sabato 24 giugno 2017

Ivan Blečić e Arnaldo Cecchini - Verso una pianificazione antifragile.

(da Archivio di studi urbani e regionali; La città bene comune, Casa della cultura Milano, 2017)
Il saggio di Ivan Blečić e Arnaldo Cecchini - Verso una pianificazione antifragile. Come pensare al futuro senza prevederlo (FrancoAngeli, 2016) - si raccomanda per più di un motivo: è intelligente, puzza di originalità, non è accomodante e stimola punti di vista imprevisti. Non è la solita lamentazione intorno alle difficoltà della pianificazione, né se ne prospetta l'abbandono - già questo sarebbe un motivo di grande apprezzamento - ma si propone di costruire un punto di vista nuovo sulla natura della città e le sue dinamiche.
In apertura gli autori denunziano tre limiti del loro lavoro: aver posto attenzione alle città occidentali, non aver considerato il ruolo del conflitto sociale e aver fatto riferimento più alle "azioni di governo delle trasformazioni urbane" che alla strumentazione e alla tecnica di piano. A me pare che l'ultima piuttosto che un limite sia un giusto atteggiamento che fa i conti con la realtà della pianificazione: non applicazione di modelli astratti ma, piuttosto, "governo delle trasformazioni urbane". Della prima non merita parlare: le situazioni urbane mondiali tendono a una diversificazione di cui non sembra potersi intuire la logica, mentre più omogenee appaiono le città occidentali. Invece, il non aver considerato il ruolo del conflitto sociale e la dinamica degli interessi contrastanti nelle trasformazioni urbane, può effettivamente essere considerato un limite. "Conflitti" (in tutte le forme ed espressioni) e dinamica urbana appaiono legati da strettissime relazioni. Si potrebbe azzardare che vivono in simbiosi: le dinamiche urbane sono figlie dei conflitti e questi ultimi nascono nell'alveo delle dinamiche urbane. A me pare che i due autori, anche se non esplicitamente, proprio nella formulazione della loro tesi in realtà abbiano fatto riferimento ai conflitti. Seppur in una visione individualista - quando, per esempio, affermano con decisione che "la gente fa di testa propria" - essi di fatto si riferiscono a quei conflitti che in varia forma e con diversi esiti generano dinamiche urbane.
Blečić e Cecchini si muovono lungo la corrente che individua come scopo del progetto l'adattamento "della forma alla funzione", un progetto possibile solo se c'è "un soggetto che consapevolmente si pone e persegue degli obiettivi". Ma, la relazione tra adattamento della forma alla funzione e la necessità di una soggettività che si ponga degli obiettivi applicata ai sistemi sociali non è priva di significative implicazioni. Tra queste c'è l'imprevedibilità degli esiti dovuta alla natura dei sistemi sociali, all'azione e all'intenzione dei soggetti sociali. È a partire da queste considerazioni che i due autori formulano un lungo elenco di idola (il riferimento è a Francesco Bacone) che tanta parte hanno nella "scarsa efficacia" della pianificazione e gestione del territorio. Nonostante quello che appare, o meglio che si crede, la pianificazione non ha rappresentato un corpo stabile e immobile di regole, principi e strumenti. Da sempre la sua scarsa efficacia - per dirla con i nostri autori - ha spinto a continui aggiustamenti, a considerare nuove ipotesi, nuove interpretazioni. Qualcuna di queste ne ha messo perfino in discussione la necessità e l'utilità al punto da determinare, molto più spesso di quanto non si creda, una struttura di pensiero poco utile, degli idola in parte identificati e descritti dai nostri autori. Non vorrei soffermarmi su ciascuno di questi (sono 12) ma elencarli sì, perché da un lato sono espressione dell'attenzione e dell'acume degli autori, dall'altro perché la semplice loro elencazione dovrebbe o potrebbe fare arrossire qualche pianificatore per la sua affezione ad alcuni di questi (va detto, non parlo di errori, ma di convinzioni e diffuse credenze che questi comportino risultati negativi). L'elenco comprende: Il dogma della continuità; La fallacia dell'estrapolazione; L'assunto della retroattività dei principi morali; La pretesa dell'universalità - spaziale e temporale - dei comportamenti; L'oblio degli effetti contro-intuitivi; La sindrome del defroqué; L'ipotesi dell'agire razionale; La querelle riduzionismo vs olismo; La querelle bottom-up vs top-down; La querelle quantitativo vs qualitativo; Il "buon dottore"; Le intelligenze sono multiple e non trasferibili; Misurare non è valutare, valutare non è decidere; Troppo tardi per smettere (una delle ragioni dei disastri della pianificazione). Per ognuno di questi idola, gli autori forniscono anche una ricetta per la loro cura "attraverso la concezione del progetto come processo che si svolge a molti livelli e coinvolge molti attori, e non come il prodotto di una mente razionale che disegna in modo fermo e razionale la strada del futuro".
