giovedì 19 febbraio 2015

La “buona università”, ma che non sia un inganno

Diario n. 282

La “buona università”, ma che non sia un inganno

In pompa magna, scende in campo anche il Presidente del consiglio, Matteo Renzi, con le semplificazioni che gli sono tipiche, si sta lanciando un’ennesima riforma dell’Università, denomina la “buona università”. Per essere “buona l’università” deve prima di tutto essere equa, lo è la nostra università? Lo sarà in futuro? C’è fortemente da dubitarne.
Intanto la definizione di atenei di serie A e atenei di serie B non rende giustizia della situazione ma rende conto della superficialità con cui si giudica una istituzione assolutamente indispensabile per la crescita civile, sociale, culturale ed economica del paese. Tutti gli atenei sono dello stesso livello? ma neanche per sogno, tutti gli atenei sono gestiti con accortezza e intelligenza? neanche per sogno. Ma un ministero, e un ministro, o chiunque mette mano alla riforma non dovrebbe soltanto assumere lo stato di fatto, ma dovrebbe indagare anche sulle ragioni di questa sperequazioni. La procedura che invece si adotta è l’esatto contrario di quello che si dovrebbe fare, si assume lo stato di fatto e si penalizzano gli atenei che hanno minore performance (si dice così, ormai) dando loro minori risorse, cioè condannando questi atenei su un piano inclinato di continuo peggioramento.
Una valutazione che avesse un minimo di senso dovrebbe tenere conto:
-         del contesto: non tutti gli atenei si collocano in contesti uguali. Per fare un banale esempio non si possono giudicare omogenee due facoltà di economia una collocata in una città/regione ricca di attività industriale, di attività bancarie e finanziarie, che da questo contesto riceve sollecitazioni, risorse (non solo per la ricerca ma anche per i servizi) e con le quali si costruiscono prospettive, con una uguale facoltà collocata in una città/regione priva di questo tessuto. Si intende dire che in un paese gravato da differenze spaziali gravi e profonde, che non tendono a diminuire ma ad aumentare, non si possono giudicare come omogenei gli atenei, ma la considerazione del contesto non può non essere un elemento di valutazione;
-         certo gli elementi di contesto non possono, tuttavia, nascondere gestioni inefficienti e inefficaci; quella della specifica gestione e l’altro elemento di cui tenere conto. Qui la mano del Ministero deve essere pesante: un attenta analisi dell’organizzazione, dei servizi, del bilancio dovrebbe essere la premessa per interventi di “raccomandazione”, “suggerimenti” fino al commissariamento della gestione. Non si capisce perché in certi casi interviene la magistratura ma non il ministero.
In sostanza la valutazione attenta e puntuale deve costituire premessa per cercare di rendere omogenei le condizioni di studio degli studenti e di didattica e di ricerca dei professori. L’omogeneità come obiettivo ha il senso e significato di affermare un principio di equità.
Se prendessimo come parametro il “diritto allo studio”, e se pensassimo a questo diritto non solo come “borse” e “tasse”, ma come servizi l’evidenza della sperequazione salterebbe agli occhi anche di un ministro.
Le cose si complicano, ma la semplificazione non sempre è buona consigliera, se guardassimo all'interno del singolo ateneo. Un Ateneo è una struttura complessa: dipartimenti, corsi di studio, laboratori, ecc. tutti allo stesso livello? Ma non facciamola difficile è certo che una valutazione non può non considerare l’articolazione interna di ogni ateneo.
La questione dei docenti è, ovviamente, un capitolo a parte. Che ci sia del familismo (in questo i medici detengono la palma del primato, senza generalizzare), è vero, che ci siano docenti che considerano i doveri accademici come marginali, è vero, che ci siano dei docenti immeritevoli di insegnare è vero, ma al contempo ci sono docenti bravi e bravissimi, coscienziosi e impegnati, ligi agli impegni, autonomi e non familisti non  solo è vero ma riguarda la maggior parte del corpo accademico. Per correggere le storture il ministero si è di volta in volta inventato strumenti inefficaci. L’ultimo di questi è l’idoneità nazionale. Come dimostrano i ricorsi, i giudizi negativi di gruppi di studiosi di livello internazionale e l’insoddisfazione generale quella dell’idoneità nazionale è stata una iattura. Decine e in alcuni casi centinaia di concorrenti, miglia di pagine di libri e articoli da leggere e giudicare, non poteva che dare gli esiti accertati. Quasi tutti cavalieri e i discriminati spesso senza motivo e ragione. Inoltre il fallimento totale della motivazione di fondo dell’idoneità nazionale: evitare la gemmazione interna tipica dei concorsi di sede. In realtà tutte le facoltà, sulla base della disponibilità  dei “punti organico”, hanno chiamato esclusivamente i candidati di sede risultati idonei.  
Ogni ministro ha cercato di dare un proprio contributo per disarticolare il corpo docente, intanto l’introduzione del tempo pieno e parziale, con le successive deroghe, e infine con l’invenzione del ricercatore a tempo determinato e i punti organici. La soluzione se si volessero eliminare le stortura attuali (e future) è una sola, il docente unico diviso in fasce (5 o quanto si vuole) non con tutela crescente, la tutela deve essere identica, ma con responsabilità crescente. Adozione di un concorso di entrata, per singolo posto, del tipo di quello originale del ricercatore (due compiti scritti, anonimi, una valutazione dei titoli e della carriera, un orale), con una commissione di tre membri sorteggiata di cui uno straniero; quindi verifica di ruolo singolo, dopo non meno di tre anni a richiesta del docente o dopo cinque anni obbligatorio, da parte di una commissione sorteggiata di tre membri di cui uno straniero (diversa da quella di valutazione del concorso di entrata). Il giudizio positivo permette il passaggio alla fascia successiva, un giudizio negativo rimanda ad una nuova verifica, nel triennio successivo, e se ancora negativa il passaggio ad altra amministrazione pubblica. Questo a valere per tutte la fasce. Questa sarebbe una vera rivoluzione, e soprattutto mette fine alla faccenda dei punti organici, ma permette una programmazione di lungo periodo.
Non si vuole, oltre quanto detto, nascondere errori, mal governo, mancanza di idee e di iniziativa degli atenei (cioè dei corpi docenti relativi). Una cattiva interpretazione e applicazione del 3 e 2 (e non 3+2); l’invenzione di corsi di studi cervellotici; una gestione del personale discutibile, ecc. Solo degli atenei così detti di fascia B? non credo, anche quelli di fascia A non sono privi di errori e di altre magagne. La mancata specializzazione, ovviamente parziale, dei singoli atenei è anche figlia dell’assenza di un effettivo diritto allo studio: la specializzazione presupporrebbe una mobilità degli studenti, oggi in sostanza ammessa solo per le fasce ricche degli studenti e negata a tutti gli altri.
In sostanza qualsiasi riforma per l’università buona non può che fondarsi sul principio di equità e su una prospettiva che collochi l’università nell'ambito della crescita della popolazione del paese. Se così non fosse in termini chiari ed espliciti saremmo di fronte ad un ennesimo inganno. 




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