mercoledì 20 maggio 2020

Città aperte, evviva!



Diario 20  maggio 2020

Finalmente si lascia la casa per la città. Tutti contenti. La retorica continua ad avvolgerci nella sua soffice nube, essa era e continua ad essere la cifra di ogni dichiarazione, sia del così detto uomo della strada che di qualsiasi commentatore.
Lo stare chiusi in casa ci ha fatto scoprire le bellezze delle cose semplici (mangiare, giocare, cucinare, leggere, singolarmente o anche insieme). Cucchiaiate di melassa retorica, condita da sventolamento di tricolori, da canti di patriottici, l’inno nazionale fino a bella ciao, con il convincimento generale “ce la faremo” (volevo vedere il contrario). La commozione per gli eroi, ecc. ecc. Oggi la stessa retorica si applicata alla nuova situazione. Quanto ci sono mancate, ed è bello riconquistare, le piccole cose: il caffè al bar, l’incontro con l’amico, una passeggiata al parco, lo sguardo alle vetrine, ecc.
Tutte cose vere, non nego, ma proiettate in una nuvola di retorica, nell’uso di un linguaggio che doveva essere coinvolgente ed era solo stucchevole. Di vero c’era la paura che gli scienziati e anche il governo ci hanno inculcato, da cui ha dipeso il perfetto comportamento degli “italiani”. Italiani che avrebbero dovuto uscire da casa meglio di come c’erano entrati. Ma perché? Per quale miracolo?
Oggi questa paura scema e l’apertura delle città facilita un atteggiamento meno controllato (anche se il pericolo di un contagio ancora esiste). Gli uomini e le donne, di qualsiasi età,   non  mi pare risultino migliori. Si comportano come prima con di più il senso della riconquista e di un pericolo scanzato.
Ma non su questo che vorrei soffermarmi, ma piuttosto sulla città che ci troviamo davanti. Si è parlato molto, forse troppo, della necessità di un cambiamento delle città. Ho l’impressione che molti hanno fatto riferimento alla struttura fisica della città, che certo anche questa andrà modificata, ma non pare sufficiente. Se fosse vero, come io penso che sia, che la città è la rappresentazione spaziale della natura della società, appare allora chiaro che una modifica della città non può non prendere le mosse dalle modifiche della società.
Non si tratta solo di disoccupazione, è questo è un grossissimo problema, ma è fondamentale come ciascuno partecipa alla distribuzione della ricchezza prodotta, e la quota che compete   ciascuno. Certo il lavoro prima di tutto, ma se il lavoro manca? ci rispondono. Intanto possiamo dire che manca il lavoro governato dal  capitale, ma ci sarebbe una grande quantità di lavoro da fare, diciamo lavoro comunitario, per garantire una situazione migliore, una città più organizzata, meno diruppata, come direbbero Napoli. E se con il tempo necessario tutto il lavoro diventasse comunitario anche quello per la produzione delle merci non staremmo tutti meglio?
Ma quali merci? Quelle che matureranno da una coltura comune di tipo comunitario e fondata sul buon vivere di tutti. Questo può voler dire un uso intelligente e non privatistico della tecnologia, degli avanzamenti scientifici (è assurdo il dibattito che si sta avviando sulla proprietà del vaccino contro il virus).
Ma allora il vissuto urbano non sarà quello di oggi, non sto sostenendo che ogni parte della città sarà uguale ad ogni altra, i beni posizionali farebbero le differenze ineliminabili, ma la qualità della vita della popolazione in ogni parte dovrebbe essere ugualitaria. Non un’uguaglianza seriale, ma piuttosto una libertà nella differenza che non colpisca i beni e i servizi necessari.
Ma le donne e gli uomini, i ragazzi e i bambini che escono da casa nelle città aperte si portano la cultura che possedevano prima dell’epidemia. Si è ripetuto le città devono essere diverse ma ci si è dimenticati di dire che tal diversità dovrà dipendere dai comportamenti di ciascuno e dalla loro somma.   
Ci si può indignare di fronte a comportamenti irresponsabili, ma come non capire che ridotta la paura si cerca di riconquistare quello che si faceva prima?  si beveva, si correva, si giocava, si amoreggiava, si passeggiava, si urlava, si disturbava, ….
In questi mesi si è fatta scuola. Bene! Ma non si è fatta educazione. Non basta continuare ad affermare che con il virus dobbiamo convivere.
Ma se fosse necessario, torno a bomba, cambiare la città (aria pulita, meno traffico, più giustizia sociale, più uguaglianza, più qualità della vita tutti, meno povertà, ecc. ecc.) sarebbe stato necessario che i miliardi che il governo si appresta a distribuire fossero indirizzata al cambiamento e non finalizzati a quella che si chiama la ripartenza di tutto come prima. Ma invece di un’opzione politica forte si cominciano a leggere baggianate sulla necessità che il capitalismo diventi più etico, meno bramoso; ma perché, e sarebbe possibile ma forse … no.

