domenica 16 settembre 2018

NON TUTTE LE COLPE SONO DELL’URBANISTICA


NON TUTTE LE COLPE SONO DELL’URBANISTICA
Sul libro di Agostini-Scandurra e sul commento di Consonni
Francesco Indovina

(in Città bene comune, La casa della cultura Milano, 2018)


Questa mia nota si riferisce sia al libro di Ilaria Agostini e Enzo Scandurra – Miserie e splendori dell’urbanistica (DeriveApprodi, 2018) –, sia alla recensione dello stesso libro di Giancarlo Consonni apparsa in questa rubrica – In Italia c’è una questione urbanistica? (15 giugno 2018) –. I due testi dicono cose interessanti, forniscono riflessioni acute  ma, secondo me, non colpiscono il bersaglio. In ambedue l’Urbanistica è assunta come responsabile di ogni decisione che coinvolge la città (il suo sviluppo, la sua organizzazione, le sue dinamiche, la sua capacità di rispondere alle necessità di chi l’abita, ecc.). Non voglio dire che gli autori disconoscono il ruolo della politica nei processi di trasformazione della città – tutt’altro: essi ne sono perfettamente consapevoli – ma poi gli strali più potenti e convinti sono indirizzati verso l’Urbanistica, disciplina  che – secondo gli autori – avrebbe tradito i suoi compiti, la sua gloriosa tradizione, il suo ruolo. Ora, non si tratta di difendere l’Urbanistica, ne tantomeno gli urbanisti,  ma vorrei cercare qui di mettere a punto un ragionamento in cui tutti i pezzi siano ben sistemati sulla scacchiera.
Intanto, credo si possa convenire sul fatto che la città sia uno dei terreni principali nel quale si manifestano i conflitti sociali (e i nostri autori ne sono convinti come me): è infatti qui che le diverse componenti della società tendono ad affermare i loro interessi (e non soltanto in termini di “occupazione” dello spazio) senza, tuttavia, riuscire quasi mai a piegare l’intera organizzazione urbana a un solo di questi (non so se questa interpretazione sia condivisa dai tre autori che ho citato). La città, infatti, non è omologabile a un solo interesse o agli interessi di un solo gruppo sociale: nella città convivono e convivranno sempre gruppi sociali antagonisti: con proprie necessità, proprie speranze, proprie strategie. Ogni interesse che cerca di imporsi troverà sempre ostacoli, oppositori. Si sbaglia analisi e proposta politica ogni qualvolta si interpreta la città come totalmente asservita a un solo interesse. Ci sono fasi in cui prevalgono alcuni, ma difficilmente uno solo di questi può imporsi totalmente. Mi sento quindi di affermare che il livello della qualità sociale di una città dipende dal conflitto che in essa si manifesta e, al tempo stesso, della ricomposizione di tale conflitto che si realizza tra i contendenti. Stando così le cose, la qualità sociale di una città non può essere attribuita a una specifica qualità dell’urbanistica che in essa si esercita ma, piuttosto, alla forza e modalità del conflitto in essere in quel luogo e in quel tempo, e come questo conflitto è governato dalla politica con l’ausilio dell’urbanistica.
La città è un oggetto in continua trasformazione: non solo conflitti economici e sociali, ma anche modificazioni culturali, tecnologiche, negli stili di vita, nella tipologia dei consumi, ecc. determinano un dinamismo che investe sia la morfologia che la “condizione urbana”. Di tali modifiche, non c’è dubbio, la scelta urbanistica deve tener conto con un atteggiamento di cautela, senza necessariamente fare riferimento a un “modello di città” ideale ma, piuttosto, facendo i conti con le condizioni esistenti e le trasformazioni in atto.  Si potrebbe affermare che l’Urbanistica possa (debba) essere considerata lo strumento per il governo delle trasformazioni. Ma in che cosa consiste la scelta urbanistica? In molte occasioni, mi sono speso per affermare che ogni scelta urbanistica debba essere considerata scelta politica tecnicamente assistita. Scelta politica perchè l’intervento urbanistico, giusto o sbagliato che sia, modifica di fatto la condizione di uso della città, il che vuol dire che i cittadini di quella città e in generale chi usa la città si troveranno in una condizione diversa. Vien dunque spontaneo chiedersi chi è legittimato a decidere di queste modificazioni ed eventualmente a contrastare o a dare un indirizzo diverso alle tendenze in atto?