Le ricette - com'è noto - sono sempre impastate con l'idola della semplificazione. Non sfuggono a questa regola neanche quelle degli autori che, pur nella loro linearità argomentativa, tralasciano molte questioni, la principale delle quali - mi pare - sia un sostanziale sorvolare sulla questione del potere o dei poteri. Tralascio tuttavia questo argomento, per arrivare al nocciolo del saggio che mi pare molto interessante. Gli autori ci guidano verso una distinzione che nel loro ragionamento appare centrale: gli oggetti, sistemi, organismi, ecc. possono essere distinti in fragili, robusti e antifragili. Sono fragili quelli che subiscono negativamente gli effetti delle modifiche dell'ambiente; una tazza di vetro se cade a terra si rompe, non sappiamo quando, ma nel lungo periodo è molto probabile che ciò avvenga. Mentre robusto è un oggetto che non viene sostanzialmente modificato da eventi che avvengono nell'ambiente. Così, mentre "cadere" per un bicchiere genera una catastrofe, cioè la rottura dell'oggetto, se cade un'incudine, questa non si modifica ma resta intatta. Tuttavia, robusto non è il contrario di fragile, come non lo sono durevole, resistente, resiliente, ecc. "L'opposto di essere fragile - scrivono gli autori - sarebbe qualcosa che eventi, perturbazioni, fattori di stress, volatilità, disordine - dunque il tempo - in generale non nocciono e però nemmeno lasciano com'è. Sarebbe piuttosto qualche cosa che può, perlomeno in alcune circostanze, guadagnare, migliorare, ossia prosperare nel disordine". La parola adatta, allora, secondo gli Blečić e Cecchini è: antifragile.
Gli autori identificano la città come un sistema antifragile, nel senso che nel disordine essa può perfino migliorare. Possono cioè presentarsi dei "cigni neri" - espressione che Blečić e Cecchini riprendono dal saggio di Nassim Nicholas Taleb -, ovvero eventi con scarsa probabilità di avvenire ma, nel caso, con notevoli conseguenze. Mi pare, però, che la città si presenti come antifragile non solo per l'esistenza dei "cigni neri" - che in generale non è possibile né prevedere, né controllare - ma per le dinamiche delle sue stesse variabili. Mi viene comodo, per provare a spiegarmi, far riferimento a quanto sottolineato in precedenza circa la relazione simbiotica esistente tra conflitto e città: il primo crea disordine, mette cioè in discussione l'ordine esistente e la città è costretta a migliorare, ma tale miglioramento determina nuovo conflitto. La nozione di antifragilità attribuita alla città pare dunque convincente, anche se appare utile un'altra precisazione. La Città, cioè la specie città, l'idea di città, può effettivamente essere considerata antifragile, mentre le singole città possono essere fragili: non migliorare nel disordine ma perire. I motivi possono essere esogeni ed endogeni: l'incapacità (soprattutto nella prima fase della storia della città e nell'epoca attuale) di fare i conti con la disponibilità di risorse; distruzioni belliche (che possono tuttavia trasformarsi in occasioni di miglioramento); cataclismi naturali; epidemie, "piaghe"; ecc.
Ma qui sorge un altro problema: la fragilità e la robustezza sono caratteristiche che distinguono oggetti o sistemi, ma lo è anche l'antifragilità? In altri termini, mentre le prime due sono caratteristiche degli oggetti o dei sistemi, l'antifragilità appare piuttosto come una possibile "condizione". Una città sarà cioè antifragile se "curata" con intelligenza e amore, mentre in assenza di questa attitudine di governo una città può risultare fragile. Non è casuale se alla nozione di antifragilità sia connessa la possibilità di miglioramento. Una possibilità, non una certezza, perché devono essere presenti le condizioni affinché quella potenzialità diventi effettiva. Sollevare questo problema non ha il significato di mettere in discussione il contributo, anche di metodo, di questo testo. Piuttosto quello di far notare come nell'antifragilità sia contenuta un'azione consapevole per realizzarne le potenzialità. In modo diretto e indiretto i due autori hanno messo in luce questo aspetto e non è casuale che la seconda parte del testo sia dedicata alla pianificazione antifragile.
L'aver impostato il testo sull'antifragilità della città, mette in chiaro come la dinamica urbana sia collegata al disordine, un disordine che eventualmente migliora. Il governo della città, quindi, dovrebbe ritenere preziosi gli elementi di disordine (il passare del tempo, ma non solo) e intervenire con mano intelligente e amorosa per non distruggere gli elementi dinamici e migliorativi della città e, nello stesso tempo, tentare di creare le condizioni per uno sviluppo creativo della popolazione. Secondo gli autori, infatti, i connotati di una pianificazione antifragile sono: evitare di fare quel che è nocivo; cercare di costruire una visione condivisa e garantire una certa azione autonoma delle forze sociali. In quest'ultimo ambito pongono però dei paletti, dei punti fermi e fanno sfoggio di buon senso "pianificatorio", avendo sempre presente la realtà che è spesso contraddittoria e che "in ultima istanza - secondo gli autori - suggerisce di intervenire solo quando e dove è necessario, con massima economia e sfruttando il più possibile tendenze 'naturali', facendo il più possibile scelte aperte e reversibili. Ciò d'altro canto non vuol dire abbandonare l'idea delle regole. Al contrario. Ma occorrono regole e vincoli che siano generali, sovraordinati e sottratti alle contingenze e convenienze di breve periodo".