sabato 16 maggio 2020

La città dopo il coronavirus



di Francesco Indovina

(Editoriale di Archivio di Studi Urbani e Regionali, maggio, 2020) 


Ho sempre sostenuto che la città costituisce la nicchia ecologica della specie umana, l’ambiente che ha permesso l’evoluzione stessa della specie. Una nicchia ecologica offre alla specie insediata occasioni positive di crescita e sviluppo, ma anche accidenti negativi che la specie deve superare (e questa è anche una delle ragioni dell’evoluzione) pena la sua estinsione. Storicamente e sinteticamente possiamo dire che la città ha offerto grandi occasioni di evoluzione (rapporti sociali, strumenti di conoscenza, avanzamenti tecnici e scientifici, ecc.), ma anche accadimenti negativi (guerre, pestilenze, fame, ecc.), e che, sostanzialmente, la specie ha saputo affrontare e superare questi aspetti negativi e ogni volta, utilizzando la sua intelligenza e la collaborazione con i suoi simili, ne è uscita più forte inventandosi sempre nuove forme di convivenza.
Tuttavia si può sostenere che la specie umana in realtà ha il mondo intero (l’universo?) come sua nicchia ecologica generale, ma di questa sua collocazione ha sentito spesso l’aspetto negativo, tanto da costruirsi una specifica nicchia ecologica la città. A differenza di tutte le altre specie che trovano in natura la propria nicchia ecologica la specie umana si è costruita la propria specifica nicchia, ma costruire significa anche governarne le trasformazioni. Questi due fatti, costruzione artificiale e governo delle dinamiche si possono riscontrare nella storia dalle prime città. La trasformazione della città è stata l’esito dell’attività sociale delle popolazioni, ma queste sono state esaltate o coartate, secondo i casi, dall’azione di governo, non sempre  con esiti positivi. È difficile pensare che un’organizzazione complessa come quella di una città possa essere gestita da una sorta di automatismo che prenda le mosse dalle pratiche sociali per giungere ad un’organizzazione urbana efficace ed efficiente. Da sempre, mi pare di poter dire, le città sono state governate.
In questo processo va colta una costante: la città ha costituito, per la specie umana, l’ambiente “rifugio”, il luogo di sempre crescente concentrazione e la zona adatta per continui rilanci verso livelli superiori di civiltà. Partire da queste sommarie considerazione di lunghissimo periodo può costituire una base per rispondere alle domande che con sempre maggiore insistenza vengono avanzate per effetto dell’epidemia: la città è da conservare contro le tendenze antiurbane rinascenti, e che forma potrà assumere?
Domande complesse alle quali da una parte si può dare una risposta semplice e sicura, si la città è da conservare, ma come sarà questa dopo l’epidemia è difficile dirlo,   ma si possono indicare alcune alternative in gioco.
Intanto liberiamoci da un equivoco, che, cioè, la città sia all’origine dell’epidemia, come è ben spiegato nel secondo editoriale di Oriol Nel.lo a questo numero di ASUR, la città, soprattutto le grandi città, hanno moltiplicato il contagio ma in ragione dei propri servizi e attrezzature sono state il luogo dove l’epidemia è combattuta.  
Guardiamo alla città durante l’epidemia: la città vuota di persone fa impressione, anche perché viene negata una delle sue prerogative:  la città, le sue strade e piazze sono luoghi di socializzazione. Ma qui commettiamo un errore di prospettiva, facciamo riferimento cioè ad una idea di città e non vogliamo prendere atto che da questo punto di vista è stata snaturata dalla mobilità individuale e meccanica. Tranne alcune zone, soprattutto quelle storiche (pedonalizzate o meno) strade e piazze sono state in un certo senso desertificate, anche se affollate,  si sono inventati luoghi nuovi e non urbani per la socializzazione, ma la nostalgia di una città viva e vissuta sta nelle nostre corde. Ma pare interessante che si prenda coscienza che una città con uno scarso vissuto pedonale è una contraddizione in termine, forse da questa consapevolezza possono, forse, scaturire comportamenti diversi.
