lunedì 16 novembre 2015

L’URBANISTICA DI FRONTE ALLA FRAGILITÀ DEL TERRITORIO

L’URBANISTICA DI FRONTE ALLA FRAGILITÀ DEL TERRITORIO
Francesco Indovina

da Ecoscienza, n. 3, 2015, ARPA Emilia-Romagna


La fragilità del territorio, il suo dissesto, smottamenti, frane ecc. trovano sempre un responsabile nell'urbanista, o meglio ancora nell'urbanistica. Certo sono stati prodotti dei piani inadeguati, sbagliati e che si opponevano poco o niente alla speculazione, ma il problema non è questo, non si tratta del fallimento dell’urbanistica, ma piuttosto della sua sconfitta. Contro l’urbanistica ha vinto l’opportunismo della politica (locale e nazionale), la voracità del settore edilizio e delle opere pubbliche, la speculazione, la convinzione diffusa che si poteva costruire ovunque, contro ogni ragionevolezza, in una situazione in cui il bisogno di una casa ha finito per giustificare l’irresponsabilità costruttiva (ci ricordiamo della teoria dell’abusivismo di necessità?). Detto questo, la situazione non cambia, non solo, ma nuove situazioni pongono problemi nuovi e più gravosi sul piano della formazione, della disciplina, del pensiero urbanistico.
I cambiamenti climatici, per esempio, con il moltiplicarsi di “eventi estremi”, pongono nuovi problemi che si sommano a quelli precedenti, ma la cui attenzione mi sembra scarsa. A questo proposito vorrei segnalare come mi pare ci si muova in modo assolutamente inadeguato, come se fossimo cinquanta anni fa e si fanno le cose che bisognava fare allora, e che non sono state fatte, e che ora forse sono “dannose”. Ma pare, per esempio, che l’attenzione al moltiplicare del verde urbano, che ha moltissime giustificazioni, non tenga conto della situazione nuova: quale sia l’effetto di tale diffusione in presenza, per esempio, delle così dette “bombe d’acqua” o delle più tradizionali alluvioni. Non sto prendendo posizione contro il verde urbano, ma sottolineo che questo oggi, in qualche modo che non so, deve tenere conto della nuova situazione. Che sia necessario un atteggiamento di adattamento, mi sembra inevitabile, e questo non vuol dire accettare lo stato di fatto, ma richiede che la ragione prenda coscienza del cambiamento e cerchi di adeguare gli strumenti per evitare danni maggiori.
A me pare che sia da sottolineare sia la fragilità delle città che quella del territorio, che le due questioni siano intrecciate è forse vero, ma ciò non toglie che si tratta di questioni diverse che hanno bisogno di tipologie d’intervento diverse; ma ancora, dire fragilità delle città è una generalizzazione che non convince, anche se le “voragini” che si aprono nelle strade urbane sono abbastanza comuni. Così come dire fragilità del territorio è diverso se riferito a un territorio di collina e montagna o a un territorio marino, non perché l’uno sia meno fragile dell’altro, tutt’altro, ma perché diverse sono le necessità d’intervento. Gli urbanisti non possono pensare che un’attenta politica delle “destinazioni d’uso” dei suoli sia la soluzione dei nostri problemi, né, ancora, che la riduzione del consumo di suolo, la difesa del paesaggio e il privilegio accordato alle piccole opere, nobili e importanti propositi, siano risolutive della situazione. Diciamolo con molto chiarezza: c’è un futuro che deve essere governato con sagacia e intelligenza, ma c’è anche un passato che deve essere risanato, messo in sicurezza, reso “amico”, e per fare questo c’è molto da fare. Diciamolo con tranquillità e con la coscienza consapevole, il risanamento del nostro territorio e delle nostre città costituisce il New Deal del nostro paese e della nostra epoca. Si tratta di fare minuta manutenzione, ma anche opere grandi (non “grandi opere”), si tratta di mettere in moto progetti di ingegneria ambientale e urbana. So che ai miei colleghi urbanisti, al solo sentire parlare di ingegneria ambientale si rizzano i capelli in testa, ma