domenica 26 dicembre 2021

Auguri, su coraggio

Diario

23/12/2021

Cari amici, prima di ogni cosa un grandissimo augurio per il prossimo anno, sebbene la grande pessimista della mia mamma diceva “al peggio non c’è mai fine” io resto ottimista.

Certo molti di voi diranno, ma che c’è da essere ottimisti: il morbo impazza, la politica mostra le ambizioni personali travestite da impegni per il bene comune, la scienza fornisce vaghe sicurezze, la letteratura non ci dota di speciali testi, ecc. Vero, tutto vero, ma per fortuna ancora il sole sorge ogni mattina, l’amore (come l’odio) riempie molti cuori degli umani, i fiori, anche se striminziti sbocciano, i bambini giocano, ……

Se qualcuno aveva dei dubbi ora può mettersi tranquillo: Mario Draghi vorrebbe fare il presidente della repubblica, se così fosse non sarebbe uno dei peggiori della nostra giovane Repubblica (o forse si!), del resto tra i nomi circolanti c’era di peggio anche tra alcune delle donne.

A proposito della politica credo che il detto di mia madre sia più attinente. 

Quello che fa specie è la vaporizzazione quasi completa della sinistra: smembrata, fatta a pezzi, non riesce a respirare, rantola nel buio della sua prospettiva. Si potrebbe sostenere dell’esistenza di un enorme spazio per lei, ma forse non è vero, ma è vero che quel poco che esiste ha bisogno di rinnovarsi, ma al contrario di Manzoni che lavò la lingua del suo romanzo in Arno, la sinistra non sa dove lavare i suoi panni e se stessa. Non c’è fiume attraente.

Detto questo buon anno e siate sorridenti e felici.

  

lunedì 29 novembre 2021

Rimini, una riunione del Manifesto (movimento)

  

 

Diario

28 novembre 2001

 

Nei giorni, 27 e 28, quello che resta del Manifesto e un gruppo di giovani (la speranza) si sono incontrati a Rimini, sia per celebrare il decennale della morte di Lucio Magri, sia per ragionare sulla fase, come la chiamiamo noi, e su quello che sarebbe utile fare.

Un certo numero di dotti compagni (non li ho contati ma sicuramente vicini a cento), venuti anche da lontano, fin da Palermo, hanno tentato di ragionare di politica. Un gruppo di reduci? Si e no. Molti si rivedevano dopo 30-40 anni, si rivedevano e meglio dire si riconoscevano con fatica, tutti siamo molto cambiati, intendo fisicamente, ma non di reduci, come siamo stati sempre abituati a considerarci, ma piuttosto  un faglia della sinistra con la pretesa di voler dire la sua.

L’elaborazione di Lucio è stata analizzata da molti punti di vista, in certi momenti è sembrato (a me) di essere in una Accademia storica per la puntigliosità delle citazioni, per i riferimenti alle diverse fasi storiche, per l’esplorazione degli scritti di Lucio a diversi livelli di approfondimenti. Ma non vorrei essere frainteso, anche dentro questa esplorazione si sentiva la passione politica dei singoli. Era chiaro che l’esplorazione del pensiero magriano non fosse una fuga ma un modo, me lo si lasci dire, di ripartire. Molti compagni in forme diverse hanno continuato a fare politica, alcuni si sono come ritirati nel loro guscio, e questa è stata un’occasione per tirare fuori la testina. Qualcuno ci ha messo una carica (modesta per fortuna) di critica, qualche altro ha avuto un atteggiamento esaltato, ma complessivamente una discussione molto interessante e sostanzialmente piacevole, se fosse possibile usare questo termine per una riunione di “politica”.

Ma l’oggi emerge, ne poteva essere diversamente, anche in questa riunione. La natura dell’attuale crisi, la pandemia come espressione di questa crisi e come meccanismo di riorganizzazione capitalistica, l’attualità della rivoluzione, il ruolo delle diverse forze sociali, la crisi ambientale e quella sociale, le loro relazioni, la necessità di un’organizzazione, l’unificazione delle forze in campo, le città, la necessità di lavorare ad una sorta di neo-comunismo, ecc. sgranando i grani di un rosario noto.

Non voglio essere frainteso ancora, non intendo che su questi tempi si sia andati molto avanti, lungo gli  approfondimenti necessari, tutt’altro, il tempo non c’era e poi di fatto questi non erano il cuore della riunione, ma è stato importante che le questione dell’oggi siano apparsi con l’evidenza che meritano. Forse se ci si rivedrà, cosa da molti auspicata, faremo delle riunioni tematiche, affrontato singole questioni per un lavoro politico che pare necessario.

Il clima della riunione è stato molto tranquillo, senza tensioni, e questa è una novità molto importante per una riunione del “Manifesto”, ma si percepiva una specie di ansia nei singoli compagni, nei singoli interventi, nei campanelli che si andavano formando, un’ansia di urgenza, non dipendente soltanto  dall’età di molti di noi, si percepiva anche nei giovani, si tratta piuttosto della  consapevolezza che un lavoro andava fatto e che noi tutti potevamo rappresentare un pezzo di questo lavoro.

giovedì 16 settembre 2021

Il Manifesto 50 anni

 

 

Cos’è un quotidiano comunista? Certo è un quotidiano che cerca la verità, che interpreta i fatti che avvengono avendo come punto di riferimento la condizione della classe operaia e degli ultimi (non necessariamente comunisti), che si sforza di non ripetere slogan  ma di articolare il comunismo nel processo di trasformazione della società.  Il Manifesto è stato sicuramente  questo, con intensità e intelligenza politica non sempre costante, le maree invadevano anche la sua redazione. Non importa quanto ciascuno di noi sia stato sempre d’accordo con quanto scrivevano i fondatori o i loro eredi, si trattava sempre di una medicina, anche se talvolta amara,  quasi sempre corroborante.

Colgo un’incomprensione profonda in chi propone di togliere la testatina di quotidiano comunista, o forse la considera un’espressione senza sostanza.

Ma c’è qualcosa di più. Non sembri un azzardo ma questo quotidiano ha rappresentato un argine alle derive della sinistra; la sua critica alla lotta armata come allo smottamento verso un riformismo senza corpo e anima, ha costituito un punto di riferimento importante, e ha finito per influenzare chi si muoveva nel campo della politica. Molti di noi sono spesso scandalizzati dalla pochezza dell’espressione che la sinistra, in tutte le sue articolazioni, esprime, ma riflettiamo su cosa sarebbe oggi la sinistra senza la presenza cinquantennale di questo giornale. Senza la critica che ha espresso, senza i suggerimenti che ha avanzato, il tutto facendo un giornale.

Possiamo dirci contenti e soddisfatti, perché mai, no, non lo siamo. Esprimo un’opinione personale che non è sostanziata dal confronto con altri compagni, usa meno e poi la … pandemia. A me pare che il giornale sia sempre radicale, anzi forse più radicale del passato su certe questioni, ma che contemporaneamente sia sempre più trascinato dai fatti spiccioli, per grandi che siano, ma abbia perso il gusto e la sapienza per riflettere sulla modernità del comunismo. 

Possiamo accettare che il capitalismo vinca sempre e ovunque, e che il “denaro” e le “merci” disgreghino continuamente la società producendo diseguaglianze, discriminazione, emarginazione, distruzione ambientale e guerre? Non possiamo sperare che cambi la sua natura senza che ad esso si opponga una prospettiva diversa, appunto il comunismo moderno. Questo può pescare nella tradizione i suoi valori, soprattutto la libertà, può ancora riferirsi a quanto elaborato in questo secolo, ma sicuramente deve definire le modalità della nuova organizzazione sociale e i mezzi per vincere. Dobbiamo capire il mondo per poterlo cambiare, questo è certo, ma dovremmo cambiarlo.

Il nostro comunismo, non può essere quello dell’inizio del secolo scorso, da li deve venire l’ambizione di cambiare la società (una follia?), ma qui ora dobbiamo declinare le modalità per disgregare il potere, dobbiamo fornire il sapere intorno al nostro mondo e alle sue radici, individuare gli strumenti di lotta, dobbiamo fornire un rinnovato pensiero materialistico e nuovi strumenti materiali per eliminare ogni piramide sociale, ogni discriminazione, ogni povertà (materiale e intellettuale). Non abbiamo scelta, siamo costretti su questa strada, se quello che vediamo non piace perché ingiusto e indegno di una umanità destinata al benessere generalizzato e alla felicità.

E qui torniamo al nostro giornale, alla necessità che sia di … più (non sembri una critica semmai potrebbe essere un’autocritica di quanti  leggono  con la puzza sotto il naso).  Un di più di fantasia, un di più di coraggio, un di più di lavoro in profondità, un di più in proposizione, un di più idi ricerca, un di più di elaborazione.

Il Manifesto non è mai stato una gazzetta (e non lo è), le sue ambizioni erano altre, non fare un giornale di sinistra (appunto quotidiano comunista), ma mettere mano ad uno strumento di lotta e per questo non è sufficiente la denunzia,  è necessaria la proposta, l’esplorazione dei soggetti in campo, la spinta verso l’autorganizzazione, la chiarezza degli obiettivi: il comunismo moderno.

Quanto scritto non vuole essere una critica a chi il giornale lo fa tutti i giorni, ma forse è il momento per riflettere su questo arzillo cinquantenne: mettiamolo sulla bici per scalare la montagna.