Il secondo aspetto molto declamato è la limpidezza dell’aria e dei corsi d’acqua. Il cielo è trasparente, le albe e i tramonti hanno una colorazione inusitata, le stesse nuvole, quando ci sono, ci appaiono diverse. L’assenza della circolazione automobilistica, la chiusura di molte fabbriche, la riduzione del riscaldamento domestico per effetto della buona stagione, sono tutte cause di eliminazione dello smog e della conseguente limpidezza dell’aria. Soprattutto nelle grandi città il fenomeno è appariscente. Ma attenzione non si tratta solo di una questione estetica, la limpidezza dell’aria ha a che fare con la nostra salute. Vogliamo mantenere questa situazione?
Assumendo queste due variabili come sintomatiche della situazione delle città durante l’epidemia (una positiva, la purezza dell’aria, e una negativa, la rarefazione delle persone per strada) è possibile in modo del tutto ipotetico ragionare sulla eventuale trasformazione della città ad epidemia finita. Ma attenzione la città non è espressione autonoma della società, essa è di questa la proiezione nello spazio, dei suoi rapporti di produzione, delle sue diseguaglianze, delle differenze sociali, delle discriminazione e dei conflitti.  Questo aspetto deve essere sempre presente altrimenti ogni ragionamento rischia di essere costruito sul vuoto.
La città del dopo coronavirus sarà l’esito di scelte di governo, cioè sarà l’esisto di opzioni politiche, ma queste nel contesto democratico (si può sorvolare sulla qualità di questa democrazia) non possono non considerare le opinioni dei … cittadini, o almeno della loro maggioranza.
Quello che pare potersi cogliere da queste opinioni è la dichiarazione unanime, o quasi,  che “niente potrà essere come prima”. Non è chiaro, o non mi è chiaro, se questa affermazione sia un riflesso della consapevolezza degli esiti dell’epidemia, o non sia piuttosto l’affermazione di una coscienza diffusa circa la necessità di dover cambiare strada. Per quello che interessa in questa sede si può assumere che esiste in modo diffuso la consapevolezza che bisogna cambiare e che la città prossima ventura non potrà essere come prima.
Ma come cambiare la città? Di seguito non si vogliono indicare precisi percorsi di trasformazione, non sarebbe né il luogo né il caso, ma piuttosto indicare alcune possibili sentieri di “trasformazione”.
Il primo di questi, non ci si può nascondere dietro un dito, è la possibilità di una riaffermazione che, contrariamente a quanto desiderato, tutto sarà come prima. Il comportamento dei cittadini, infatti, è influenzato, certo da decisioni autonome, ma anche (soprattutto?) da influenze esterne che ne determinano indirizzi e scelte. In emergenza tende a prevalere l’influenza del governo, ma di solito l’influenza maggiore è del meccanismo economico sociale.
Perché tutto potrebbe essere come prima? Perché mi pare che il governo (italiano ma non solo) è animato dalla volontà di far ripartire il processo produttivo com’era ex ante coronavirus, a parte di qualche generica affermazione il tema è quello di pompare risorse verso il sistema produttivo affinché riparta e verso le famiglie perché consumino. Si può osservare che la televisione mentre continua a elogiare i cittadini per il loro buon comportamento, e continua ad informarci sul numero dei contagiati, delle persone in terapia intensiva e sui, poi e contemporaneamente ci somministra dose massicce di pubblicità come nel passato, sostanzialmente degli stessi prodotti e beni, comprese le automobili. Sappiamo tutti quanto nel nostro comportamento pesi l’influenza degli stimoli a consumare.
