martedì 3 novembre 2015

Privatizzazione del patrimonio culturale

Tommaso Montanari, Privati del patrimonio, pp. 166, 12 euro, Einaudi, Torino, 2015.
Francesco Indovina
ASUR (?)
L’Italia, come è noto, è depositaria di un enorme patrimonio storico e artistico, di questo ci si pavoneggia,  anche se il merito della presente generazione è nullo, mentre a questa  generazione resta il compito di conservarlo, tutelarlo, e farlo rendere culturalmente. Lo fa? Ci sono forti dubbi.
Tommaso Montanari, in questo suo libro, molto documentato, scritto con una verve polemica accattivante, indaga su come questo patrimonio sia gestito e  sulla perniciosa idea,  che prevale ed è prevalsa all’interno di tutti i governi, che si tratta di una ricca risorsa che deve essere sfruttata. Non abbiamo petrolio ma  il patrimonio storico e culturale ne fa le veci. Il ministro Dario Franceschini, citandone uno per tutti, ha detto “Penso che il ministero della Cultura sia in Italia come quello del petrolio in un Paese arabo”. Si tratta dell’attuale ministro della cultura, non dimentichiamolo.
Quale è il corollario di questa posizione: lo stato non ha risorse per rendere produttivo questo patrimonio, per farlo rendere bisogna coinvolgersi ai privati. La loro capacità manageriale potrà far rendere questo nostro “giacimento”, solo questa collaborazione ne permetterà lo sfruttamento. Il testo di Montanari è una puntuale denunzia degli effetti di questa mentalità e dell’ingresso dei privati nella gestione di questo patrimonio. E non si tratta di una posizione ideologica, vetero statalista si potrebbe dire, ma di una ragionata documentazione che mostra come l’entrata dei privati, nelle diverse forme, da una parte svilisce il contenuto culturale e formativo di questo patrimonio e dall’altra parte rende solo ai … privati.
Il primo passo di questo processo che ora pare inarrestabile, e che bisognerà arrestare, è stato compiuto quando era ministro della cultura Ronchey che con la legge che porta il suo nome rese affidabili ai privati i così detti “servizi aggiuntive”, ma la spallata decisiva è stata “sferrata da un insospettabile tecnico: il sopraintendente Paolucci, divenuto ministro per i beni culturali del governo di Lamberto Dini” che allargò le concessioni anche ai servizi non aggiuntivi (accoglienza, informazione, guida e assistenza didattica e di fornitura di sussidi catalografici, audio visivi ed informatici, fino alla biglietteria e all'organizzazione delle mostre). “Per avere un’idea delle conseguenze del passo compiuto da Paolucci basti notare che nel 2010 su 46.209.838,83 euro incassati attraverso i servizi gestiti dai privati, a questi ultimi sono andati 40.015.164,17 euro,  allo Stato 6.194.674,66”.
Montanari mette bene in evidenza che attraverso mecenati e sponsor, concessioni, fondazioni, consorzi, ecc., lo Stato (cioè, noi, scrive l’autore) rinunzia a gestire a beneficio di tutti questo patrimonio mentre ne favorisce lo sfruttamento da parte di  pochi. È proprio l’idea del giacimento che si afferma: il giacimento, in forme diverse viene consegnato ad un privato che lo sfrutta come una miniera d’oro. Ma solo se c’è l’oro. Antonio Catricalà, garante della concorrenza e del mercato, ha scritto in un suo rapporto al Parlamento “Che una diretta gestione pubblica potrebbe essere giustificata soltanto qualora si intenda rendere usufruibile un determinato sito culturale che non sia rilevante sotto il profilo economico (ciò può accadere, ad esempio, nei casi in cui vi sia una scarsa affluenza del pubblico)”. Sconvolgente: la gestione pubblica invece di essere la regola può essere “solo giustificata”, quando ci sono pochi visitatori, altrimenti deve essere assegnata ai privati. La miniera deve avere l’oro e questo deve andare ai privati, se la sua gestione è in perdita allora dobbiamo pagare noi (cioè lo Stato).  
Ma non basta questo, il problema non è solo economico, ma è soprattutto culturale. L’autore fa molte esempi ma quello più vistosamente evidente è il settore delle mostre: prive di qualità culturale, utilizzando la cessione del patrimonio pubblico (con accordi anche di lungo periodo), si mettono in piedi mostre “eventi”, che squalificano le stesse opere mostrate. I casi che vengono messi in carta sono molteplici ma uno vale la pena di essere citato in ordine al suo contenuto culturale, o per meglio dire al degrado culturale e alla mercificazione estrema e banale delle opere,  ci si riferisce alla mostra: Tuthankamon, Caravaggio, Van Gogh. La sera e i notturni dagli Egizi al Novecento.  