Secondo la struttura democratica del luogo e del tempo in cui viviamo è sicuramente la politica che possiede questa prerogativa; nella nostra situazione è l’amministrazione pubblica (comunale e regionale) che possiede questo potere legittimato da procedure, affidato a norme e valutato politicamente. La partecipazione della popolazione è sempre desiderabile, e questa può esprimersi secondo meccanismi istituzionali o attraverso iniziative  autonome, ma le istanze che emergeranno andranno interpretate sia sul piano politico che su quello tecnico: non saranno mai decisionali e cogenti se non per quanto previsto istituzionalmente. La legittimità dell’amministrazione pubblica a decidere dei destini della città e del territorio è caratterizzata da un aspetto formale (ma non privo di sostanza) che individua nella delega all’amministrazione stessa (democraticamente eletta) il “governo” (pro tempore) della città e delle sue trasformazioni e da un aspetto sostanziale che riconosce all’amministrazione la consapevolezza dei bisogni dell’intera città, della comunità che in essa è insediata, e non di sue singole parti o gruppi sociali (prerogativa, questa, non sempre manifesta e garantita).
Vorrei chiarire che la legittimazione della politica non riguarda le scelte specifiche e puntuali di organizzazione urbana quanto, piuttosto, gli indirizzi di evoluzione della città, la qualità dei servizi, la relazione da costruire tra bisogni della popolazione e servizi pubblici offerti. Cioè la definizione di un quadro di riferimento sull’evoluzione dell’organismo urbano e sugli indirizzi di questa evoluzione. Non dovrebbe trattarsi di un potere decisionale sulle specifiche realizzazioni quanto, piuttosto, di un indirizzo denso di contenuti sulla dinamica futura di quella specifica città. Non è un caso che tali indirizzi trovino in molte legislazioni regionali una loro espressione formale nel “documento preliminare” che impegna l’amministrazione pubblica su una linea di politica di sviluppo.
Il “tecnicamente assistito” di cui dicevo prima fa, ovviamente, riferimento all’Urbanistica, alle sue pratiche progettuali operative, ma non si tratta di un’attività di routine o semplicemente tecnica (tipo larghezza delle nuove strade, distanze tra gli edifici, ecc.). Piuttosto, questa va considerata come un’attività politico-culturale che chiama in campo l’intelligenza creativa, la capacità di lettura della città e della sua realtà sociale, che si esprime anche attraverso la domanda della collettività per una città diversa e che, attraverso la traduzione degli indirizzi politici generali in progetti di trasformazione, migliora la qualità della vita della popolazione insediata. Non siamo, quindi, di fronte a un’attività neutra, ma ad una che nell’ambito specifico delle proprie competenze pone problemi di scelta e di alternative. Si tratta infatti di tradurre in “opere di trasformazione” quanto contenuto negli indirizzi politici espressi dalla pubblica amministrazione e sulla base di quanto, spesso, sta già avvenendo nella città (del resto, secondo i casi, l’urbanista può essere  coinvolto anche nella definizione di detti indirizzi politici). Voglio dire che esiste una responsabilità politica dell’urbanista, ma che tale responsabilità può esercitarsi solo in presenza di una determinata scelta politica dell’amministrazione.