Non mi nascondo che qualsiasi cambiamento abbia bisogno di una ragionevole preparazione, di un tempo di implementazione, ecc. , ma quello che mi pare evidente che niente di tutto questo è presente nelle espressioni governative, non parlo solo di quelle italiane. È evidente che le nostre società sono immerse in una sorta di contraddizione permanente: ad una,  più o meno forte, voglia di cambiamento si contrappone una processo economico-sociale che il cambiamento magari lo sogna, ma di fatto non lo vuole.
Il tutto come prima significa il riaffermarsi di un liberismo poco temperato, la ripresa di un consumismo irragionevole, una distribuzione della ricchezza fortemente sperequata, come ora, una disoccupazione endemica, una povertà crescente. E nella città questo non può non significare una ripresa e aumento della mobilità meccanica individuale, un ritorno dell’inquinamento dell’aria, una distribuzione della popolazione secondo il principio dell’organizzazione sociale dello spazio, determinato dalla rendita, la crescita dei poveri per strada, quartieri marginali e in alternativa, per chi se li può permettere, zone molto attrezzate, deperimento crescente dei beni collettivi. Mentre le autorità pubbliche dovranno fare i conti con risorse sempre scarse e con un debito pubblico che è molto cresciuto a fronte di un forte incremento  delle domande di aiuto e di sostegno  dalle fasce di popolazione più deboli.   
Ma ci può essere di peggio, quanto prima sperimenteremo forme di controllo individuale in difesa del contagio, si dice forme anonime e ci crediamo. Ma è certo che già oggi, in forma esplicita o opaca, siamo continuamente controllati, o scusate monitorati (dai telefonini, alle telecamere, ai programmi televisivi che guardiamo, ai social, ecc.) oggi e ogni giorno si aggiungono nuove tecnologie, e siamo preoccupati che tutto questo  armamentario servirà a chiudere  ciascuno di noi in uno… schedario, con pericolo per la nostra  liberta. Le città in questo saranno un mezzo potente. Ma mi domando se non dobbiamo cominciare a disinteressarci di tutto questo, assumendo che la nostra libertà sta appunto nelle negazione di ogni forma di privacy (considerando questa una trappola).
So che la città descritta possa apparire pessimistica, ma si rifletta che non è altro che una descrizione della situazione esistente qualche settimana fa, prima dell’epidemia. Appunto: tutto come prima.
Possiamo chiamare il secondo sentiero come quello del miglioramento dell’ambiente, che  non mette in discussione il nostro sistema economico produttivo ma attiva la creatività di architetti nel creare nuovi spazi.  Un’opzione di questo tipo per la città potrebbe prevedere, in casi estremi, una riduzione drastica della mobilità automobilistica e in generale del trasporto su gomma, uno sviluppo della mobilità ciclabile, una cura del ferro, come si dice, nei trasporti; l’intensificazione del verde urbano (viali, parchi, ecc.); il miglioramento, forse,  dei quartieri periferici; qualche incremento dei servizi collettivi, ecc.
È evidente che questo sentiero prevede diverse linee di approfondimento, resta il fatto che  porta ad un miglioramento della città illusorio (che non vuol dire inutile), perché non intacca  il processo sociale-produttivo. Immutati restano  i rapporti sociali di produzione, la distribuzione del reddito, le discriminazioni, ecc.  Siamo ridotti a sperare che questo si avveri, come il minore dei mali.