 

  

 

 

lunedì 13 settembre 2021

Agnés Poirier, Rive Gauche

Agnés Poirier, Rive Gauche, Arte, Passione e Rinascita a Parigi, 1940-1950, Einaudi, 2021

Il libro è la ricostruzione delle idee che hanno percorso Parigi nel decennio che va dall'occupazione nazista alla liberazione e alla ripresa.

Sono gli anni dell'esistenzialismo, e della trasformazione dei modi di vita soprattutto di chi era partecipe della vita della Riva Sinistra.

L'autrice racconta della presenza degli intellettuali, a cominciare da S e DB, e dell'animazione suscitata dalle nuove idee e dalla presenza di scrittori, artisti, intellettuali, non solo francesi ma anche americani. Il libro riesce a rendere viva l'articolarsi delle vite di questa umanità, sicuramente per molti versi eccezionale, dei loro rapporti e dei loro amori. Il modello di convivenza di DB e di S, che prevede un grande amore e una grande intesa, soprattutto intellettuale, insieme ad una piena libertà, costituisce per alcuni ambienti uno scandalo mentre per altri una ispirazione.

Interessante anche le vicende del gruppo (DB  e S, più altri amici come C, e compagni) con il partito comunista francese, molto settario e chiuso. 

La nascita della rivista Le Temps Modernes, e il ruolo assunto da questa pubblicazione.

Nonostante la molteplicità dei personaggi e qualche difficoltà nel seguirne le vicende, il libro non solo è di facile e piacevole lettura, ma è anche appassionante.


venerdì 10 settembre 2021

Restaurazione senza critica

 

 

 

Diario

10 settembre 2021

 

Se con un po’ di attenzione, e combattendo il filo di noia che prende, si seguissero le trasmissione di discussione politica, per esempio in TV, si scoprirebbe, con poca meraviglia, che alcuni degli interlocutori più critici (filosofi, professori, giornalisti, ecc., con un passato più o meno da estremisti), riescono ad appuntare sul governo delle critiche relative al metodo. Il decreto, la legge, il provvedimento poteva essere fatto meglio, essere più chiaro, senza contraddizioni, ecc., ma nessuno elabora una critica sulle prospettive di trasformazione della società.

Alcuni affermano la necessità di una trasformazione, ma si tratta di una affermazione senza spessore. Sono consapevole che non è facile indicare una “via di trasformazione” che non segua modelli storici fallimentari, ma tuttavia meriterebbe misurare quale tasso di trasformazione inducono i provvedimenti governativi. Niente di tutto questo. Quella operata da Mario Draghi è una vera e propria restaurazione, le innovazioni essendo limitate a quanto impone l’innovazione tecnologica e a quanto conviene integrare le trasformazione sociali indotte dal passare del tempo, senza sconvolgere rapporti di potere.

Non si tratta di una critica agli “intellettuali”, questi infatti non sono tutti uguali, si diversificano per cultura, esperienza politica, punti di vista sulla società, ecc. ma piuttosto pare necessaria una riflessione tragica, il pensiero critico sulla società e la individuazione dei processi di trasformazione (non di cambiamento) sono scomparsi dall’orizzonte del pensiero e della politica di sinistra.

Che suonino, che suonino pure, ma la musica pare inadatta alle necessità.

 

mercoledì 8 settembre 2021

Il "casismo" imperversa

 

 

Diario

8 settembre 2021

 

Io ho fatto le due dosi di vaccino, nessun disturbo collaterale, come milioni di cittadini. Io ho ottenuto il green pass facilmente, come milioni di cittadini. Io e quelli come me non siamo dei “casi”, non suscitiamo emozioni, la nostra esperienza non viene strombettata sui giornali e sulle TV, siamo, possiamo dire, dei casi normali.

Ma ci sono i casi, non normali, che costituiscono il pane quotidiano di giornali e TV. C’è il caso di chi non ha potuto ancora fare il vaccino, nonostante aver preso appuntamento; c’è il caso di chi ha avuto, fatto il vaccino, notevoli disturbi collaterali (previsti); c’è il caso del parente che fatti i vaccini è stato colpito dal virus (prevista la possibilità); c’è il caso della nonna che curatasi con un purgante sta benissimo (fortunata); ecc. ecc., l’articolazione dei casi ha uno spettro molto ampio. C’è il caso di chi per quanti sforzi abbia fatto non è riuscito ad ottenere il green pass; c’è il caso di chi ha avuto il green pass sbagliato; c’è il caso di chi per avere il green pass è stato sballottolato per tanti uffici; ecc. ecc. anche in questo caso l’articolazione dei casi è molto ampia.

Ora tutti questi casi di anomalie (previste o meno) trovano spazio sui giornali e soprattutto in tv, nei programmi di “discussione” (si fa per dire). Credo che sia giusto che se ne parli, si tratta di casi che forniscono indicazioni per operare delle correzioni al sistema della vaccinazione e alla documentazione di garanzia. Il problema sta nel fatto che i singoli casi sono trattati in modo screanzato, perché sono assunti come dimostrazione del caotico sistema di vaccinazione, o, ancora, rendere chiara  l’inaffidabilità dei vaccini e del sistema di somministrazione, alimentato dubbi, perplessità in una fascia modesta della popolazione.

Giornali e TV in questi casi non fanno “informazione” ma piuttosto   “disinformazione”, per la soddisfazione di scettici (pericolosi).     

martedì 7 settembre 2021

Mario Draghi + covid = oppio per la mente

 

 


Diario 7 settembre 2021

 

Quali sono i temi politici che attanagliano l’attenzione dell’opinione pubblica se non il destino futuro di Mario Draghi (presidente del Consiglio o della Repubblica?) e l’evoluzione dell’epidemia con i connessi problemi della vaccinazione e del green pass? Di recente si è aggiunto, per fortuna (non me ne vogliano le donne afghane), l’Afghanistan, che succederà di quel e in quel paese, dopo che l’Occidente ha ritirato soldati e quant’altro. L’Afghanistan ha sollevato grande emozione, che appunto come le emozioni molto presto sparirà.

Pur non sottovalutando la questione sanitaria, è detestabile  lo spettacolo che “attorno” si è costruito con grande apporto della politica e dei mezzi di comunicazione di massa, in primis la TV. Senza sottovalutare la questione sanitaria, mi pare che l’agenda delle questioni che potrebbero interessare il paese dovrebbe essere diverse. Ma non c’è verso: il destino del futuro di Mario Draghi e il covid dominano.

Si potrebbe riflettere e discutere del ruolo di restauratore svolto dal nostro presidente del Consiglio: nell’industria, nei rapporti di lavoro, nel distruggere ogni rappresentanza politica, ecc., ma come si fa, non è possibile mettere in discussione il salvatore della patria. La linea di gestione del nostro presidente e una sorta di veste autoritaria del tipo “maestro scolastico”. Lui non mortifica nessuno, neanche l’intemperante Matteo Salvini, lo chiama a se, se lo siede accanto e con pacatezza gli spiega cosa deve fare e quello abbozza. Se un suo ministro arditamente rivela la necessità del “nucleare”, egli non mostra né irritazione né stupore, ma tace (forse è d’accordo?). Questa sua maieutica funziona benissimo con il PD, non ha bisogno neanche di richiami, quel partito si è messo nella sue mani.

Eppure prima o dopo si dovrà riflettere su questa stagione, la pentola della società ribolle. Così i movimenti non vas, ecc.,  tutto quello ce se ne potrà dire,  sono uno sfogo, sicuramente stupido, del malessere della società.    

Si potrebbe iniziare a ragionare quali potrebbero essere i passi per imboccare una vera transizione ecologica, prescindendo da quello che ne pensa, male, il ministro competente. Si potrebbe ragionare sui passi culturali e di organizzazione sociale necessari affinché il paese diventi multietnico. Si potrebbe ragionare sui livelli massimi di ricchezza ammessi per i singoli (ricchezza acquisita legittimamente). Si potrebbe pensare di capovolgere il sistema di finanza pubblica: i livelli di imposizione dovrebbero essere definiti sulla base delle fabbisogno pubblico che parta da scelte discusse e condivise, e non viceversa. Si potrebbe riflettere sul ruolo della “moneta” in un sistema egualitario. Si potrebbe mettere mano ad una forbice culturale e sociale da una parte e repressiva dall’altra, in tutte le zone di insediamento della criminalità organizzata. Si potrebbe ragionare su un nuovo statuto dei lavoratori. Il ruolo degli anziani, quale potrebbe essere in un contesto sociale nuovo?

Se la società non guarisse della cultura della discriminazione, delle donne, in primis, delle scelte sessuali, di quelle religiose e raziali, resterebbe sempre una società malata e violenta. L’uso dei mezzi di comunicazione di massa che sono stati usati per l’epidemia di covid, dovrebbero, ancora di più, essere usati nei riguardi di questa epidemia, perché di una vera epidemia si tratta. Non possiamo ogni volta commuoverci per la donna uccisa da chi diceva di amarla e non vedere che oltre il fatto di sangue una discriminazione e una angheria costante viene consumata nei riguardi delle donne in tutti gli ambienti sociali.