L’Urbanistica in sé e per sé non ha nessuna legittimità nel definire e attuare le trasformazioni della città che graveranno sulla popolazione che in quella città vive. Non si tratta di difendere gli urbanisti o l’Urbanistica, ma soltanto di mettere in evidenza ruoli e responsabilità. Non si può negare che in certe fasi storiche l’urbanista si è sentito investito di poteri che invadevano anche la sfera delle decisioni politiche, ma si è trattato di una fase nella quale lo spirito riformista dell’Urbanistica ha incontrato una posizione progressista della politica (i casi sono noti e riportati anche nei testi esaminati). Tuttavia, anche in quella felice occasione la mancata distinzione di ruoli e poteri ha spesso portato a conflitti, tra l’amministrazione e il “progettista”,  a continue discussioni e revisioni del piano (fino a fare apparire l’Urbanistica un’attività senza presa sul tempo e la realtà) che, spesso, hanno finito per vanificare o almeno depotenziare ogni ipotesi pianificatoria. Per non parlare dei piani rifiutati in toto (i casi sono molti e noti). Con questo ragionamento sul ruolo “tecnico” non intendo sostenere che ogni urbanista sia costretto a fornire il suo specifico sapere a qualsiasi decisione politica. Sarà scelta individuale del professionista accettare o meno incarichi che contrastino con il proprio sistema di valori (politici, ideali, sociali e culturali). Non va dimenticato, infatti, – anche in questo gli esempi che potremmo portare sarebbero numerosi – che l’urbanista è anche un intellettuale che combatte le sue battaglie su diversi piani e con molteplici strumenti.  Così come non può essere dimenticato che, d’altro canto, alcuni urbanisti, in buona fede o per opportunismo, hanno finito per legare il loro sapere agli interessi più biechi presenti nella società. Da questo punto di vista i nostri autori hanno ragione da vendere, ma sbagliano bersaglio quando investono con la loro critica l’Urbanistica nel suo insieme come disciplina, piuttosto che certi modi di praticare la professione.
Se guardiamo al panorama complessivo del nostro Paese e delle nostre città, non possiamo affermare di essere di fronte al “fallimento” dell’Urbanistica ma, piuttosto, alla “sconfitta” della disciplina. Il che fa una notevole differenza. L’Urbanistica quale attività di continuo riordino della città, di riduzione delle sperequazioni spaziali, quale “norma” che elimina l’arbitrio dei singoli nella trasformazione della città, ha molti nemici che solo una politica progressista tecnicamente assistita può sconfiggere o, almeno, contenere. Caricare sulle spalle dell’Urbanistica tutto quello che non ci soddisfa dell’organizzazione urbana non porta lontano, così come non cogliere le trasformazione negli stili di vita della popolazione può portare ad attribuire alla disciplina responsabilità che travalicano il suo specifico ambito di azione. Un solo esempio: esaltare condizioni di vita come quelle dei Sassi di Matera nel secondo dopoguerra – cosa che non mi sento di condividere nonostante il carattere comunitario che le caratterizzavano in quel particolare contesto fisico e sociale – accusando di grave errore urbanistico il tentativo, peraltro non completamente riuscito, di fornire a quella comunità – che viveva, non dobbiamo dimenticarlo, in condizioni deprecabili – una sistemazione più civile, mi pare una posizione senza speranza.
Non ho alcun dubbio che i miei interlocutori, nelle linee generali del mio ragionamento, possano condividere questa sistemazione dei ‘pezzi’ sulla scacchiera – si tratta di studiosi avveduti, preparati e colti – ma proprio per questo non posso accettare il loro giudizio sull’Urbanistica. Questo è frutto di una semplificazione che porta a dire che questa disciplina si sia chiusa in una falso tecnicismo, si sia legata ai poteri forti, insegua e avalli trasformazioni della città che peggiorano le condizioni di vita dei cittadini. Torno a dire l’urbanista è un intellettuale che combatte le proprie battaglie con strumenti diversi (comprese le “dimissioni”, in virtù di un ideale o, forse, un’illusione). Non solo: mi pare di poter affermare che il dibattito urbanistico presente nel nostro Paese non abbia uguali altrove, per intensità e articolazione. Ricorrere alle semplificazioni, dunque, non è lo strumento adatto per comprendere una realtà assai articolata. Fare di “tutta un’erba un fascio” non rende giustizia all’intelligenza e alla cultura dei miei interlocutori e finisce per disconoscere la ricchezza della ricerca in Urbanistica, anche se capisco che siano molti i segnali che spingono in questa direzione.  
