domenica 5 aprile 2020

Contraddizioni




Diario 5 aprile 2020

Voglio segnalarvi quelle che a me paiono  grandi contraddizioni nel dibattito politico di questi giorni.

La prima riguarda l’Europa, intesa come entità istituzionale e politica. Se da una parte si colgono lievi segnali delle istituzioni europee di sostegno ai paesi (tutti) coinvolti nella crisi sanitaria con quello che segue, niente si sta facendo per cogliere l’occasione per una trasformazione della UE non più  un insieme di “Stati”, ma  una comunità integrata che fa convivere differenze locali all’interno di una coscienza unitaria. Del resto tutti i paesi europei sono una “composizione” e in ciascuno convivono situazioni, diciamo locali, molto differenti per cultura, tradizioni, storia, ecc. In Italia, per esempio, convivono la “civiltà” siciliana con quella veneta, quella lombarda con quella pugliese, e così via. Ma dico banalità.
Nessuno sforzo si vede né nelle istituzioni politiche, né in quelle burocratiche, per cogliere l’occasione e spingere verso l’unificazione politica, amministrativa e sociale di tutti i paesi “soci” della UE. Quando i singoli paesi finiranno per considerarsi soci, ma piuttosto parti di una comunità articolata allora non già la UE ma l’Europa potrà giocare le proprie potenziali sul piano sociale, della democrazia ed economiche.
Ma di questo mutamento non c’è ombra. Piuttosto quanto più si grida “più Europa” tanto più si cerca di stringersi nel proprio particolare. Il caso italiano mi sembra paradigmatico: se da una parte le voci, perché di questo si tratta, antieuropei si sono acquetate, dall’altra parte si grida sempre più e da più parti “più Europa”, ma contemporaneamente si mettono in atto azioni (legislative) per difendere le nostre imprese, anche quelle medio-piccole, da possibili azioni di spoliazioni (acquisti) da parte di altri paesi europei.
Che si tratti di un riflesso di difesa (nazionalistico) non c’è dubbio, che essa dipenda dall’assenza di una Europa è chiaro, ma tuttavia resta una contraddizione tra un volere un’Europa comunità e la difesa del proprio particolare nazionalista. In questa contraddizione quello che emerge è una sorta di inconsapevolezza che distingue i singoli paesi (le singole nazioni, se si preferisse) dal capitalismo internazionale (senza confini e senza remore). Di questo nessuno parla, anzi l’attenzione è posta tutta alla sua ripresa.
Questo ci porta alla seconda contraddizione, il mantra della liquidità. Non c’è dubbio che esistono situazioni individuali e familiari drammatiche, detto brutalmente di persone non in grado di comprare da mangiare o non in grado di sfamare i propri figli, ed è certo che nella situazione attuale lo Stato deve provvedere con forme di reddito più o meno generalizzato e di sostegno a queste situazione. Si tratta di una scelta di solidarietà collettiva, del rispetto di un impegno civile assunto, di un atto di civiltà.
Questa è una parte delle liquidità di cui si parla, ma una più sostanziosa viene programmata nei riguardi delle imprese. Impresa, termine generico che contiene il piccolo artigiano, l’impresa con 5 dipendenti, il bar, il ristorante, ecc.,  ma anche le imprese maggiori i gruppi, ecc. Non bisogna fare un grosso sforzo per capire che in questa situazione e visti i provvedimenti presi dal governo, tranne le imprese legate alle derrate alimentari (l’agricoltura ha dei problemi suoi) e quelle legate alla produzione di articoli sanitaria (specifici per l’epidemia) e poche altre, tutte le altre sono in difficoltà. Tutte, non solo le più deboli, chiedono di essere aiutate, altri chiedono anche che siano bloccati i provvedimenti contro la diffusione del virus e che si torni a produrre.   
Tutto molto ragionevole, e la liquidità a favore delle imprese si muove in questa direzione. Ma vediamo quali riflessioni questo andamento propone.
Si dice, si ripete, si spera, si desidera che nulla, dopo la crisi sanitaria, sia come prima. Questa affermazione, che non appartiene a piccoli gruppi o a elite “rivoluzionarie”, ma piuttosto alla coscienza generale, è contraddetta dal provvedimento di cui ci si occupa. Intervenire con ignizioni di liquidità, cosa necessaria, senza avere uno straccio di programma dei mutamenti produttivi da introdurre, appare come la negazione di quel “niente sarà come prima” per affermare che “tutto sarà come prima”. Non mi riferisco ad una sorta di statalismo endemico, ma piuttosto ad una responsabilità comune, quindi politica, di guidare la trasformazione.
Senza dire, e questo è un ultimo aspetto, che la liquidità che si immette nel sistema è tutta a “debito”. E se da una parte la solidarietà verso gli individui e famiglie bisognose è un dovere che la collettività, attraverso il debito si assume, non è chiaro quale è la valenza di rilanciare il sistema produttivo così com’era, mentre si aspira ad una situazione completamente diversa.
L’ultima osservazione ma piuttosto e una domanda che mi faccio e che vi faccio: le situazioni di crisi sono la condizione migliore per operare delle trasformazioni? Storicamente mi pare di si, anche se gli esiti spesso sono diversi dagli attesi e talvolta tragici. Su questo merita riflettere.