La pianificazione antifragile trova nei cittadini non solo quanti dovranno sopportare le scelte di pianificazione, ma i soggetti attivi nella determinazione degli obiettivi. Si tratta, dunque, di mettere in campo nuovi strumenti in grado di coinvolgere i cittadini, con particolare attenzione a quelli più svantaggiati. Quello degli "scenari" potrebbe essere lo strumento adatto per costruire un punto di vista condiviso, mettendo in luce quelli desiderabili e quelli da evitare. L'approccio teorico che i due autori propongono per definire meglio la loro ipotesi programmatoria è quello della capability approach, ovvero delle capacità urbane. Di ogni comunità "si tratta [cioè] di stabilire, e possibilmente di isolare, come e sino a che punto le loro capacità complessive - che ovviamente dipendono da molti altri fattori a-spaziali e non legati al loro ambiente fisico - sono determinate da fattori eminentemente urbani, legati al funzionamento della città e dell'ambiente urbano". L'esempio dei parchi a cui ricorrono gli autori - uno dei tanti che si potrebbero fare - chiarisce bene questa problematica: non si tratta soltanto di determinare la quantità di verde necessaria per la specifica città ma, piuttosto, di individuare le opportunità e gli ostacoli che permettono o frenano le persone a "ricrearsi in luoghi naturalistici". In altri termini - se mi posso produrre in una traduzione - il problema sta nel negare operatività ad approcci che privilegino "quantità", secondo parametri quanto articolati si voglia ma comunque astratti e non misurati nella specifica condizione urbana, e affermare invece la necessità di realizzare funzionamenti urbani adatti agli individui più svantaggiati. Questo perché se fossero positivi per gli individui più svantaggiati a maggior ragione lo sarebbero per gli altri dotati di maggior capacità urbana. Questo approccio è certamente condivisibile anche se non privo di difficoltà applicative. Altre volte ho affermato che il compito della pianificazione e dell'organizzazione della città è quello di mitigare le condizioni più svantaggiate, non essendo nella natura del piano modificarne l'origine. Non si fa fatica a riconoscere nell'approccio di Blečić e Cecchini un atteggiamento più universalistico, che è facilitato dall'avere espunto dal loro lavoro la matrice dello svantaggio sociale, risolta - semplifico - nella capacità urbana.
Per concludere, il testo mi sembra molto interessante per i problemi che direttamente o indirettamente pone ai pianificatori e a chi ha responsabilità di governo della città. Tuttavia, che siano state messe a punto soluzioni complete ai problemi sollevati, non si può dire. Del resto, in chiusura del libro, i due autori ci invitano a un "arrivederci" per il lavoro che resta da fare. In altre parole, le novità introdotte nella riflessione di Blečić e Cecchini sono molte, ma non mi pare che siano tutte convincenti. Qui ho cercato di mettere in luce alcune obiezioni, la necessità di approfondimenti, ecc. anche per evitare che l'elaborazione dei due autori diventi non un modello di approccio teorico ma uno strumento standardizzato (cosa che gli stessi autori - credo - non vorrebbero). È importante, infatti, ricordare che dentro un dato sistema socio-economico le logiche che regolano il funzionamento delle città sono abbastanza omogenee. Si potrebbe forse dire che si tratta di un' "unica logica", con poche variazioni, mentre la concreta realizzazione della singola città, pur rispondendo alla stessa logica, si presenta diversa da ogni altra (in ragione del sito, della storia, dello sviluppo economico, delle tipologie di produzione, ecc.). Si ha invece l'impressione che nel testo questa "logica" venga se non cancellata almeno messa tra parentesi: la città viene cioè "osservata" nella sua antropologica realtà, ma non viene affrontato il tema dei meccanismi generativi, degli interessi contrastanti, dei conflitti e, spesso, dell'indisponibilità individuale. Per fare un solo esempio, l'uso del termine "attore" sembra rimandare alla deprivazione dei singoli individui di ogni propria componente sociale, cosa che nella realtà non è. Dunque, personalmente ho trovato la lettura del testo molto interessante. Soprattutto, ho apprezzato la capacità di prospettare una modalità di osservazione non usuale e che provoca nuovi pensieri. E un testo, si sa, vale proprio per i pensieri che è capace di generare. Come, in concreto, si possa poi organizzare una pianificazione antifragile resta un problema aperto che ha la necessità di ulteriori approfondimenti, ricerche e sperimentazioni. L'importante è non fermarsi, non guardarsi allo specchio: il lavoro fatto è significativo e interessante, quello da fare è ancora tanto.