La consapevolezza della necessità di aggiornare strumenti operativi, teorie, pratiche o anche solo punti di vista non è prerogativa di un piccolo gruppo di intellettuali, seppur ampiamente qualificati. In nessun Paese europeo e forse nel mondo sono presenti tante riviste di settore come in Italia, ben due associazioni nazionali di urbanisti che conducono analisi sullo stato di salute delle nostre città e della disciplina e collane editoriali specificatamente dedicate ai temi della città e della pianificazione. Il dibattito è vivace, franco, e spesso senza inutili prudenze diplomatiche. Come non capire che chi ha parlato di “cassetta degli attrezzi” non pensava a pinze, martelli e cacciaviti ma, piuttosto, ad attrezzi concettuali, né faceva un discorso di “tecniche”? Come non riflettere sul fatto che il campo dell’attività dell’urbanista sia quello dell’elaborazione di politiche adatte alla realizzazione di obiettivi pubblici, condivisi, e che per queste non esiste un prontuario ma la loro elaborazione impegna saperi, creatività e intelligenza di chi opera? Ci si può, certo, accomodare sulla banale semplificazione ma, proprio per quanto detto prima, non si può tralasciare di considerare che il campo conflittuale nel quale si misurano le forze sociali – ovvero la città – non può che influenzare anche quelle culturali che proprio della città si occupano. Una qualsiasi riflessione sull’Urbanistica merita attenzione contro ogni riduzionismo e richiama la necessità di confrontarsi con mente aperta, senza pregiudizi.
Ci sono due questioni con le quali vorrei concludere queste mie osservazioni. Mi pare che ogni discorso sull’urbanistica in azione non possa essere sviluppato senza affrontare il nodo della politica. La degradazione di questa pare enorme e con questa situazione dobbiamo fare i conti non solo come urbanisti ma anche come cittadini. Su questo fronte mi pare di cogliere, in generale e senza fare riferimento ai miei interlocutori, molte illusioni, se non la tendenza ad imboccare scorciatoie. Eppure la città è un fondamentale campo per misurare effetti e conseguenze delle scelte politiche e forse, proprio da ciò, bisognerebbe partire per affrontare qualsiasi riflessione sull’argomento. Partire dalla politica non significa abbandonare il terreno specifico della disciplina. Le trasformazioni della città sono l’esito aggregato di spinte economiche (sull’appropriazione dello spazio), di tensioni ideali, dell’affermarsi di nuove scoperte tecniche e scientifiche, delle dinamiche della cultura (in generale e specificatamente della città): un insieme che va analizzato e incardinato nella realtà di ogni contesto. Il dibattito urbanistico è spesso vivace ma le contrapposizioni tra le differenti posizioni culturali, in realtà, non riescono a nascondere una questione di fondo:  quella del tipo di società sottesa a ogni idea di città (desiderata). La critica sullo stato della società ci obbligherebbe a qualcosa di più dell’esplicitazione di un semplice “sogno”, a qualcosa di diverso dalla riaffermazione di un modello di città ideale: ci inviterebbe a lavorare, a riflettere, a mettere a frutto i nostri saperi e la nostra cultura per dire qualcosa della città del XXI secolo, sfuggendo alle mode ora della città ecologica, ora della smart city, ora della “rigenerazione”, ora della “città digitale”, o ancora delle comunità in estinzione, ecc. Fare i conti con tutto questo e altro ancora è fondamentale per poter dire qualcosa di sensato e di utile per noi e le future generazioni.
