lunedì 25 novembre 2013

Retoriche, ma non bastano



Diario 234



Retoriche, ma non bastano




Non appena nel nostro paese un avvenimento catastrofico, atmosferico o di altra natura, produce vittime e danni, ecco che, a torto o a ragione, le retoriche, sempre uguali a se stesse, ci condiscono la vita. Così è avvenuto dopo l’ultimo disastro in Sardegna. 

La prima è un atto d’accusa, formulato in modo più o meno generica, che ci richiama alle colpe e responsabilità “umane”, e nel caso specifico degli italiani, non meglio definiti se no per il loro vincolo di sangue/terra, e per la “casta” politica (come se questa vivesse in un vuoto sociale). Non si tratta di entità astratte ma di un clima sociale e politico che ha permesso che si realizzassero le condizioni di base per di ogni disastro (cementificazione, seconde case, regimentazione dei fiumi, ecc.).

La seconda è il rimedio: manutenzione del territorio, piccole opere, rilancio di professionalità artigiane e tradizionali, ritorno all’agricoltura.

In ultima l’esaltazione delle grandi possibilità del nostro paese: le sue bellezze, il suo ambiente, la sua qualità storica-artistica, il suo paesaggio, i suoi prodotti della tradizione, e chi più ne ha più ne mette. La loro valorizzazione potrebbe farci ricchi e felici (tutti?). 

Ogni retorica, come è noto, non è completamente campata in aria, pesca nella realtà in modo parziale. 

È certo, per esempio, che c’è una responsabilità degli italiani, ma quale? la smania per la seconda casa, rimanda a modelli culturali e sociali; avere supportati partiti e personalità assolutamente inadeguati a governare il paese, affascinati da imbonitori più o meno “onesti”, ci parla della fuga dalla responsabilità suggerita (un uomo al comando). Infondo l’idea forte era, di fatto, un semplice slogan “arricchitevi” (le tasse ingiuste, ecc.), per questo obiettivo si è sacrificato onore, gusto, cultura. Ma se questo era l’obiettivo allora l’attività dei corruttori e dei corrotti aveva una finalità condivisa; la mano libera agli speculatori era un mezzo. Anche la criminalità organizzata, svolge la sua parte: si tratta di “attività produttiva” che dà da mangiare e il superfluo ad un “esercito”; parte dell’“industria” italiana, a proprio beneficio, alla criminalità organizzata, “branca produttiva e sociale”, si affida per i suoi smaltimenti. Non è una colpa rifiutarsi di continuare a fare l’agricoltore o il contadino, attività povere e faticose. Un paese che si è glorificato di una organizzazione produttiva senza guida e autodeterminata, chiudendo gli occhi sui disastri sociali e ambientali che tali attività determinavano, ha costruito le condizioni del suo disastro, non solo ambientale. Le “condizioni generali” determinavano una finto pranzo di gala con tutti invitati, mentre latitavano scelte industriali adeguate e innovative, i modelli imprenditoriali (nella piccola e nella grande impresa) presentavano un tanfo feudale (nonostante le importanti lotte sindacali, giudicate appartenere al secolo scorso). Il mancato sviluppo ha determinato una situazioni per cui non poche fonti di sostentamento risultavano inquinate, in senso specifico, in senso sociale, in senso illegale fino a criminale.

Ed ecco è la volta delle “grandi opere” da criticare. Certo che se ne sono fatte di inutili e anche dannose, ma molto spesso la loro inutilità riguarda il non averle portate a termine, mentre potevano essere efficaci per migliorare le condizioni di vita delle popolazioni implicate. Il paese ha bisogno di “opere grandi” (non di grandi opere): la manutenzione del territorio non può non essere un “opera grande”, per le risorse da impiegare, per le tecnologie innovative da usare, per il recupero di antiche professionalità scomparse ma da aggiornare. Il recupero del “sapere” tradizionale, non va messo in opposizione e in alternativa al sapere scientifico. Non la ripetizione ci salverà ma l’innovazione.