anche di questo si tratta. Non bastano i pannicelli caldi, una filosofia di adattamento vuole e pretende anche opere grandi, richiede l’intelligenza degli ingegneri, richiede di mettere mano a nuove idee. Della preparazione dell’urbanista non deve cambiare niente e deve cambiare molto. Non deve cambiare il formarsi come tecnico dell’organizzazione del territorio, oggi per il futuro, e che attraverso tale organizzazione si pone obiettivi di efficienza e di efficacia circa il funzionamento della città, fornire il proprio contributo, proprio attraverso l’organizzazione dello spazio, a obiettivi di equità sociale, combattendo  contro tendenze all'emarginazione e alla discriminazione, avendo piena consapevolezza che le scelte urbanistiche sono “scelte politiche” e che l’assistenza tecnica per la realizzazione di questi obiettivi non può essere un atteggiamento anodino. Forte deve essere la coscienza che il territorio è un bene sociale e collettivo, che molti partecipano alla sua formazione e organizzazione, ma questa deve seguire l’interesse collettivo. Alla formazione di tale tecnico, le nostre scuole di urbanistica, per quanto lo permettano istituzioni inadeguate, contribuiscono non solo con gli insegnamenti tecnici propri della disciplina, ma arricchendo la formazione dell’urbanista con economia, diritto, sociologia, matematica, storia, antropologia, statistica, ecologia ecc. Tutti strumenti per formare un’intelligenza in grado di leggere una città e interpretarne le dinamiche. Negli ultimi anni le discipline ambientali hanno trovato maggior spazio, ed è stata una cosa buona, ma è stato male che questo allargamento spesso sia avvenuto a scapito delle discipline sociali. Deve cambiare un certo atteggiamento nei riguardi della realizzazione del piano o dell’intervento urbanistico. Se da tempo è diventato senso comune che la gestione del piano (attraverso accorte politiche) è parte integrante del processo di pianificazione, sia il piano che la sua gestione hanno oggi bisogno di una impostazione fondata su un atteggiamento adattativo e che punto di riferimento per ogni intervento non possa essere ormai che l’area vasta, non solo perché sempre più (nel nostro paese con enorme ritardo) la gestione tende a competere a istituzioni (fisse o variabili) di area vasta, ma anche perché i processi a cui si è fatto riferimento all’inizio non sono governabili se non a livello di area vasta.
Un atteggiamento adattativo ha due corollari: da una parte vedere l’urbanistica come lo strumento nel suo campo di governo delle trasformazioni, che ovviamente non significa “amministrazione” delle trasformazioni, ma piuttosto governo delle forze della trasformazione verso obiettivi noti, trasparenti e significativi sul piano degli esiti. Ma, dall’altra parte, avere netta coscienza che il “futuro” non si realizza automaticamente da buoni obiettivi, ma che le incertezze e i rischi di tale futuro devono essere indagati e ove possibile contrastati. Ma per questa operazione non bastano né “danze della pioggia”, né esorcismi, né idiosincrasie sulle necessarie modifiche di assetto dello spazio. È in questa dimensione che si intrecciano relazioni fruttuose tra l’urbanistica e l’ingegneria ambientale e ingegneria del territorio, relazioni che non si possono immaginare sempre pacifiche, ma che si devono imporre come razionali e trasparenti. Le paure e i timori per i mutamenti per gli assetti del territorio devono costituire un chiaro stimolo per moltiplicare l’attenzione. Un laico atteggiamento è l’unica speranza di salvezza (in questo e in tutti gli altri campi). Sia gli urbanisti che gli ingegneri ambientali (in senso lato) durante la loro formazione devono fare esperienze in comune, partecipare insieme a progetti, misurarsi, prima di avere acquisito la “patente” di tecnico nel capirsi vicendevolmente.

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