Ridurre le sperequazioni spaziali, contribuire a limitare le diseguaglianze sociali, costruire spazi collettivi adeguati ai tempi e ai bisogni (espressi o sottaciuti), fornire le condizioni perché comunità diverse da quelle che magari si amano possano realizzarsi, accrescere la responsabilità collettiva, cercare di “manomettere” il senso comune degradato verso la ricerca di un risanamento sociale, dare dignità a tutti i soggetti sociali anche a quelli nuovi, riconoscere esigenze culturali diverse dalla nostra tradizione, avere consapevolezza che il tempo di ciascuno di noi può essere sfruttato, utilizzato socialmente e attingere ad attività creative, ecc. Queste e altre sono le possibilità offerte al lavoro dell’urbanista che costituiscono, ciascuna di esse, un campo di confronto-scontro politico.
Bisogna essere convinti che l’età dell’oro delle città non sta nel passato ma nel futuro. Avere i piedi nel passato è indispensabile. Tuttavia considerare che il passato può essere il fango che ci tiene fermi non significa negare le radici, ma essere consapevoli di una certa realtà; lo sguardo al futuro, alle grandi possibilità esistenti, può permetterci di ragionare sulle condizioni attuali e future proponendo soluzioni che non ci separino violentemente da ciò che è alle nostre spalle ma che, contemporaneamente, sappiano guardare a ciò che ancora deve venire.
Francesco Indovina

N.d.C. - Francesco Indovina, già professore ordinario di Tecnica e Pianificazione urbanistica, ha insegnato per anni Analisi delle strutture urbanistiche e territoriali all'Università IUAV di Venezia. Dal 2003 insegna alla Scuola di Architettura di Alghero. Da sempre è fautore di un approccio interdisciplinare agli studi sulla città e il territorio coniugato a un saldo impegno civile. È autore di numerose pubblicazioni e ha fondato e diretto i periodici "Archivio di studi urbani e regionali" e "Economia urbana" (già "Oltre il Ponte"); dirige inoltre la collana di Studi urbani e regionali della Franco Angeli.
Per Città Bene Comune ha scritto: Si può essere "contro" l'urbanistica? (20 ottobre 2015); Quale urbanistica in epoca neo-liberale (3 febbraio 2017); Pianificazione "antifragile": problema aperto (23 giugno 2017); Una vita da urbanista, tra cultura e politica (24 novembre 2017).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri
R.R.

   


Cristina Bianchetti, Spazi che contano


Cristina Bianchetti, Spazi che contano, Donzelli editore, 2916, pp. 119, 24,00 €

(da Città bene comune, La casa della cultura Milano, 2017)

Con questo suo ultimo lavoro Cristina Bianchetti continua, così a me pare, la sua esplorazione sulla fine dell’epoca moderna e sugli effetti di tale evento sul “fare” urbanistica.
Vorrei iniziare queste brevi note con una citazione del precedente lavoro (2011) della Bianchetti (Il novecento è davvero finito, sempre Donzelli editore); allora scriveva: “Un importante trasformazione nel regime economico e politico ha provocato (a partire dagli anni ottanta) lo smantellamento del regime keynesiano dei trent’anni successivi alla seconda guerra mondiale… Nei trent’anni di neoliberismo seguiti ai trenta gloriosi è cambiato il modo di insediarsi di famiglie, individui e imprese. È cambiato il territorio e il suo essere condizione nei processi di produzione, accumulazione e distribuzione di valore. È cambiato il rapporto del territorio con la politica: una politica che nel passato sapeva stare nel territorio e che oggi gioca il territorio contro la politica… Sono cambiate le grandi questioni pubbliche legate all’emancipazione, alla giustizia, alla politica della vita, riportate alla necessità di regolare preferenze, interessi, motivazioni personali. Naturalizzate in una dimensione che rimanda specificatamente all’individuo. Viene meno, in questa riduzione del pubblico all’individuale, il carattere politico, antagonista che esse avevano. Quel che si mobilita, nel mutare delle condizioni di sfondo, è una diversa accezione dei valori di riferimento. Cittadinanza, benessere, equità, funzionalità assumono declinazioni differenti che nel passato. Spesso una declinazione giuridica e regolatrice che li rende impegnativi in modo diverso”.