Si potrebbe continuare a ragionare su quale società vorremmo fosse la nostra. I modelli sono e sono stati fallimentare, ma abbiamo bisogno di aria, di un pensiero giovane, abbiamo gli strumenti, ci manca la volontà, ma forse siamo in uno stato di impossibilità.

Tutto questo è impossibile, non si può mettere in discussione chi è stato chiamato “salvatore della patria” (unico!). Sarebbe bello se si rendesse conto che la sua presenza non moltiplica le energie vitali, ma le sta uccidendo. La sua è una presenza negativa per un nuovo futuro della nostra società. Ma forse non pensa assolutamente ad una nuova società.

Così del covid, basta parlare, sappiamo cosa fare, facciamolo e basta. Non è necessario sentire l’opinione, o il parere del filosofo e della casalinga, e di tutti quelli che ci stanno in mezzo. Liberiamo la mente da questa ossessione.

Dobbiamo ricominciare a pensare, a desiderare, a volere e se necessario anche a lottare. Da quando la lotta politica è diventata così sterile e repulsiva?  

     

 

domenica 5 settembre 2021

R. Scannavini, Al centro di Bologna, 1965-2015 (da Città bene comune, Casa della Cultura, Milano)

 

Il capoluogo emiliano, nel periodo di cui si occupa il libro di Roberto Scannavini – Al centro di Bologna, 1965-2015. Mezzo secolo di urbanistica (Costa Editore, 2020) –, è stato il cuore di una innovativa sperimentazione urbanistica che ha prodotto non pochi risultati eccellenti. Alcune fasi cruciali di questa esperienza hanno giustamente catalizzato l’attenzione della cultura urbanistica nazionale e internazionale per l’intelligenza politica e tecnica con la quale sono stati utilizzati gli strumenti di pianificazione disponibili e per le innovazioni introdotteGli anni presi in considerazione dall’autore, soprattutto i meno recenti, sono quelli in cui nel nostro paese sono state varate leggi importanti che avevano l’obiettivo di migliorare la gestione delle nostre città. Bologna, tuttavia, ci ha messo del suo ed è andata oltre la loro mera applicazione tecnica. Grazie all'impulso di assessori di grande spessore politico e disciplinare (come Giuseppe Campos Venuti, Armando Sarti, Pierluigi Cervellati), si è infatti avvalsa di consulenti esterni di primo piano (cito solo Leonardo Benevolo), ma soprattutto di un gruppo di giovani tecnici, molto impegnati e preparati, che ha supportato scelte politiche e urbanistiche coraggiose costituendo, di fatto, l’armata dell’intervento. A questo proposito, scrive Scannavini, andrebbe attribuito «…un riconoscimento particolare all’assessore Armando Sarti, … per la capacità d’iniziativa e la decisione coraggiosa – soprattutto per i tempi – di dare piena fiducia, da subito, ai giovani architetti neolaureati appena assunti in Comune» (p.18). Non è azzardato affermare che questa “fiducia ai giovani” possa essere considerata una chiave di lettura per spiegare, almeno in parte, il successo dell’urbanistica bolognese che non ha paragoni con quella praticata da altre città italiane nello stesso periodo. È questo l’ambiente politico e culturale nel quale l’esperienza bolognese è maturata e si è potuta affermare, assumendo il tema della conservazione della forma urbis e del centro storico come asse portante di ogni intervento urbanistico ed edilizio della città. Una scelta non priva di contrasti sul piano politico – perché si toccavano non pochi interessi immobiliari (quelli che nel nostro paese si sono sempre configurati come centri di potere, con grande rappresentanza politica, così come quelli delle cooperative) –, sul piano culturale e su quello disciplinare. Su quest’ultimo fronte, anche se il consenso è stato ampio, non sono infatti mancate le voci critiche (se ne trova traccia anche solo sfogliando la raccolta di Archivio di studi urbani e regionali degli anni Settanta).

Il libro di Roberto Scannavini – di fatto un resoconto di tutta questa esperienza che finisce per configurarsi come un bilancio della storia urbanistica di una città – mi pare interessante per due ordini di motivi. Da una parte, perché descrive gli strumenti adottati, gli interventi che sono stati realizzati e i loro esiti nell’arco di mezzo secolo. Dall’altra perché questo racconto si intreccia con la biografia professionale dell’autore; e non poteva essere diversamente dato che Roberto Scannavini è stato uno dei pilastri su cui si è costruita questa esperienza.

Partiamo dal primo ambito. Il volume è organizzato per grandi tematiche. I piani di tutela e i progetti di restauro, che comprende il piano per il Centro storico 1967-69; il piano di edilizia popolare nel centro storico 1973-85; verso il PRG del 1985; il PRG per il centro storico del 1985; il piano dei servizi e di sviluppo dell’Università; il sistema storico del verde; il recupero degli spazi pubblici e delle piazze storiche. Ho voluto elencare questi strumenti – che poi sono le tappe salienti dell’intera vicenda e che nel testo sono illustrati in modo dettagliato e corredati di molte immagini – per rendere esplicito che il risultato ottenuto, comunque lo si giudichi, non è un prodotto estemporaneo, né la semplice affermazione di un’idea astratta, ma l’esercizio di un significativo lavoro di pianificazione condotto attraverso l’utilizzo di strumenti urbanistici utilizzati in modo innovativo. Il piano di edilizia popolare nel centro storico, per esempio, esprime un’idea di città e di salvaguardia del corpo fisico della città non disgiunta da quello sociale. Nello stesso periodo, invece, generalmente l’intervento nei centri storici si caratterizzava per una modifica delle destinazioni d’uso degli immobili con l’allontanamento della popolazione; o per il restauro e il ripristino dell’edilizia esistente finalizzati all’aumento della rendita e dunque, anche qui, con la conseguente espulsione della popolazione; infine, per l’inserimento nei tessuti storici di edilizia nuova, spesso mostruosa, al posto di quella esistente con analoghi esiti. Al contrario, l’intervento pubblico di Bologna, appunto di edilizia popolare, apre un’altra strada (per altro non molto seguita): l’acquisizione pubblica di parte del patrimonio edilizio del cuore della città, il relativo restauro e la risistemazione della popolazione già insediata negli stessi immobili. Un approccio che ha permesso la conservazione, il recupero e la ristrutturazione del tessuto edilizio storico senza snaturarne l’anima. Cosa che ha fatto scuola e persino da traino per altri interventi privati.

Una seconda tematica affrontata nel testo riguarda il restauro e l’adeguamento dei monumenti e la loro destinazione a nuovi usi: piazza Maggiore; palazzo d’Accursio; l’ex sala Borsa; ecc. Interventi che non solo hanno garantito la salvaguardia di un notevole patrimonio architettonico e monumentale ma che hanno avuto come esito quello di dotare la città di nuove attrezzature, funzioni e servizi.

Il libro tratta poi il tema dell’Università, una delle più importanti del paese, dal punto di vista degli spazi necessari al suo funzionamento e del suo parziale decentramento fuori dal centro storico, nell’area vasta. Una problematica che ha riguardato palazzi di grande valore architettonico, suscitando allo stesso tempo una discussione sul patrimonio militare dismesso e ceduto al Comune. L’ipotesi di un suo recupero per motivi diversi non è decollata ma a questa l’autore assegna un ruolo strategico per la Bologna del futuro: la rigenerazione di tali aree dismesse e dei relativi complessi architettonici, secondo Scannavini, dovrebbero «essere congrui e compatibili con il ruolo complessivo del centro storico, sempre nel quadro dello sviluppo qualitativo di tutta la città» (p. 137).

Infine, un’ultima tematica riguarda la Fondazione Carisbo, con gli interventi sul complesso San Colombano e del palazzo Fava, quali luoghi per esposizioni permanenti o temporanee.

In generale, il lavoro dell’autore è finalizzato a descrivere la logica di ogni intervento in rapporto agli strumenti utilizzati. Ne illustra con dovizia di particolari i presupposti e risultati, anche con il supporto di una documentazione per immagini che aiuta a comprendere meglio le situazioni. Tuttavia, come dicevo, l’interesse del volume sta anche nell’intreccio della biografia dell’autore con la vicenda dell’urbanistica di Bologna alla quale Scannavini ha dato il proprio contributo come funzionario del Comune e, negli ultimi anni, come libero professionista. Una biografia che si snoda dai tempi dell’Università, alla Facoltà di Architettura di Firenze, e arriva fino ai nostri giorni attraverso opere, restauri, piani, programmi, ecc., con i quali l’autore si è misurato. Un racconto narrato come «un lungo viaggio al centro di Bologna, che – scrive Scannavini – è iniziato in quella lontana mattina sulle rive dell’Arno nel 1957, e che si dovrebbe fermare qui, nel cuore della città antica. Un viaggio certo anche professionale, ma soprattutto un viaggio nella storia dell’urbanistica di Bologna che, nata dalla spinta politica dell’urbanistica riformista di matrice assolutamente emiliana e bolognese, negli anni ’60 del Novecento, ha saputo, nel suo filone storico della tutela, crescere e rendersi autonoma ed incisiva a livello locale, nazionale e internazionale» (p. 128).