Il rigetto di ogni innovazione tecnologica e scientifica che sembra attraversare tutta la nostra società, appare pericoloso e insensato; sicuramente ci vuole criterio, ci vuole attenzione, ci vuole conoscenza, e quant’altro, ma se il paese vuole andare avanti dobbiamo guardare criticamente ma consapevolmente all’innovazione, alla scienza, anzi proprio questa dovrebbe essere la nostra opzione e il nostro orizzonte. La “scienza” (antica e moderna) ha costituito un avanzamento importantissimo per la specie umana. I disastri ci parlano del futuro e non del passato, non si tratta di fare passi indietro, ma di fare i giusti passi in avanti. 

I rimedi e la sottolineatura delle grandi possibilità del nostro paese sono delle forzature, spesso pericolose e di fatto inconcludenti, ma soprattutto indifferenti agli effetti che certe scelte possono determinare.

Pensare al nostro paese come il “paradiso perduto” da riconquistare, l’Eden da “valorizzare” (ecco il termine scandaloso) non porta molto lontano. Il patrimonio storico e culturale va curato, manutenuto, preservato, prima di tutto per la nostra cultura, non per farne una merce e un prodotto da marketing. Se si volesse il “ritorno” alla campagna, bisogna sapere che sarà un’agricoltura diversa, non quella dei nostri avi; soprattutto chi “ritorna” o si avvia per la prima volta ai campi, ha necessità e diritto di essere parte di una “metropoli”, non una metropoli di 10 o più milioni di abitanti, ma di una metropoli territoriale in grado di offrire servizi di natura e qualità metropolitana (non possiamo pensare ad un ritorno della dicotomia città/campagna). E qui il paesaggio cambia, altro tema. La specie ha guadagnato maggiori grati di libertà (le sperequazioni sono il problema); scelte individuali possono seguire desideri, convinzioni, opzioni dei singoli. Non bisogna avere avversione per chi sceglie di farsi in casa la salsa di pomodoro, o il pane, o coltiva il suo orto (urbano), ecc. ma pensare che questa sia la strada per il nostro sviluppo e per cambiare la società complessiva non è convincente. 

La retorica della valorizzazione (è sempre questo il tema) delle nostre “produzioni” alimentari e tradizionali appare insopportabile; il marketing che finisce per fare da padrone. Non è scandaloso che qualcuno con intraprendenza e capacità costruisca “catene” di negozi che valorizzano i nostri prodotti, che negozi di questa catena si aprono a New York o Pechino, ecc. si tratta di una attività commerciale, ma non sarà questa la strada del nostro sviluppo (quante famiglie e individui possono quotidianamente “fare la spesa” in queste catene?). 

L’editoria culinaria e le numerosissime trasmissioni televisive di cucina, non costituiscono una moda del momento, ma la trasmissione di un modello di vita e di società: riportare le donne al loro ruolo tradizionale: espulse dal lavoro o impossibilitate ad entrarci, ecco il ritorno ai fornelli (del resto mai abbandonati, ma oggi torna la “missione”). 

Si è, non solo l’Italia, in una temperie di trasformazione economiche che richiederebbero una guida verso grandi cambiamenti, senza di questi la speranza è poca. Cambiamenti nella struttura sociale, nella distribuzione della ricchezza, nell’articolazione del potere. In attesa che questa strada sia imboccata qualcosa si può e si deve fare: prima di tutto una politica nei riguardi del “debito sovrano”; certo una politica per l’ambiente, per il patrimonio e le città, ma anche una politica industriale, una politica per la ricerca scientifica e tecnologica, per la scuola, per lo sviluppo in un “nuovo” regime economico. 

Ma se capisco qualcosa, niente di tutto questo è all’orizzonte. Né pare convincente, forse è addirittura repellente, la prospettiva di essere uno degli Eden per una classe di ricchi sempre più ricca e leggermente allargata, che esclude la grande maggioranza della popolazione (locale e mondiale). Un'illusione reazionaria.
   

      

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