Il volume più recente indaga proprio queste trasformazioni, viste in se stesse e in relazione al territorio e alla sua progettazione (o mancata progettazione) dello stesso. L’autrice riconosce che una pianificazione funzionalista, cioè una pianificazione che assegna precisi ruoli e funzioni, non solo allo spazio ma anche agli individui e alle famiglie, nel neo-liberismo si scontra con le trasformazioni prima indicate, ma all’autrice non fa velo il “cambiamento”; dei nuovo moduli e modelli, usi e forme di regolazione, vede l’inadeguatezza (alla convivenza, direi) e anche una forma diversa di funzionalismo.
C’è un punto logico-interpretativo sul quale sarebbe necessario convenire. La pianificazione funzionalista non mai ha raggiunto pienamente i suoi obiettivi; sicuramente esprimeva il potere egemone e aveva chiare le relazioni tra territorio e accumulazione capitalistica, costruiva spazi conformi, ai quali il mercato dava “legittimazione democratica”, tuttavia questa regolamentazione è sempre risultata parziale. Ma non si tratta di incompetenza progettuale, ma della vivacità e vitalità della città, dall’essere un campo di contraddizioni, uno spazio espressivo di desideri, di volontà, di speranze e di angosce non coerenti. La città-fabbrica, che collegava la produzione tayloristica e l’operaio massa all’organizzazione della città è una metafora che non ha saputo cogliere la realtà della città. La condizione urbana per sua natura non è piegabile ad una solo dimensione, essa è plurima sul piano sociale, economico, culturale e politico, esprime progetti diversi non sempre compatibili, in questa situazione non solo sono notevoli le contraddizioni ma sono anche forti le tensioni nell’uso e nell’appropriazione dello spazio. Un territorio funzionalizzato costituisce una maglia, una rete, un perimetro, definiamolo come si preferisce, ma esso è continuamente forzato, è in continuo subbuglio.
Non condivido l’adesione dell’autrice alla tesi (di Bagnasco, ma non solo) secondo la quale il fordismo portava alla coincidenza industria/società; la trovo troppo schematica  e nega articolazione e ricchezza (di umori e interessi) della società, ed è solo con la fine del fordismo che l’individuo si è trovato non solo ma isolato. Marginalità, povertà, isolamento, diseguaglianze, alienazione, ecc. sono state anche modi di essere del potere fordista, questo non negando la forza di coesione, di lotta e, spesso, di vittoria dei lavoratori.
Il ruolo pubblico, negativo e positivo, è stato fondamentale nell’epoca fordista, per facilitare garanzie e opportunità, ma lo è anche (anche se sembra non saperlo) in epoca neo-liberista. È evidente che tanto più debole è il “potere” di regolazione (pubblica) tanto più numerosi, articolate e varie saranno le forzature.
Un ragionare in questo modo, dovrebbe liberare i mei colleghi urbanisti dall’angoscia del fallimento dei rispettivi progetti, ma non dovrebbe costituire un’opportunistica disponibilità a fare con faciloneria. I cambiamenti analizzati dalla Bianchetti sono reali, ma essi chiedono, ai fini di una convivenza civile, libera ed equa una migliore pianificazione.
Nel libro che si assume come occasione di discussione l’autrice in qualche modo, e con la sua lingua, mi pare condivida quel punto di vista logico-interpretativo, non a caso scrive: “sottovalutazione dell’adattamento come meccanismo che permette alla città di funzionare; della sregolazione; della familiarizzazione tra individui e spazi che deriva dalle forme d’uso parziali, inventive, distorte. La città reale funziona per incoerenza e temporalità”, ma mi pare che questa riflessione è inerente la fase neo-liberista, mentre “incoerenza e temporalità hanno operato, in forme diverse, anche nei “gloriosi trenta”.