C’è però qualcos’altro di importante che la lettura di questo libro mette in luce, ovvero come sia rilevante il governo politico della città per la sua salvaguardia e per garantire una buona vivibilità ai suoi cittadini e a quanti la frequentino. Niente di straordinario se pensiamo che un approccio di questo tipo era praticato da tutti i soggetti che di questa vicenda sono stati protagonisti. Molti di loro, infatti, sono stati promotori di un riformismo attento a tali aspetti, anche se qualche volta con qualche compromissione, oltre che finalizzato a una buona gestione e nel caso specifico a un governo urbanistico intelligente e razionale. Uomini e donne impegnati che hanno consegnato alle generazioni future non una città senza problemi – questo sarebbe stato impossibile (anche sul piano strettamente urbanistico) – ma una città con un alto livello di vivibilità e con una altrettanto alta dotazione di servizi di ogni genere, anche culturali.

Scannavini a proposito di alcune vicende ricostruite nel testo riconosce che forse «si poteva fare molto di più, ma non si è riusciti nonostante un impegno sia politico che tecnico professionale di durata quasi cinquantennale» (p.132). Questo libro, invece, a giudizio di chi scrive fa chiaramente emergere quanto si sia fatto e la distanza siderale che tuttora esiste tra Bologna e altre città italiane ed europee.

Francesco Indovina

 

 

 

N.d.C. - Francesco Indovina, già professore ordinario di Tecnica e Pianificazione urbanistica all'Università IUAV di Venezia, dal 2003 insegna alla Scuola di Architettura di Alghero (Università degli Studi di Sassari). Da sempre è fautore di un approccio interdisciplinare agli studi sulla città e il territorio coniugato a un saldo impegno civile. È autore di numerose pubblicazioni e ha fondato e diretto i periodici "Archivio di studi urbani e regionali" e "Economia urbana" (già "Oltre il Ponte"); dirige inoltre la collana di Studi urbani e regionali edita da FrancoAngeli.

Per Città Bene Comune ha scritto: Si può essere "contro" l'urbanistica? (20 ottobre 2015); Quale urbanistica in epoca neo-liberale (3 febbraio 2017); Pianificazione "antifragile": problema aperto (23 giugno 2017); Una vita da urbanista, tra cultura e politica (24 novembre 2017); Non tutte le colpe sono dell'urbanistica (14 settembre 2018); Che si torni a riflettere sulla rendita (8 febbraio 2019); Un giardino delle muse per capire la città (4 ottobre 2019); È bolognese la ricetta della prosperità (20 marzo 2020); Come combattere la segregazione urbana (27 novembre 2020); Post-pandemia? Il futuro è ancora nelle città (12 febbraio 2021).

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.

 


© RIPRODUZIONE RISERVATA

03 SETTEMBRE 2021


mercoledì 1 settembre 2021

no vax, ecc. Quale è il problema?

 

 Diario

1 settembre 2021

 

Si potrebbe dire, non c’è niente da contrastare se ci sono delle persone che siano convinti che i vaccini contro il covid siano controproducenti. Niente di male, un’opinione come un’altra, se il virus non fosse contagioso o se queste persone vivessero isolate in campagna (come suggerisce una loro bibbia). Ma il virus è contagioso e queste persone circolano tra di noi. Allora un problema esiste. Qui non si tratta di opprimere un’opinione liberamente espressa, ma di difendere la salute individuale e collettiva, anche la salute dei non vax. Se continuano a manifestare e ad assembrarsi diventano un problema di “salute pubblica”.

Come mai non esiste un movimento che volesse abolire la patente automobilistica? Si dirà perché guidare senza patente è pericoloso per se e per gli altri, come dimostrano le statistiche. Ma anche per gli infettati dal virus esistono le statistiche dei malati e dei morti: Ma si dice queste sono false e gonfiate, e le prime? Con i vaccini si stanno arricchendo le grandi case farmaceutiche, dietro c’è un grande affare, mentre con la vendita delle automobili no!

Ma so che è inutile cercare di convincerli, sono assorbiti dentro un fede, che tuttavia non vuole farsi martirizzare ma preferisce martirizzare gli altri (giornalisti, medici, scienziati, politici, ecc.). Sono masse pericolose, non so, potrebbero diventarle, non c’è di meglio per questo percorso di una fede frustrata: la grandissima maggioranza degli italiani si è vaccinata e vuole vaccinarsi, le grida dei non vax non credo facciano molto proseliti.

C’è un problema politico: al di là delle manifestazioni no vax la politica e il governo hanno l’obbligo di difendere la salute dei cittadini. Almeno questo! Evidentemente quello che fa non basta, bisogna intervenire con più determinazione, per asciugare l’acqua dove i no vax nuotano. Perché non rendere obbligatoria la vaccinazione per tutti? Perché non escludere da alcune risorse (per esempio sanitarie) chi non si vuole vaccinare?  Insomma, i cittadini devono essere difesi e se obbligato a prendere la patente automobilistica posso essere obbligato a prendere la patente contro il covid.

Il numero dei non vax non è esiguo, ma si tratta pur sempre di una minoranza, e gli “attivisti”, più o meno violenti sono ancora una minoranza della minoranza. Ma la domanda non è dove vanno, non credo che andranno lontani, ma soprattutto da dove vengono. La risposta semplice è: dall’ignoranza”. Una risposta facile che trascina subito dopo  alcune altre domande: ma che società siamo, che ruolo ha la scuola (tutti più o meno hanno frequentato almeno 5 + x anni di scuola), che ruolo hanno i mezzi di comunicazione di massa, soprattutto la TV.

A giorni riapre la scuola, ma che scuola è se non riesce a immettere nella testa dei giovani, che poi diventano adulti e vecchi, un minimo di sapere scientifico? Dico di sapere scientifico che comprende anche l’interrogarsi sulle verità della scienza, ma avendo la consapevolezza che per dare una risposta non basta semplificare e fornire soluzioni facili. In questo sembra brillare la bibbia che va di moda tra i non vax (Eresia), che suggerisce che la soluzione definitiva contro il Sistema sia “nella vita nei boschi, senza televisione, senza cellulari, internet, ecc.”. Una soluzione che credo sarebbe rifiutata da tutti i non vax, che amano le loro piccole o grandi comodità e soprattutto la tv dove abbeverarsi di sciocchezze (per fortuna non sempre e non da tutte, ma i non vax usano il telecomando).    

Dobbiamo pretendere di essere difesi, altrimenti che significato ha il detto popolare “quando c’è la salute c’è tutto”,  non è vero ma si avvicina alla verità, questa verità dobbiamo pretendere che sia rispettata.

sabato 14 agosto 2021

Gino Strada

 Diario

14 agosto 2021 


Gino Strada
Ogni giorno muoiono milioni persone, il nostro senso di umanità ci dice che sono tutti uguali, ma non è vero, non tutti hanno speso 
la loro vita per gli altri. Per tutti piangiamo per questo addio senza speranza, ma per alcuni piangiamo di più. 
Il dolore per la morte di Gino Strada non è solo per la sua perdita, ma anche per l'impoverimento del mondo.
Costruttore di ospedali, combattente contro la guerra, ricostruttore di corpi macellati dalle armi, la sua perdita è
immensa. Ma contro questa non possiamo fare nulla, ma possiamo aiutare la sua organizzazione ad andare avanti, 
possiamo permettere a tanti suoi collaboratori di continuare un lavoro necessario.      

martedì 4 maggio 2021

Una società senza ricchi

 

Diario

3 maggio 2021

 

Dalle notizie approssimative pare di capire che negli USA si  stiano cambiando i criteri di impostazione della tassazione sul reddito.  Il nuovo presidente ha bisogno di ulteriore risorse per far fronte al cospicuo investimento pubblico che vuole realizzare, indirizzato alla ripresa economica e al miglioramento delle condizioni sociali dei più deboli. Crescerà il prelievo  sulle imprese, oggi a livelli da vergogna, e crescerà quella sui redditi più alti, idem; ci si è convinti, e studi accreditati l’hanno dimostrato, che abbattere le imposte per le grande imprese e per i grandi redditi non porti ad un aumento degli investimenti e a ricchezza diffusa, ma all’accrescersi di patrimoni e di rendite.

Anche il presidente del nostro Consiglio dei ministri, professore Mario Draghi, nelle recenti repliche alla Camera e al Senato ha parlato della necessità di un nuovo sistema fiscale caratterizzato da razionalità e progressività. Pur prescindendo da cosa seguirà alle parole, la progressività è un principio chiaro ma equivoco.

È progressivo un sistema che va dall’1% al 50% d’imposta per le diverse fasce di reddito, ma lo è anche un sistema che si articola dall’!% al 90%. Ma quale dei due è il più razionale o anche quello più eticamente corretto. Dal punto di vista della singola persona forse il primo sistema sembrerebbe più accettabile, ma dal punto di vista della società nel suo insieme forse il secondo sarebbe più giustificabile. Ma ancora si potrebbe formulare una  proposta basata sul criterio che qualsiasi sia il sistema di tassazione questo non dovrebbe essere di ostacolo allo sviluppo futuro.  

E qui si aprono questioni enormi. Qualsiasi sia il sistema preferito non si può non considerare le grandi trasformazioni in atto. Lo “sviluppo futuro” lo misuriamo in termini di PIL, di occupazione, di salvaguardia dell’ambiente? Ogni opzione ha conseguenze enormi per la popolazione. Non possiamo non considerare che ogni investimento nel sistema di produzione, primario, secondario e terziario, è teso al risparmio di lavoro, e che succede del surplus di lavoro? Sicuramente non si potrà andare avanti con il sistema sociale attuale, né saranno sufficiente i criteri di salvaguardia sociale attivi, ci vuol altro.