Francesco Indovina



martedì 6 giugno 2017

I conti sbagliati

Diario n. 346
6 giugno 207



Tutti i commentatori, e non solo, sono convinti che si andrà a votare a settembre (mese della maggior parte dei disastri); lo vogliono i partiti dell’accordo elettorale, lo vuole Matteo Renzi, nonostante tutte le affermazioni precedenti.
Tutti si domandano perché? ad eccezione del “buon” Gentiloni, agnello sacrificale. C’è solo una ragione: la legge elettorale.
Il meccanismo che le due Camere del parlamento si apprestano a votare in gran fetta, come è noto, prevede uno sbarramento al 5%, che il vorrebbe dire lasciare fuori dal parlamento (dati dell’intenzione di voto di maggio) i rappresentati di almeno il 13% degli elettori che hanno dimostrato di avere intenzione di votare (a questa percentuale andrà aggiunta la quota degli astenuti e di quanti votano scheda bianca o nulla). Insomma ci si avvicina al 50% degli aventi diritti. Si può esultare: abbiamo raggiunto una democrazia matura.
Tutto pacifico? Ma neanche per sogno! Da qui la voglia e il desiderio di andare subito al voto. Se fosse tutto pacifico non sarebbe necessaria nessuna accelerazione, ma siccome nell’area di quanti sarebbero privati di  rappresentanza c’è movimento (i cespugli, come dispregiativamente sono chiamati i partiti che non raggiungono il5%), siccome esiste una massa di non rappresentati che cerca rappresentanza, il calcolo sbagliato è allora quello di anticipare al massimo il voto, per evitare che i movimenti in atto si consolidano. Ma qui sta l’errore: l’acceleratore potrebbe essere un potente coagulante.
Per esempio potrebbe mettere le ali ai piedi dell’ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia (che potrebbe ottenere un’ulteriore spinta dalla eventuale vittoria dei laburisti in Gran Bretagna). È noto che l’impresa di Pisapia è ardua e densa di ostacoli: programmatici, differenze di prospettive, idiosincrasie personali, ecc. Ma ridurre i tempi potrebbe facilitare l’impresa. In questo caso non solo raggiungere il 5% sarebbe molto, ma molto facile, ma questa lista punirebbe il PD, soprattutto, e in parte 5*.
A anche a destra le cose si muovono; Alfano è in affanno, sicuro, ma anche lui è alla ricerca di soluzioni: il movimento di Parisi? la discesa in campo di Ciriaco de Mita? Gli stessi deputati e senatori verdiniani, ormai senza capo? Non so, ma certo anche in questo caso l’accelerazione potrebbe essere un buon viatico, con il risultato di colpire Forza Italia e 5*.
La fretta, come diceva mia nonna, fa i gattini ciechi. Per questo i conti dei partiti dell’accordo elettorale mi sembrano sbagliati.
Tutto questo, nell’uno e nell’altro caso, sembra avere poco a che fare con i destini (parola roboante) del nostro paese.