La tesi, molto interessante, della Bianchetti è che, nel neo-liberismo, si è finiti per ricadere in un nuovo  funzionalismo, denominato “funzionalismo umanista” (con una forte componente moralistica), che tende alla semplificazione, che (spera) di sciogliere nodi, mentre in realtà ha finito per perdere la grana fine del territorio e dei processi reali.
L’autrice confuta la capacità operativa del nuovo funzionalismo su tre piani: perché non riesce a fronteggiare il sovrapporsi di familiare ed estraneo (lo spazio è familiare o estraneo, intimo o esposto; inondato di luce, igienizzato; in realtà è anche oscuro, patologico, irrazionale, alienato); perché non riesce a trattare il corpo come canale di transito, operatore di relazioni complesse con lo spazio (i soggetti sono scarnificati e trattati come silhouette, mentre, avverte l’autrice, “quanto più il corpo interagisce con lo spazio, tanto più lo comprende. È l’intrico delle relazioni tra corpo e spazio che rende lo spazio conoscibile e trasformabile”); perché non riesce a misurarsi con le forme molecolari, sconnesse, micro della sovranità e del conflitto (la sovranità e la capacità di decidere sottratta ai singoli si esprime in piccole “bolle”, azioni ristrette che ogni volta  appaiono (o si credono) risolutive anche sul piano “locale” e che invece risulta soddisfacente sul piano dell’ego.
Il rapporto tra familiarità ed estraneità, tra corpi e spazio e tra sovranità e conflitto sono descritti come fondamentali per avere una rappresentazione e una interpretazione sufficientemente realistica della condizione urbana oggi. Senza questa consapevolezza il progetto assume connotati “evasivi, consolatorie o ideologici”. 
Mi pare di poter condividere, per quello che vale, questa impostazione, tuttavia mi pare necessario anche cercare la “radice” di questa situazione.  Il rapporto familiare/estraneo, corpo/spazio, sovranità/conflitto, nel testo analizzati in dettaglio e con ricchissimi riferimenti, non sono, secondo il mio parere, caratterizzati da una soggettività libera, indipendente e priva di condizionamenti. Non si tratta di riportare in auge quelle che vengono definite “vecchie ideologie” (o più modernamente “narrazioni”), ma neanche dimenticare le loro lezioni fondamentali. Non sostengo che uomini e donne siano delle marionette le cui parole, passi, movimenti e azioni, non siano espressione di una propria volontà, ma non posso non pensare che esistono interessi specifici, che esiste una più o meno vasta egemonia culturale, che esistono debolezze (economiche, sociali e culturali) dei singoli, e che il manifestarsi dei modi nei quali le tre precedenti relazioni si manifestano (in concreto) costituiscono molto spesso dei costrutti sociali. Per esempio, la concezione che, in generale, si ha dell’estraneo e della sua relazione con la familiarità non è pensabile che come esito di un costrutto sociale (e politico), che magari “usa” l’estraneità per altri fini.  Trovare queste radici non costituisce la soluzione, ma rappresenta la possibilità di una concettualizzazione ricca che può permettere una riconoscibilità dei processi in atto e indicare, così, come si possa intervenire in modo (parzialmente) risolutivo, senza coartare l’individualità, ma al contrario permettendogli di esprimersi al meglio in un contesto di convivenza e di maggiore libertà.
L’autrice sottopone ad acume critico il manifestarsi, dentro il neo-liberismo, di quello che possiamo chiamare il nuovo vocabolario della condizione urbana e dei modi come si esprime la “costruzione” della città. È apprezzabile che l’autrice anche adoperando la sua fine critica cerchi, tuttavia, di salvare, per così dire, elementi positivi che da queste nuove pratiche possono derivare. Per quanto mi riguarda mi sembra troppo generosa e ottimista.
Per esempio è messa in luce come l’abitare è sempre più segnato da nuove virtù: cooperazione, e condivisone danno luogo a nuovi spazi.  A Bianchetti il “vicinato” non sembra un’alternativa alla metropoli, piuttosto la riproposizione di una famigli, ma guarda a questi episodi con interesse perché li intrepreta come “ribaltamento di valori e gerarchie della città moderna”.