La speranza di un nuovo sistema sociale, più giusto, più equo, più solidale, più libero è possibile, la sua realizzabilità non passa per la presa del palazzo d’inverno, ma per l’eliminazione dei “ricchi”, non degli intraprendenti e visionari, abbiamo gli strumenti ma sappiamo che i ricchi resisteranno. Ci vuole intelligenza politica e determinazione. Valuteremo Draghi, non per i passi che farà verso il Quirinale, ma per i passi verso questo tipo di  società.

Abbiamo qualche speranza? Poco. Non può essere un banchiere, per quanto bravo e impegnato,  che si muova su questa strada.    

martedì 27 aprile 2021

Il governorato Draghi non mi piace

 

Diario

27 aprile 2021

 

È di nessuna rilevanza sapere che il governorato Draghi non mi piace, a chi può interessare, ma sento il bisogno di rompere il silenzio affinché i miei amici non sospettino di un mio adeguamento.

I motivi per cui non mi piace sono molti e nel tempo sono cresciuti.

All’inizio pensavo che potesse essere la mia idiosincrasia ad essere governato da  un banchiere, bravo quanto si voglia ma sempre … banchiere. Ma non è solo per questo.

Intanto perché si tratta di un governorato e non di un governo. I rappresentanti del popolo, sia quelli che siedono attorno al tavolo della “presidenza del consiglio”, sia, soprattutto, quelli che presiedono le due aule del parlamento, sono considerati da Draghi, questa è la mia impressione, delle pedine per la sua partita a scacchi che dovrebbe portarlo molto in alto. Capisco che si possa essere perplessi per la qualità di queste persone, ma con questi bisognerebbe governare e non con un gruppo di tecnici, uomini di fiducia, personalmente scelti.  Il casino della democrazia e di gran lungo preferibile ad un’algida e presunta efficiente oligarchia.

Non mi piace nel merito:

-          il disegno di portare nei servizi pubblici la concorrenza di mercato e i privati (si tratta, si potrebbe dire, di una idea fissa del nostro governatore). Non perché reputo la gestione dei servizi pubblici la migliora, ma perché il miglioramento non sta nella loro privatizzazione;

-          trovo un vero peccato spendere più di 200 miliardi di euro per tornare all’antico, una antico più moderno mi si potrebbe dire. Ma non mi soddisfa né la transizione tecnologica né quella ambientale se il destino dei nostri figli e nipoti deve somigliare a quello nostro. La disgrazia Covid poteva e deve essere usata per modificare i nostri rapporti di produzione, per fornire ai giovani cultura, e non solo professionalizzazione,  per rappresentare e presentare un nuovo modo di produrre e di consumare, migliorando la situazione di ciascuno;

-          che le comunità locali, soprattutto del sud, si arricchiscano di opere (spesso attese da anni e si potrebbe dire finalmente) senza essere consultati ma affidati a “commissari” non mi pare opera saggia senza chiedere loro se preferiscono o meglio hanno più bisogno di  una nuova bretella stradale o di un acquedotto, una scuola o un treno ad alta velocità.

Potrei continuare, ma il senso del mio malessere dovrebbe essere chiaro. Un’operazione tecnocratica come quella che si sta avviando nel nostro paese non è stata mai tentata (non voglio dire, ma dove si trova una tecnostruttura così potente?) e soprattutto darà risultati modesti.  Il migliore dei risultati prevede un ritorno allo stato complessivo di circa sei anni passati.

Quello che non è chiaro al nostro governatore è che una paese non si governa come una banca, con ordini di servizio e usceri.   

lunedì 29 marzo 2021

Il ministro Bianchi ha fatto il minimo, ma c'è dell'altro

 

Diario 29 marzo 2021

 

Il ministro Bianchi ha reagito e il contratto che il sottosegretario Rossano Sasso aveva stipulato con Pasquale Vespa, il persecutore seriale della ex ministra Azzolina,  è stato cancellato. Mi pare una buona cosa anche se dovuta, ma la questione non può essere chiusa cosi semplicemente. Il ministro non ha potere istituzionale sui sottosegretari, questi sono nominati dal Presidente del Consiglio, Draghi, e mi domando se un governo dei migliori, o anche un governo di ordinaria amministrazione, possa avere nel suo seno un personaggio della sensibilità politica e culturale di Rossano Sasso, il quale considera la politica come un’aggressione maschilista e sensista.

Ma c’è un aggravante il sottosegretario ha la delega per l’azione anti bullismo nelle scuole; ci si domanda con la filosofia politica che lo caratterizza quale possa essere l’efficace azione di questo sottosegretario in ordine alle responsabilità alle quali è chiamato?

sabato 27 marzo 2021

Reagirà Draghi nei riguardi di Rossano Sassi?

 

 

 

 

Diario 25 marzo 2021

 

Il presidente Draghi spinge la UE su una linea coerente di politica sanitaria (vaccini), spinge ancora perché la UE reagisca in modo coerente, fermo e unitario contro le gradi farmaceutiche  che non rispettano i patti. Tutto molto bene.

Non c’è dubbio che la questione sanitaria sia al momento la più importante per il paese. Draghi sembra  consapevole che in assenza di un pieno successo sulla questione sanitaria, che significa principalmente vaccinazione, le sue ambizioni per il “colle” rischiano di essere frustrate.

Ma il governo di un paese ha un ventaglio di problematiche molto ampio, non tutte ovviamente sullo stesso livello di urgenza, ma, soprattutto, c’è una questione di stile, che non è solo forma, al quale il presidente (e aspirante) non dovrebbe essere disattento, con il rischio altrimenti di far emergere una dose di cinismo eccessivo.

Stiamo aspettando le reazioni del presidente, e quale pressione riuscirà ad esercitare sui suoi 36, 38 o 39 sottosegretari, di sua nomina, uno dei quali ha un comportamento per lo meno disdicevole per non dire altro.

Mi riferisco al sottosegretario Rossano Sasso, che ha assunto nel suo staff tale Pasquale Vespa,  noto per gli insulti maschilisti e sessisti, oltre che volgare (un tempo si sarebbe detto da “caserma”, ma si ha l’impressione che oggi la caserma sia più educata), rivolti all’on. Lucia Azzolina, quando era ministra dell’istruzione e da questa denunziato (si aspetta il processo).

In tempi di femminicidi, e in tempi quando alti sono i  lamenti per gli atteggiamenti maschilisti e sessisti da parte dell’opinione pubblica, si è curiosi se la pressione che il presidente Draghi sarà superiore a quella esercitata nei confronti della UE. Credo che Draghi reagirà, no ne potrà fare a meno altrimenti questa resterà come una macchia sul suo candido sparato.

Come sarebbe essenziale conoscere, anche,  la reazione del ministro Patrizio Bianchi.  

venerdì 5 marzo 2021

Mario Draghi, la rivoluzione

 

Diario, 

5 marzo 2021

 

Tra le critiche che da sinistra sono avanzate al governo Draghi ricorrente è quella che lo riconosce come “governo di restaurazione”, a me pare che sia una critica che non colga il vero senso dell’operazione di cui Draghi, consapevolmente o meno, è il gestore.

Che non si tratti di un episodio di governo che punti ad una maggiore efficienza ed efficacia, appare ogni giorno più chiaro, mentre il riferimento continuo alle modifiche della società costituisce un dato di verità ma anche equivoco.

Il realtà siamo di fronte ad un processo che iniziato da mezzo secolo, più o meno, sta arrivando non a conclusione, ma ad una necessità, operare una vera rivoluzione. Il capitalismo è cambiato, la sua dimensione finanziaria lo rende diverso. Per sintetizzare la sua finanziarizzazione significa che il meccanismo di arricchimento e di accumulazione si svolge su basi assolutamente diverse che nel passato. Come si ricorderà la logica della produzione capitalistica poteva sintetizzarsi nella formula D-M-D*, cioè nell’impiego di denaro per produrre delle merci e attraverso queste appropriarsi di una quantità di denaro superio a quella iniziale (D*>D). Le cose ovviamente sono più complesse ma per il nostro ragionamento può bastare.

Oggi si sviluppa un altro meccanismo di produzione di ricchezza e di accumulazione  che può essere sintetizzato nella formula  D-D*, non esiste cioè la mediazione della merce, ma soldi producono soldi. Emerge un ceto, o classe, di finanzieri, di operatori di finanza, di uomini capaci di operare la “pulitura” di denaro sporco,  di organizzazioni criminali, (tradizionali e nuove), di “teste di legno, ecc. che si arricchisce sempre più o permette che alkcuni si arricchiscano. Ma questa nuova elite  per realizzare le proprie finalità ha necessità di distruggere sia la “civiltà” proletaria, che quella borghese; ha cioè bisogno di una rivoluzione che assume la forma passiva.

Il lavoro deve essere precarizzato, non deve essere messo nella possibilità di riconoscersi in “sé” né sviluppare la sua capacità di operare “per sé”. Una massa in cui non esista più nessuna solidarietà di classe e ciascuno si veda come antagonista ad ogni altro. Il che comporta la riduzione di ogni diritto sociale, del sindacato, ecc. e la trasformazione di ciascuno in consumatore e cliente (dalla scuole agli ospedali, ecc.). Ma anche le conquiste della borghesia devono essere abbattute dalla politica, alla democrazia, al diritto, alla libertà di stampa, ecc.  allo svilimento del  “ceto produttivo” che operava con intelligenza e capacità d’impresa. L’impresa, in sostanza non opera più secondo quanto ci si aspetti, cioè attraverso la capacità imprenditiva e la redditività, ma sempre più a comando. Non è più il centro della società capitalista, ,a solo un mezzo.