Al  terzo sentiero possiamo attribuire la denominazione  nuova città in nuova società. Un sentiero di questo tipo presuppone modifiche sostanziali nella struttura economica-sociale. Non si tratta di rendere pubbliche tutte le attività produttive, ma di un intervento determinante sui settori strategici (strategici per il buon vivere), sulla regolamentazione delle condizioni di lavoro, modificando il rapporto sociale di produzione. Fa perno sui beni collettivi, a discapito di quelli individuali; su un sistema fiscale che svolga una funzione reale perequativa; che punta su un innalzamento culturale della popolazione con un’istruzione continua almeno fino a 20 anni;  su un continuo tentativo di rendere reale un “buon vivere” per tutti;  su strutture sanitarie adeguate alle necessità e pronte alle nuove emergenze; su un sistema di infrastrutture di mobilità efficiente e continuamente controllato e manotenuto. E sul piano sociale si ponga l’obiettivo di cancellare la povertà, il bisogno, le sperequazioni.
La città in questa opzione subirà una doppia mutazione, da una parte una sorta di ritorno all’antico: luogo di socializzazione, di incontro, di opportunità sociale. Dall’altra parte una grande trasformazione proiettata in avanti che sarà determinata dalla  crescita dei beni collettivi (scuole, biblioteche, ospedali, ecc.), dalla drastica riduzione del traffico privato, dalla crescita di attrezzature per la salute e lo sport (stadi, parchi, palestre, piste, campi giochi per i più piccoli, luoghi di incontri per gli anziani, ecc.), dall’innalzamento del tasso di sicurezza in ragione di una presenza continua in strade e piazze di persone, dal recupero dei quartieri periferici e degradati, rendendo tutto lo spazio urbano omogeneo dal punto di vista delle attrezzature e dei servizi. Cresceranno anche attività private o in collaborazione con il pubblico. I privati saranno stimolati ad inventarsi nuovi servizi e nuove produzioni (coerenti) da offrire al pubblico e per questa strada anche “arricchirsi”. Molto rigido sarà il controllo sull’ambiente e sulla sua difesa: i cittadini saranno educati a comportamenti coerenti.
Ma non si tratta di immaginare una sorta di  città-paradiso, emergeranno sempre nuovi conflitti, nuove esigenze, nuove aspirazione, ma tutto questo si manifesterà in una ambiente sociale solidale, in un ambiente politicamente attivo e partecipativo. Non un’utopia, da costruire una volta per sempre, ma piuttosto l’attivazione delle condizioni per affrontare le continue contraddizioni e per garantire un buon vivere per tutti.  Questo tipo di città deve prevedere riforme pregnanti. Come il riaffermare di una reale tassazione progressiva compresa la revisione della leggi che regolano la successione, chi si arricchisce, nella nuova situazione,potrà godersi in vita le proprie ricchezze ma alla sua morte tutte i beni passeranno allo Stato. Così come devono essere disegnate le funzioni delle banche; come devono essere assunti provvedimenti per quanto riguarda i rapporti di lavoro, la loro stabilità, la loro remunerazione, ecc., costruendo uno spazio operativo per i sindacati e per i dipendenti, insomma tutto quanto fosse necessario per contrastare l’iniqua società.
L’affermarsi di una società equa e di una città giusta non si realizza per autonomismi né per automatismi, ma ha bisogno di un governo dal chiaro indirizzo, fornito di una piena capacità realizzativa e da un forte principio di trasparenza, esito di una mobilizzazione di massa.
Solo in questo modo nulla sarà come prima, ma non si può aspettare sdraiati al sole, ci vuole impegno individuale e collettivo, intelligenza sociale e forme nuove di organizzazione, impegno partecipativo e controllo collettivo. Si tratta di rendere operativi gli insegnamenti indiretti della pandemia.