Così come lo stare entre nous “mette in scena una provocazione quella di una nuova urbanità che avviene fuori dalla polis”; anche se in queste esperienze riconosce folklore, vanità e leggerezza , crede che finiscano per “assumere un carattere politico” uno scandalo rispetto all’abitare della città moderna. Ma trattandosi di episodi molto parziali, meriterebbe una riflessione e delle analisi circa la relazione (funzionale?) che si determinano tra il “vivere tra di noi” e i modi dell’esistenza della città moderna che non viene vanificata da questi episodi. Forse esiste una relazione di funzionalità tra queste forme e il meccanismo economico che governa la città moderna (detto in modo sintetico e un po’ grossolano, non si tratta forse di uno “scaricare” su individui e famiglie la soluzione di problemi ai quali il Pubblico non sa dare risposte concrete?)
Una lunga citazione permette di mettere in chiaro il pensiero dell’autrice e esprime il nocciolo teorico e programmatico del testo: “Rimango convinta che un ripensamento dell’urbanistica, dei suoi temi, dei suoi progetti possa molto avvantaggiarsi dalla riflessione sulla tensione tra individualismo e condivisione; tra felicità privata e aggressività; tra chiusura in sé stessi e bon voisinage; tra sostegni burocratici dello Stato e protezione sociale ravvicinata, tra welfare tradizionale e welfare fondato sull’impegno volontario, l’altruismo, il dono; tra paternalismo del pubblico e neo-paternalismo della condivisione; tra i giochi stretti della Self Building City e quelli larghi del progetto abitativo contemporaneo. … Ciò che essi mettono in evidenza è a livello micro il perpetuarsi di alcune grandi questioni con le quali l’urbanistica si è misurata nel Moderno… Questi giochi, come già detto, non sono innocui. E sul piano spaziale hanno importanti conseguenze poiché perpetuano asimmetrie, differenziali di proprietà, di accessibilità, di diritto.”    
Quella che emerge è una concezione tutta politica dell’urbanista, una modalità di intervento che pur avendo come oggetto principale l’organizzazione dello spazio non dimentica che questa spazio è occupato e usato da donne e uomini, con le loro preferenze e con i condizionamenti delle loro azioni derivanti da collocazione sociale, economica e culturale, e ancora che in questa fase storica tende a prevalere un individualismo che si traduce in progetti e realizzazioni non omologhi. Non so se l’autrice condivide completamente l’opinione che oggi più di ieri l’urbanistica non consista nell’applicazione di modelli, più o meno perfetti, quanto sul governo delle trasformazioni. Solo in questo modo l’organizzazione spaziale (e quella sociale) possono sfuggire all’occasionalità e contraddittorietà dei comportamenti e dei progetti di vita. Se democrazia, trasparenza, equità, solidarietà e convivenza fossero le guide di tale governo allora le emergenze e le novità di cui questo libro si occupa potrebbero non affermare una sorta di anarchia autarchica, ma la consapevolezza di contribuire a fare società, con le sue contraddizioni ma anche con le sue ricchezze.
Il testo della Cristina Bianchetti, di cui ho cercato di dare conto, a me pare un contributo importante per ragionare sulla “fase” attuale (sociale, economica, culturale e urbanistica) e sulle possibili vie di uscite.
La lettura di un testo non prescinde dalle idee del lettore, sebbene non facilissimo ho goduto di questa lettura per le assonanze che mi è sembrato di cogliere. Soprattutto c’è un aspetto che mi è sembrato rilevante, forse l’ho già detto ma voglia ripeterlo, colpisce l’attenzione dell’autrice nell’esame i singoli aspetti in cui si manifesta nella città e nel territorio il neoliberismo, né ha anche analizzato teoria e filosofia, ma ha mostrato una indipendenza e un acume critico di grande valenza senza farsi trascinare e traviare, se posso permettermi, dalle novità (che pur esercitano un grosso fascino su molti ricercatori). Un gran bel libro.