E che dire dei monumenti ceduti come location: il Salone dei Cinquecento per una sfilata di moda; lo stilista Stefano Ricci che fa correre una tribù di Masai nei corridoi degli Uffizi per presentare una sfilata di moda neocoloniale (neanche    ); il cortile dell’Ammannati in Palazzo Pitti travestito in una pagoda  per il matrimonio di un magnate indiano; Ponte Vecchio per la festa della Ferrari, ecc. L’autore osserva: “Non si tratta di una scala solo materiale: l’alienazione e anche alienazione psicologica, morale, spirituale, sociale. Quanto modifica la nostra vita e la nostra democrazia l’abitudine a noleggiare, affittare, privatizzare pro tempore i luoghi più simbolici e parlanti del nostro patrimonio culturale?”. Ma anche la città diventa oggetto da sfruttare: Debora Serracchiani, presidente della regione nonché, ai noi, potente vicesegretario del PD, impone un accordo a ministro della cultura secondo il quale le attività e le strutture temporanee “allestite in luoghi monumentali”  non sono assoggettabili al parere della Soprintendenza, “al fine di accogliere le esigenze manifestate dalle categorie economiche”.    
Montanari ha un’altra idea, il suo riferimento è la Costituzione dalla quale si ricava che “il patrimonio appartiene ad ogni cittadino – di oggi o di domani, nato o immigrato in Italia – a titolo di sovranità, una sovranità che proprio il patrimonio rende visibile ed esercitabile”. Ed ancora: “il patrimonio culturale non può essere messo al servizio del denaro perché è un luogo dei diritti fondamentali della persona. E perché deve produrre cittadini: non clienti, spettatori o sudditi”.  In sostanza nell’idea dell’autore il “patrimonio” non solo è un bene collettivo che non può essere ceduto per essere sfruttato, ma deve essere utilizzato per la costruzione di una cittadinanza consapevole. Esso non può che essere gestito dallo Stato, esso non può che essere gestito con professionalità, esso non può che essere oggetto di ricerca, esso non può che essere messo a disposizione dei cittadini, esso deve essere la base per operazioni culturali.
Ma i privati devono essere tenuti fuori? Non è questa l’opinione dell’autore, devono essere tenuti fuori gli sfruttatori di questo patrimonio, esso deve rendere cultura e non soldi (neanche per lo Stato). Si tratta di un patrimonio di tutti e per tutti e allora, argomenta, tutti possono contribuire alla sua conservazione e valorizzazione culturale. Egli fa riferimento alla “donazione volontari” che in molti paesi ha dato risultati sorprendenti, raccogliendo piccole e grandi donazioni. Attraverso queste donazioni, per esempio, “la National Gallery di Londra e la National Gallery di Edimburgo hanno raccolto 7,4 milioni di sterline per arrivare ai 50 milioni necessari per acquistare un capolavoro di Tiziano; nel 2010 settemila donatori hanno permesso al Louvre di acquistare le Tre Grazie di Lucas Cranach; il restauro della Nike di Samotracia è stato sostenuto con un milione di euro attraverso 6700 donazioni”. Anche la “concessione” può essere virtualmente utilizzata “il punto veramente innovativo non è affidare la concessione ad un soggetto non profit, ma scegliere un soggetto in base alla sua capacità di fare ricerca e di farla non privatamente ma in stretta connessione con l’università e organi di tutela”.
Quello che teme Montanari, e noi con lui, è la completa mercificazione del nostro patrimonio (che si può anche vendere per sanare i bilanci comunali, come proposto dal sindaco di Venezia): “E credo che questo sia il punto: quando si arriva a non distinguere più un centro commerciale da un museo va ancora tutto bene o abbiamo un problema? E il problema non è la presunta desacralizzazione dell’arte, il problema è il tipo di società che stiamo costruendo: la mercificazione non fa male alle opere d’arte che ci guardano impassibili e possono permettersi di attendere tempi più umani. No, la mercificazione del patrimonio culturale fa male a noi: che passiamo veloci e non possiamo attendere quei tempi. Perché ci toglie un altro spazio di libertà dal mercato, una rara palestra di virtù civile e di umanità gratuita. Ci toglie uno dei pochi autentici spazi pubblici”.
Questo libro meriterebbe di essere testo di formazione sia per educazione civile che per storia dell’arte, ma non pare che siano discipline che godano attenzione nei nostri ministeri. Mi sento comunque di raccomandarlo, non sia assunto come una lamentazione, ma piuttosto come una documentate denunzia di una deriva che chiama sia la responsabilità collettiva che quella individuale.  Non si può che essere grati all'autore di averci fatto toccare con mano la nostra distrazione, ogni tanti ci “indigniamo” per i casi più eclatanti, ma nello stesso tempo la politica dell’impoverimento della cultura e del patrimonio galoppa nell'indifferenza più che nell'attenzione. E la distrazione e tale che niente ci meraviglia, al contrario siamo portati ad accogliere positivamente tutto quello che Montanari denunzia. La mercificazione del patrimonio culturale fa male a noi, in realtà a già fatto male, ci ha reso ciechi, e stupidi. Forse dovremmo reagire.  


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