La realizzazione di questo smantellamento avviene come detto attraverso una rivoluzione passiva, che porta a continue e frammentarie modifiche nella direzione prima indicata. Non si tratta di una rivoluzione violenta, ma di un  processo (pianificato) lento ma non per questo meno distruttivo, nel quale si opera con sottigliezza e approfittando di tutte le occasione (compresa la pandemia). Uno dei dati caratteristici di questa rivoluzione passiva è la riduzione di ogni forma di confronto democratico, e di ogni istituzione finalizzata a questo scopo, e di ogni conquista passata che garantiva una formale democrazia. Quello che prevale è sempre più il comando.

Il meccanismo sociale  e l’insieme dei processi di governo hanno elementi espliciti ed elementi impliciti, questi ultimi non sempre noti neanche a chi “governa”, non si tratta tanto di utili idioti, ma di meccanismi che si affermano all’interno della società e costruiscono gli sbocchi necessari a meno di opporsi esplicitamente, ma oggi non si dà.

E mia impressione che il governo Draghi si collochi in questa dimensione, le sue scelte di uomini, l’avere in modo evidente, riservare a se stesso e ai pochi ministri economici fidati i meccanismi di controllo e gestione delle risorse economiche, mentre ai partiti, che il presidente del Consiglio finge di rispettare, sono assegnati settori di governo poco rilevanti, la crescita del ruolo di militari e poliziotti, ecc. indica chiaramente, a me pare, una linea di indirizzo che fa di Draghi, consapevolmente o meno, il perno di un’operazione senza controllo e senza antagonismi.

 

domenica 28 febbraio 2021

Rosa Luxemburg, ci può essere di qualche utilità

 

Diario

28 febbraio 2021

 

La mia formazione politica deve molto alla lunga collaborazione con Lelio Basso a Problemi del Socialismo e di conseguenza con il pensiero politico di Rosa Luxemburg.

Di questa militante comunista si celebra a giorni il 150 anniversario della sua nascita. Spero che sia una buona occasione, non tanto, di celebrazione, anche, ma soprattutto di riflessione sul suo pensiero politico.

Un pensiero non da prendere come un testo sacro, ma, come tutti i pensieri che contano, come una griglia che certamente deve fare i conti con le mutate condizioni della realtà, del capitalismo internazionale e della situazione della classe operaia (dal punto di vista soggettiva, ma anche dalla sua organizzazione e dalla teoria politica che lo guida).

Di là dalle questioni contingenti del suo tempo, il militarismo, l’unificazione o meno della Polonia, ecc. i capisaldi dell’elaborazione del pensiero di R.L. possono sintetizzarsi nel rapporto tra riforme sociali e rivoluzione (titolo di un suo testo) e nel rapporto tra democrazie e rivoluzione.

La Luxemburg negava che tra riforme sociali e rivoluzione potrebbe esserci contraddizioni, o addirittura che della rivoluzione non  sarebbe stata necessità bastando passare attraverso le riforme sociali. Lei penava che le due cose erano strettamente e fortemente legate e che ciascuna sosteneva l’altra. Si riconosceva la possibilità del capitalismo di modificarsi ed anche di essere in parte modifica, ma si metteva in luce i vincoli sociali, economici e culturali della società da permettere il raggiungimento dell’eguaglianza e della libertà. Per questo era necessaria la rivoluzione che usava anche le riforme sociali.

Quella della democrazia e del suo nesso con la rivoluzione è un altro punto fermo della sua elaborazione che la porterà anche a polemizzare con Lenin a proposito della forma partito e dei soviet. Cioè l’estensione della democrazia reale costituisce, secondo lei, uno degli elementi fondativi di ogni rivoluzione.

La cosa che mi sembra di un certo interesse, ragione per cui un ritorno a Rosa Luxemburg non sarebbe inutile, è che in modo confuso quei temi appaiono anche nella discussione del nostro paese. Mi pare che, per esempio, il tema della democrazia appaia evidente ogni qual volta affiora qualche discussione e riflessione sulla democrazia diretta, sui super poteri decisionali del governo, sulla messa in mora del parlamento, ecc. Non tutto ha lo stesso peso né tutto è risolvibile con scelte naif di democrazia diretta, ma è certo che la dilatazione della democrazia costituisce un passo verso la rivoluzione. Che cosa oggi possa significare rivoluzione e quale forma debba prendere la marcia per la sua realizzazione sono altre questioni, né la nostra può fornire un chiave.

Che oggi non si fa che parlare di riforme sociali è una banalità, ma cosa si debba intendere per riforma sociale, quale nesso costruire sull’insieme delle riforme sociali nel disegnare una nuova società è materia oscura.    

 

 

venerdì 26 febbraio 2021

Draghi e la capacità di governo

 

Diario

6 febbraio 2021

 

Per quanto bisogna essere cauti, il governo fa i primi passi, ma come diceva mia nonna “il buon giorno si vede dal mattino”. Dall’uomo al comando “plurichiesto”, noto per la sua indubbia competenza,  ad uso a trattare con i potenti della terra e nello stesso tempo a comandare, c’era da attendersi,  fin dall’inizio, delle scelte da farci restare con la bocca aperta. Niente di tutto questo, non solo,  ma mi pare si possa leggere in filigrana una strategia non adeguata a governare un paese.

Se hai un obiettivo solo, fosse anche ambizioso e di grande rilievo, come salvare l’euro, puoi indirizzare tutte le forse disponibili verso questo obiettivo, ma se governi un paese dove sono rilevanti, un po’ alla rinfusa, il controllo dell’epidemia, il crescente numero delle famiglie in difficoltà, la scuola (apertura e sicurezza), il calo dei consumi, il blocco dei licenziamenti, la disoccupazione in aumento, la capacità di arricchirsi di alcune categorie sfruttando la pandemia, i giovani che non studiano e non lavorano, i femminicidi, il consumo di droga, l’arrivo degli immigrati, la partecipazione a missioni di “pace” nel mondo,  le aziende in crisi, ecc. ecc. allora l’algoritmo diventa  molto complesso, non meccanico e automatico e necessità di una forte capacità di … governo.

Il motto andreottiano “a pensar male si fa peccato ma si indovina”, mi fa ribrezzo, per il suo cinismo e per l’assoluto disprezzo per il genere umano, ma senza pensar male, ma guardando alle scelte del presidente Draghi, si ha l’impressione che abbia messo a fuoco delle questioni privilegiate, mentre per il resto del ventaglio delle competenze e dei compiti di governo si sia “abbandonato”  alla tradizione. Non vi è dubbio che la lotta al virus e la messa a punto di un piano di spesa per le risorse che verranno dalla UE siano importanti, importantissimi, ma anche il resto riveste una rilevanza che non può essere dimenticata.

Mi sembra, per esempio, che il presidente Draghi abbia dimostrato una certa indifferenza per le indicazioni fornite dai partiti, per la nomina dei ministri. Non si può dire che si tratti del governo dei migliori. Ha badato ad alcune scelte che stavano nelle sue priorità, ma anche qui facendo perno su “amicizia e fedeltà” e su non meditati consigli. Per non parlare della questione dei vice ministri e sottosegretari, tutti bravi e soprattutto dotati di competenze multiple (il passaggio da un ministero ad un altro non contava). Una marea di nomine, risolvendo il problema della complessità delle questioni attraverso la numerosità dei responsabile. Brutta strategia.

Ma c’è un punto che mi ha meravigliato oltre misura, la nomina di Francesco Giavazza a consulente della Presidenza del consiglio. Il Prof. Giavazza ci allieta spesso con i suoi editoriali super liberisti, né mi pare che le sue precedenti consulenze (al governo  D’Alema  e al governo Monti) hanno lasciato il segno. La sua posizione è contraria ad ogni intervento dello Stato in economia, un liberista senza rete. Non è chiaro perché Draghi abbia scelto a suo consulente un professore di idee vecchie e non piuttosto uno dei tanti brillanti economisti con un forte senso di realismo.

Il prof. Caffè, per quanto l’ho conosciuto e discusso con lui nel suo studiolo in facoltà (mi spiace solo dell’esiguità del numero degli incontri, per colpa mia) scuote le testa riflettendo sull’uso che dei suoi  insegnamenti fa il suo allievo Draghi.      

   

domenica 14 febbraio 2021

E ora ?

 

 

Diario

14 febbraio 2021

 

I rituali sono stati tutti compiuti: la consultazione, l’accettazione, la lista dei ministri, il giuramento, la foto, le visite istituzionali, lo scambio della campanella, il primo consiglio dei ministri. Abbiamo il I Governo Draghi. Sono anche state indicate le priorità di lavoro (non i programmi di questo governo): vaccinazione, …. E ora?

Non ero un entusiasta del governo Conte, ma bisogna riconoscere che se siamo, in termini di salute, tra i paesi migliori d’Europa, Conte ed i suoi ministri qualche merito devono averlo, ma ci si può aggregare a tutte le autorevole voci osannanti il Governo Draghi? Io ho qualche resistenza, che proverò, brevemente a illustrare.

