più significative per lo sviluppo futuro anche tecnologico, ecc.

Non sarebbe scandaloso che lo Stato rivendicasse il diritto alla sua presenza nella gestione e direzione di queste attività. Insomma un’economia mista diversa da quella del passato, quando imprese private e pubbliche si fronteggiavano, magari in concorrenza, ma piuttosto una gestione mista di tutte le attività principali.

Le obiezioni possono essere molte come pure le preoccupazioni. Prima tra tutte quella della corruzione, ma questa è una battaglia che prima  o poi si dovrà fare fino in fondo. A me sembra che il virus ci dia la possibilità finalmente di discutere con i piedi per terra della necessaria trasformazione della nostra economia.    

PS In questi giorni c’è molto meraviglia nello scoprire che la società autostrade dei Benetton portava avanti una gestione del sistema autostradale a tutto vantaggio della società con il massimo di disprezzo per l’incolumità di chi quel servizio autostradale utilizzava. Una strana meraviglia e una memoria corta: si dimentica infatti che l’impero dei Benetton nasce e  cresce sullo sfruttamento del lavoro a domicilio, le campagne venete, ma non solo, erano piene di donne e ragazze e ragazzi che producevano per pochi soldi la maglieria che poi Benetton vendevano in mercati sempre più larghi. Non voglio negare una certa geneliatà imprenditoriale ma voglio sottolineare come questa si faceva forte con un ampio sfruttamento della manodopera, soprattutto femminile. Crescendo l’approccio è continuato a essere lo stesso, sfruttamento della manodopera e nel caso specifico degli utenti.

lunedì 2 novembre 2020

Poveri vecchi

 

Diario

2 novembre 2020

 

Mi sento in colpa, mi spavento, mi irrito. Il dibattito che si sta sviluppando in TV ha alti livelli di cinismo, dosi consistenti di una comprensione pelosa, un riconoscimento … definitivo.

Noi vecchi siamo un problema: siamo fragili, ci infettiamo facilmente, occupiamo i pochi posti in terapia intensiva togliendoli a chi è o potrà essere in futuro produttivo.

Nessuno avanza l’idea di attivare il programma nazista nei riguardi dei vecchi e dei malati, tutti arretrano a fronte di ogni idea di eliminazione (magari programmata), mai poi i discorsi virano sui sacrifici “tutti facciamo sacrifici, non è sbagliato chiederne anche agli anziani” (non si dice mai vecchi).  Solo che per noi si avanza l’ipotesi del sacrificio … estremo.

Siamo stati produttivi? Si! E per quanto aberrante sia il sistema capitalistico, non è previsto che la vita coincida sulla capacità produttiva. A questo non siamo ancora giunti, ma il virus ci avvicina a questa nuova ideologia.

Io non ho fatto pentole, né pezzi di motore, né macchine per i movimenti di terra, né cucine economiche, ecc. ho insegnato con qualche buon risultato, ho fatto ricerca contribuendo a piccoli avanzamenti della mia disciplina, ho organizzato e diretto riviste e collane editoriali, contribuendo alla diffusione di buone idee. Alcune di queste attività ho ceduto a giovani collaborari, nella convinzione che fossero necessarie forze nuove e idee nuove, altre continuo a svolgere.

Sono presuntuoso, forse si, ma ho la forza fisica e intellettuale per fare.

Ma anche altri che magari hanno fatto lavori logoranti, e che oggi si acconciano felici a badare ai nipoti, ad aiutare i figli, hanno diritto di continuare quello che fanno. Anche chi è affetto da qualche malattia ha il diritto di “godersi” il suo male, fino alla fine. Il medico o i medici, si ricordino del giuramento che hanno fatto, loro combattono contro la morte, non le possono facilitare il lavoro.

Ma poi mi viene da ridere, non si tratta di cosa seria, ma di argomento per alimentare il dibattito televisivo, lo “scontro” tra opinioni non meditate, il nostro modo di fare disinformazione.

Una cosa va ricordata a chi decide ”se le pantere grigie scendono in campo, la cosa si fa seria, non hanno niente da perdere”. Io mi preparo, ma so che tutto finirà in pappa, ma conviene vigilare.