domenica 10 maggio 2020

"come è bella la città"



Diario 10 maggio 2020


“come è bella la città”, questo verso di una canzone, di cui non ricordo l’autore, mi rimbomba in testa in questi giorni quando leggo rilevanti architetti che sollecitano il ritorno nei “piccoli centri”; poi questa settimana Koolhaas in una intervista su Robinson (supplemento libri di La Repubblica), sostiene che “la campagna ci salverà”, tuttavia il suo non è un ennesimo ritorno in campagna ma delinea un universo articolato di insediamenti, di tecnologia, di relazioni, insomma non un “ritiro” ma una “opportunità professionale e di qualità della vita”.
Che ci sia un problema non si può negare, ma non convince in generale questa contrapposizione, nella quale la città rischia di essere abbandonata a se stessa, nell’attesa che i ceti meglio attrezzati, da tutti i punti di vista, si spostino.
La città è all’origine di tutti gli avanzamenti sociali, tecnici, economici e scientifici della specie umana. Ebbene si è la più grande invenzione, se vogliamo usare questo termine, della specie, un fattore di promozione di tutto il resto, sia come risposta a specifiche necessità, sia come un “trovato” della scienza e dello studio dei fenomeni naturali e sociali.
La città cresce di dimensione, in popolazione e in territorio, fino a diventare metropoli. Ma non si tratta di una questione di quantità, o meglio sì la quantità finisce per generare nuove opportunità, nuovi servizi. Tanto per fare un esempio un produttore di “orchidee candite”, genere voluttuario gradito da solo alcuni pochi buongustai, si localizzerà in una metropoli, perché solo la massa della popolazione metropolitana potrà garantire quel numero ristretto di consumatori necessari alla sopravvivenza dell’attività. Qualcuno potrebbe obiettare che quella produzione potrebbe essere effettuata anche in un piccolo centro, tanto poi Amazzon potrebbe trasferirla a livello mondiale. Vero, ma dove nasce l’idea di produrre orchidee candite? Nasce nella città, nell’interazione sociale, nel confronto, nell’esplorazione, ecc.
Ma torniamo a bomba, non è pensabile programmare un universo urbano fatto di alcune metropoli e di piccoli centri dispersi. Se riconoscessimo che la quantità di popolazione interconnessa costituisse una enorme opportunità della specie, allora il nostro obiettivo non potrebbe essere tanto quello di separare le popolazione in metropolitana e no, ma piuttosto quello di far si che tutta la popolazione sia metropolitana. Ma essere metropolitana cosa significa? Non solo una connessione, uno scambio, una qualche forma di relazione tra i membri della popolazione, ma anche la possibilità di accedere e godere di servizi metropolitani, di poter utilizzare le opportunità offerte dagli avanzamenti scientifici, tecnici e soprattutto sociale.
Ma per far questo è necessario che la popolazione viva concentrata in uno spazio limitato? No! Ma è necessario che ogni insediamento della specie abbia le caratteristiche di una metropoli, quella che, in altre occasioni abbiamo chiamata la realizzazione di metropoli territoriale. Cioè di una popolazione che nella sua dimensione appaia come una metropoli me che si insedia in un territorio ampio e in modo diffuso, ciascuno guidato dalle proprie esigenze e dalle proprie scelte culturali, ma godendo di tutti i servizi e di tutte le opportunità che riconosciamo come metropolitane ai quali accedere direttamente o a mezzo delle nuove tecnologie e dell’intelligenza artificiale.
Ma per realizzare tutto questo saranno necessari investimenti rilevanti, senza i quali l’appello al ritorno ai piccoli borghi rischia di essere o la costruzione artificiale di paradisi per pochi, o la discriminazione per molti.
Resta un dubbio, ma su questo tema mi pare di capire che il dibattito sia molto accesso: sono  eguagliabili il rapporto tra le persone nella forma mediata dalla tecnologia rispetto a quello  nella forma faccia a faccia, e non tanto in relazione  alla soddisfazione personale, ma soprattutto per i rilevanti effetti cognitivi e quindi di produzione di nuove idee e di nuovi progetti.