Non mi piace che tutta la polpa economica sia in mano ad un ristretto gruppo (Franco, Cingolani, Colao e, ci metto anche, Giorgetti) di stretta osservanza draghiana (so che è brutto scriverlo, ma mi perdonerete l’estrema sintesi). Tutti bravi, non voglio dire, ma una maggiore articolazione mi avrebbe soddisfatto di più. Non amo Grillo, ma non mi è piaciuto che questo sia stato imbrogliato, un ministero per la Transizione economica che non contenga lo sviluppo economico mi pare monco, anche se Cingolani presiederà, così è stato detto, un comitato interministeriale per controllare (?) il tasso ecologico do ogni decisione ministeriale. Può darsi che Grillo si sia spiegato male, ma se non fosse così la giusta autonomia del presidente del Consiglio stride con l’accoglimento della proposta Grillo. Non mi piace che i prescelti tra i partiti che non facevano maggioranza con il Conti II non siano stati scelti, a mio modo di vedere,  con mano felice. Non mi piace che oltre al denunziato squilibrio maschi donne sia altrettanto  la prevalenza di personalità del Nord rispetto a quelle del sud (non ne faccio un problema di campanilismo, ma di attenzione a questa parte del paese in grande sofferenza). Non mi piace che alla Carfagna, che è anche brava, sia stata di fatto assegnato il mezzogiorno che mi sembra troppo e denota una scarsa attenzione a questa parte del paese (immagino che Draghi veda risolta la questione del mezzogiorno all’interno della soluzione nazionale, è un vecchia ipotesi ma non è così).

Potrei continuare ma credo che basti, mentre sarà necessario continuare a riflettere sulle linee programmatiche del governo, di questi non si sa molto, si dice,  per rispetto al Parlamento. Aspettiamo.

 

 

giovedì 11 febbraio 2021

Gli amici li scelgo io

 

 

 

Diario

11/02/2021

 

Vi invio questo mio pensierino prima che il Professore Mario Draghi salga al Quirinale, ma sono fortemente deluso (non penso che queste mie riflessioni possono mettere in discussione l’ascesa, presente e futura del professore, ci vuol altro, ma la delusione è stata molto forte). Competenza, rilevanza internazionale, ecc. non si possono negare, ma gli uomini sono fatti di altro.

Mia nonna mi diceva sempre “ricordati che i parenti ci sono dati, mentre gli amici li scegliamo noi”. Era un saggio avvertimenti, di cui ho fatto tesoro, di stare molto attento alle mie frequentazioni.

È ovvio che durante la sua vita e la sua lunga professione il prof. Draghi ha incontrato persone di cui avrebbe fatto molto volentieri a meno stringere la mano, tanto meno intrattenere un rapporto di amicizia.  

Proprio per questo mi ha scandalizzato, sconcertato e deluso l’avere constatato che nell’incontro tra il Prof Draghi e Silvio Berlusconi ci fosse un alto tasso di amicizia. Si sono incontrati dei vecchi amici, solo il virus non ha permesso un abbraccio fraterno tra i due.

Io non mi aspetto molto da Draghi, ma quanti l’hanno visto come una sorta di giustiziere contro gli sprechi, come un fermissimo oppositore ad ogni corruzione, come un attento sostenitore delle regole, penso siano rimasti delusi. O forse la memoria corta, troppo corta, evita di ricordare chi sia il cav. Berlusconi.

Certo Draghi doveva incontrare Berlusconi, questo si presentava come un “capo partito” al presidente incaricato, ma uno spettacolo di freddezza ci avrebbe rincuorato, mentre la dimostrazione di amicizia, oltre ogni etichetta, ci ha deluso e preoccupato.  

  

martedì 9 febbraio 2021

Post-Pandemia? il futuro è ancora nelle città

 


Commento al libro di Giandomenico Amendola


 (Apparsa sulla CittàBene Comune, Casa della Cultura, Milano)

Il libro curato da Giandomenico Amendola, L’immaginario e le epidemie (Mario Adda Ed., 2020), è tutto costruito su “una modalità di rappresentazione che diversamente dalla razionalità, spesso invocata per affermare l’oggettività della percezione, non ha come obiettivo l’astrazione o la prova inconfutabile ed universalmente accettata” (p. 7). Questo nella convinzione che “la nostra esperienza è filtrata, consapevolmente o meno, dall’immaginario” (p. 8) che altera la nostra percezione della realtà in modo ancora più pervasivo e deformante quando ci troviamo di fronte a fenomeni che non trovano una spiegazione razionale, come può essere – o, meglio, come è stata nei secoli passati e come lo è anche ai nostri giorni – un’epidemia.

Amendola, nell’introduzione al volume, disegna un reticolo ricco e convincente del problema delle epidemie e di come queste siano state “trattate” – nel senso di assorbite e rielaborate – nell’immaginario sociale. Su tale maglia si innestano poi una serie di saggi di diversi autori – Antonio Ciuffreda, Rino Caputo, Andrea Leonardi, Fabrizio Violante, Silvia Surrenti, Letizia Carrera – che approfondiscono argomenti specifici attingendo dalla letteratura, dall’arte, dal cinema, dalla storia. Il curatore riflettendo sulla situazione attuale – cioè sull’epidemia di coronavirus che flagella l’Italia, l’Europa e il mondo intero – nota che alcuni nostri atteggiamenti non sono dissimili da quelli dal passato, cioè da quelli di secoli nei quali scarse erano le conoscenze scientifiche (rispetto a quelle di oggi) e molto carente la medicina. Il riferimento principale è alla peste del Seicento che colpì l’Europa (quella descritta da Manzoni per Milano e da Defoe per Londra). Tra le costanti Amendola evidenzia alcune costanti come la mancanza di una terapia, l’incertezza sul periodo di durata, la ricerca del colpevole che ha dato inizio alla pestilenza. Su tali aspetti oggi come allora l’immaginario collettivo si è spesso scatenato dando luogo alla costruzione di scenari improbabili, eppure per molti strati della popolazione credibili, come dimostra la loro rapida diffusione, estremamente favorita dalla rete. Saranno capitate anche al lettore situazioni come quella di cui io stesso sono stato personalmente testimonio che provano quanto la tesi di Amendola sia convincente. Ero nella sala d’attesa del mio medico, si era ancora all’inizio del contagio e non erano attivi i divieti attuali, eravamo in cinque o sei, quando uno dei presenti, con la sicumera del fanatico, ci ha spiegato che l’epidemia era causata dalle attenne per aumentare la velocità della rete Internet (5 Giga). Nessuno ha provato a replicare o a chiedere qualche plausibile, razionale o almeno ragionevole spiegazione sui nessi tra due cose evidentemente prive di ogni collegamento. Quelle affermazioni, al contrario, in quel clima di paura e insicurezza misto a credulità e ignoranza, stavano già facendo breccia nell’immaginario dei presenti.

Dunque, tra le due epidemie ci sono sicuramente elementi comuni. Per esempio, in termini di salute pubblica, il tema del distanziamento sociale che a quel tempo assumeva i connotati del lazzaretto, oggi quelli dell’autoisolamento prescritto dalle norme imposte dalle autorità. Ma anche – più simili ai lazzaretti – quelli di quegli hotel riconvertiti in centri di ospitalità per i malati di Covid-19. O, ancora, le mascherine che oggi trovano una giustificazione sanitaria precisa mentre nel Seicento assumevano l’aspetto di vere maschere con grandi nasi che venivano riempiti da sostanze che avrebbero dovuto – così si credeva – precludere l’entrata dei “miasmi” e dell’aria infetta nell’organismo e quindi evitare il diffondersi della malattia. Oppure, per citarne ancora una, quella delle credenze pseudo-religiose che, oggi come allora, non escludono che la vera causa dell’epidemia sia l’esito della “collera divina”, un castigo per il comportamento peccaminoso degli umani. Invece, ciò che sembra maggiormente caratterizzare la situazione contemporanea è che “l’immaginazione è dominata dai media. L’informazione televisiva e quella su Internet e i social è monopolizzata dal virus”. La quantità di informazioni e la continua ricerca di nuove informazioni allo scopo di placare l’ansia, in realtà – secondo Amendola ma anche secondo chi scrive – determina maggiore spavento. Una situazione nella quale la narrazione della realtà è fatta di voci, di “si dice” e da false notizie. Questa spettacolarizzazione della pandemia è accresciuta dalle affermazioni di tecnici, scienziati, politici, la cui narrazione non sempre è coerente e comprensibile. Col risultato che alcuni credono e altri no a cose vere e false e ciò che si determina è una situazione confusa nella quale, sostanzialmente, prevalgono ansia e incertezza.

 

Antonio Ciuffreda nel suo saggio (Cronache e racconti della peste, Firenze, Roma e Napoli) ci porta ad esplorare come in queste città, ma per accenni anche a Milano, l’epidemia di peste che imperversò in Europa nel Seicento, fu interpretata e combattuta come  questione di interesse “pubblico”, come oggi potremmo dire, ma che le soluzioni adottate non sempre sono state efficaci. La diffusione dei lazzaretti, il seppellimento dei morti fuori dalla città, la formazione di fosse comuni – non solo per i più poveri ma, in relazione al numero dei morti, senza distinzione di censo – di fatto risultarono inefficaci, soprattutto perché non si conosceva esattamente la natura della malattia. Un morbo con il quale, in realtà, la popolazione europea conviveva da lungo tempo, anche se la sua virulenza si presentava ad ondate. L’epidemia, tuttavia, determinò sconvolgimenti sociali non solo per il numero di morti ma anche perché finì per incidere su abitudini consolidate. E se in alcune città la ricerca degli untori costituì una parte rilevate dell’atteggiamento popolare e delle autorità, in altre, come a Roma, la questione non si pose. Va anche segnalato che le epidemie sono state l’occasione non solo per instituire apposite strutture di cura e/o confinamento sociale, come i lazzaretti e gli ospedali, ma per la costituzione di apposite istituzioni di tutela e di potere. 

La conclusione – che qui riporto per inciso: “la questione dell’uso di sostanze stupefacenti a fini artistici, per così dire, esula quindi dal rapporto tra letteratura e malattia. Questi due termini, invece, possono essere considerati come due aspetti fondamentali di quella grammatica più complessiva che è il nostro orizzonte antropologico culturale” (p. 69) – costituisce la chiave di lettura del saggio di Rino Caputo (Letteratura e malattia: un contagio permanente). L’autore in questo testo ci conduce attraverso una rapida – e non poteva essere diversamente – esplorazione della letteratura e del suo rapporto con la malattia, a partire da Tucidide fino a Gadda. Del resto, lo scopo non poteva essere quello di richiamare tutti gli autori che in qualche forma avevano trattato il tema della malattia, quanto, piuttosto, quello di mettere in luce come la condizione della malattia, o se si preferisse del malato, sia stata sempre elemento costitutivo del panorama antropologico al punto da pervadere la letteratura in ogni epoca.  

Andrea Leonardi riflette invece sul rinnovamento dell’età barocca quale – scrive – “ulteriore spunto di riflessione sui temi della fragilità umana e dell’ineluttabilità del trapasso” (p. 73). È proprio questa tematica che guida l’esplorazione dell’autore, che a partire dal Tintoretto (San Rocco e gli appestati), ci fa attraversare l’arte del Seicento seguendo come filo conduttore il tema della morte. Uno scenario artistico dove la peste, paradossalmente, contribuì a costituire una condizione per un generale rinnovamento dell’arte. 

Dopo aver presentato alcuni dei principali film che presentano narrazioni post apocalittiche, Fabrizio Violante ci introduce invece a una serie di film che hanno attinenza con la pandemia attuale e mostra come, fin nei particolari, l’immaginazione cinematografia abbia pienamente centrato i caratteri del nostro presente. “Gli autori del cinema horror e catastrofico – spiega –  si [sono] spesso dimostrati dei cronisti di guerra in tempo di pace” (p. 113). L’autore chiude la sua riflessione sul tema dell’isolamento con un interrogativo che, a pensarci bene, apre la strada a una questione di fondo che forse andrebbe affrontata a livello collettivo: “Come insegnano anche i più disastrosi film a tema pandemico – scrive Violante –, dopo la tempesta del contagio segue la quiete di una vita finalmente normale. Normale?” (116). In altri termini – aggiungiamo noi – che cos’è la normalità? Siamo proprio certi di voler tornare alla normalità pre-pandemica? Non sarebbe invece il caso di cogliere questa occasione per ripensare la nostra condizione di normalità?

Ripercorrere le misure di sostanziale isolamento adottate nella pesta seicentesca e accostarle, anche se in modo sommario, ai provvedimenti assunti per contrastare l’epidemia attuale è quello che fa Silvia Surrenti nel suo saggio (Il contagio, la cura ed il distanziamento sociale).  Le similitudini tra ieri e oggi sono impressionanti: in mancanza di cure specifiche, allora come ora, massima attenzione veniva posta all’isolamento dei malati dai sani nelle città. L’invenzione italiana dei lazzaretti, poi copiati in tutta Europa, costituisce emblematicamente lo strumento principe dell’isolamento. Anche la ricerca delle persone ritenute portatrici dell’infezione – ieri i poveri o oggi soprattutto gli stranieri – ci dice che, in fondo, nella cultura sociale le cose non sono cambiate di molto. In questo saggio appare di notevole interesse la questione dell’odore. Si credeva che la malattia avesse un odore che derivava dalla teoria miasmatica che caratterizzava molte città: miasmi da evitare trasferendosi in luoghi più salubri, ieri sulle colline toscane (Boccaccio) oggi nelle seconde case, o da evitare con maschere che contenevano aceto, mentre oggi abbiamo le nostre immancabili mascherine. Comunque, la malattia aveva nell’immaginario collettivo una puzza che, in genere, corrispondeva a quella dei poveri, mentre oggi si sperimentano, per ora con scarsi esiti, i cani per la ricerca, con il loro fine olfatto, dei malati nelle stazioni e negli aeroporti.

Il connubio tra città e malattia viene da lontano, sostiene Letizia Carrera nel suo saggio (Epidemie, città e immaginario urbano). La città è stata costruita a scopi difensivi immaginando che i pericoli restassero “fuori le mura”, ma quel nemico senza volto rappresentato dall’epidemia approfitta proprio della città per mietere le sue vittime. Per questo nemico invisibile non esistono mura e la città pare la condizione ideale per la sua diffusione. Solo a metà dell’Ottocento, quando John Snow “realizza la sua famosa ricognizione del percorso di contagio del colera nella Londra del XIX secolo” (p. 138), si affermano i principi dell’igiene personale e di quella urbana, l’unico modo per combattere i microrganismi che causavano le epidemie. L’affermarsi dell’idea di “città sana” fa emergere – nota Carrera – che “le città sono rigorosamente due”, quella della borghesia e quella degli slum. Una situazione che a Londra viene “creata” attraverso la realizzazione di nuovi tessuti urbani, mentre a Parigi sono gli interventi di Haussmann a darle corpo. L’idea che la città sia pericolosa in quanto malsana entra così nel senso comune. La tubercolosi assume il ruolo emblematico della malattia figlia della città malsana e a quella  si associa la sifilide come emblematica della città corrotta. Insomma, il male città si costruisce nell’immaginario collettivo anche se, tra Otto e Novecento – come la storia dell’urbanistica insegna – la città resiste, si modifica, si diffondono istituzioni per la cura e l’igiene, si moltiplicano gli spazi aperti, i parchi, ecc. Insomma, le pestilenze – e, più in generale la malattia o, meglio, la paura della malattia – contribuiscono a modificare le città, e si cercano soluzioni funzionali all’igiene urbana pur non venendo meno l’esistenza di quelle “due città” che sono una contraddizione non della città ma della società. Lo stesso, secondo l’autrice, sta avvenendo con l’attuale pandemia e così i luoghi che eravamo abituati a vedere affollati diventano rarefatti, poco frequentati, perché sconsigliati o persino vietati. E, rispetto all’immaginario sociale, siamo alle solite perché si rafforza l’idea del male città

 

Per concludere, quello che il volume curato da Giandomenico Amendola fa emergere con chiarezza – la ragione ultima per cui questo testo è di particolare interesse – è che le epidemie, passate e presenti, finiscono col mettere in discussione l’idea stessa di città che, per la sua stessa conformazione e per la sua natura di aggregato sociale ove gli scambi tra le persone si moltiplicano, appare come il luogo ideale per la diffusione del contagio. Questo libro è dunque una buona occasione per riflettere sui condizionamenti che genera la malattia anche a livello dell’organizzazione urbana. I singoli saggi tematici si intrecciano tra di loro e con il discorso introduttivo di Amendola offrendoci molteplici chiavi interpretative del presente e delle nostre attuali reazioni. Tra queste – anche se a giudizio di chi scrive è destinata a stemperarsi – un’idea di rifiuto della città a favore dei centri minori delle aree interne. Al contrario, è mia opinione che la città cambia e resiste, per ovvi quanto chiari motivi. Perché, in primis, così come nel Novecento, è ancora il motore della produzione della ricchezza, il centro dello sviluppo e dell’innovazione culturale, il meccanismo che favorisce la socialità, il luogo ove più normale è il riconoscimento dell’altro, compreso il diverso, dove si organizzano le forze sociali per il cambiamento: anche il cambiamento della città stessa. L’incontro tra le persone, occasionale o di prassi, la coesistenza in un determinato luogo, è nutrimento della comunità e della democrazia. La colloquialità urbana – chiamiamola così – e il dibattito pubblico sono un’opportunità importante del vivere quotidiano, per costruire la memoria individuale e collettiva, per creare un’opinione pubblica consapevole, matura, colta, e anche per esercitare le passioni. Ora, per tornare alla pandemia attuale è vero che nelle città, soprattutto nelle grandi città, è più facile contrarre il contagio perché si incontrano molte persone, si frequentano luoghi e mezzi di trasporto pubblico affollati, sono molteplici le occasioni di contatto. Ma è altrettanto vero che nelle città si trovano gli ospedali più attrezzati, è più attiva una catena sanitaria a cui fare riferimento (autoambulanze, pronto-soccorso, centri di ricerca che si occupano di salute, ecc.). Insomma, nella città si trovano tutt’e due le facce della medaglia: cosa che non dovremmo dimenticare nel ragionare sul futuro dopo la pandemia.