sabato 9 maggio 2020

La città dopo il coronavirus



Il Manifesto, 5 maggio 2020
Ho sempre sostenuto che la città costituisce la nicchia ecologica della specie umana, cioè l’ambiente che ha permesso l’evoluzione stessa della specie. Una nicchia ecologica offre alla specie insediata occasioni positive, ma anche accidenti negativi che la specie deve superare  pena la sua scomparsa. Storicamente e sinteticamente possiamo dire che la città ha offerto grandi occasioni di evoluzione (ambiente e rapporti sociali, strumenti di conoscenza, avanzamenti tecnici e scientifici, ecc.), ma anche accadimenti negativi (guerre, pestilenze, disoccupazione, fame, ecc.), e che sostanzialmente la specie ha saputo affrontare e superare questi aspetti negativi, magari caricando gli esiti negativi su una sola parte della popolazione, e ogni volta, utilizzando la sua intelligenza e la collaborazione con i suoi simili e non raramente il “potere”, ne è uscita più forte.
In questo processo una costante: la città ha costituito, per la specie umana, l’ambiente “rifugio”: il luogo di sempre crescente concentrazione e la zona adatta per continui rilanci verso livelli superiori di civiltà. Come sarà il dopo coronavirus,  che forma e caratteristica avrà la città?
Intanto guardiamo alla città durante l’epidemia: la città vuota di persone fa impressione, anche perché viene negata una delle sue prerogative fondamentali: strade e piazze luoghi di socializzazione. Ma pare interessante che i cittadini prendano coscienza che una città con uno scarso vissuto sociale è una contraddizione in termine, forse da questa consapevolezza possono, forse, scaturire comportamenti diversi.
Il secondo aspetto che molti osservatori  declamano è la limpidezza dell’aria e dei corsi d’acqua. Il cielo è trasparente, le albe e i tramonti hanno una colorazione inusitata, le stesse nuvole, quando ci sono, ci appaiono diverse. L’assenza della circolazione automobilistica, la chiusura di molte fabbriche, la riduzione del riscaldamento domestico per effetto della buona stagione, sono tutte le cause di eliminazione dello smog e della conseguente limpidezza dell’aria.
Assumendo queste due variabili come sintomatiche della situazione delle città durante l’epidemia è possibile in modo del tutto ipotetico ragionare sulla eventuale trasformazione della città ad epidemia finita. Ma non ci si può nascondere dietro un dito, la possibilità di una riaffermazione che, contrariamente a quanto desiderato, tutto sarà come prima è reale. Perché tutto potrebbe essere come prima? Perché mi pare che il governo (italiano ma non solo) è animato dalla volontà di far ripartire il processo produttivo come era ex ante coronavirus, a parte di qualche generica affermazione il tema è quello di pompare risorse verso il sistema produttivo affinché riparta. Inoltre, si può osservare, che la televisione mentre continua a elogiare i cittadini per il loro buon comportamento, e continua ad informarci sul numero dei contagiati, sul numero delle persone in terapia intensiva e sul numero dei decessi, poi e contemporaneamente ci somministra dose massicce di pubblicità come nel passato, sostanzialmente degli stessi prodotti e beni.
Il tutto come prima significa la riaffermazione di un liberismo, sul piano economico produttivo, la ripresa di un consumismo irragionevole, una distribuzione della ricchezza fortemente sperequata, , una disoccupazione endemica, una povertà crescente. E nella città questo non può non significare una ripresa e aumento della mobilità meccanica individuale, un ritorno dell’inquinamento dell’aria, una distribuzione della popolazione secondo il principio dell’organizzazione sociale dello spazio, determinato dalla rendita, la crescita dei poveri per strada, il deperimento crescente dei beni collettivi, quartieri marginali e in alternativa, per chi se li può permettere, zone molto attrezzate. Per non parlare di chi descrive le meraviglia di tornare ad abitare in piccoli borghi; ma lasciamo stare.
Ma potrebbe essere anche peggio. L’epidemia sta facendo sperimentare meccanismi di controllo della popolazione, oggi ci garantiscano che questi strumenti non comportano identificazione personale, ci credo, ma mi domando se una volta sperimentati questi strumenti di controllo non saranno applicati in modo generalizzato e segreto, per il “nostro” bene, privandoci da quote rilevanti di libertà. Costruendo nuovi muri invisibili.
Si potrebbe immaginare la trasformazione della città in senso ambientalista (non nella versione che considera l’ambientalismo come una possibilità di “affari”), per il quale in Italia, ma non solo, esistono forze, culture e, dopo il coronavirus, un’opinione diffusamente positiva. Un sentiero di questo tipo non mette in discussioneil nostro sistema economico produttivo (è uno dei suoi limiti) ma, nel migliore dei casi ne indirizza le produzioni. È evidente che questo tipo di soluzione  prevede diverse linee di approfondimento, resta il fatto che una linea di questo tipo porta ad un miglioramento della città, ma intacca meno i processi sociali-produttivi.
Una  terza soluzione potrebbe essere una che  denominiamo genericamente  socialista. Un sentiero di questo tipo presuppone delle modifiche sostanziali nella struttura economica-sociale. Si tratta di un punto di vista che fa perno sui beni collettivi, a discapito di quelli individuali; che punta su un innalzamento culturale della popolazione (istruzione permanente), su un continuo tentativo di rendere reale un “buon vivere” per tutti, sullo sviluppo di un strutture sanitarie pubbliche adeguate alle necessità, di un sistema di infrastrutture di mobilità efficiente ed efficace, su un ambiente che recuperi molto delle opzioni del sentiero ambientale su un principio di uguaglianza al riparo di qualsiasi possibile discriminazione.
Ma come sarà dipenderà da noi, dalla volontà di cambiamento che si sarà in grado di introdurre nel dibattito politico e culturale, nell’organizzazione di forze determinate e capaci. In realtà continuiamo a cincischiare e non abbiamo consapevolezza di cosa sia necessario per cominciare a liberarci di alcune catene.