mercoledì 20 maggio 2020

Città aperte, evviva!



Diario 20  maggio 2020

Finalmente si lascia la casa per la città. Tutti contenti. La retorica continua ad avvolgerci nella sua soffice nube, essa era e continua ad essere la cifra di ogni dichiarazione, sia del così detto uomo della strada che di qualsiasi commentatore.
Lo stare chiusi in casa ci ha fatto scoprire le bellezze delle cose semplici (mangiare, giocare, cucinare, leggere, singolarmente o anche insieme). Cucchiaiate di melassa retorica, condita da sventolamento di tricolori, da canti di patriottici, l’inno nazionale fino a bella ciao, con il convincimento generale “ce la faremo” (volevo vedere il contrario). La commozione per gli eroi, ecc. ecc. Oggi la stessa retorica si applicata alla nuova situazione. Quanto ci sono mancate, ed è bello riconquistare, le piccole cose: il caffè al bar, l’incontro con l’amico, una passeggiata al parco, lo sguardo alle vetrine, ecc.
Tutte cose vere, non nego, ma proiettate in una nuvola di retorica, nell’uso di un linguaggio che doveva essere coinvolgente ed era solo stucchevole. Di vero c’era la paura che gli scienziati e anche il governo ci hanno inculcato, da cui ha dipeso il perfetto comportamento degli “italiani”. Italiani che avrebbero dovuto uscire da casa meglio di come c’erano entrati. Ma perché? Per quale miracolo?
Oggi questa paura scema e l’apertura delle città facilita un atteggiamento meno controllato (anche se il pericolo di un contagio ancora esiste). Gli uomini e le donne, di qualsiasi età,   non  mi pare risultino migliori. Si comportano come prima con di più il senso della riconquista e di un pericolo scanzato.
Ma non su questo che vorrei soffermarmi, ma piuttosto sulla città che ci troviamo davanti. Si è parlato molto, forse troppo, della necessità di un cambiamento delle città. Ho l’impressione che molti hanno fatto riferimento alla struttura fisica della città, che certo anche questa andrà modificata, ma non pare sufficiente. Se fosse vero, come io penso che sia, che la città è la rappresentazione spaziale della natura della società, appare allora chiaro che una modifica della città non può non prendere le mosse dalle modifiche della società.
Non si tratta solo di disoccupazione, è questo è un grossissimo problema, ma è fondamentale come ciascuno partecipa alla distribuzione della ricchezza prodotta, e la quota che compete   ciascuno. Certo il lavoro prima di tutto, ma se il lavoro manca? ci rispondono. Intanto possiamo dire che manca il lavoro governato dal  capitale, ma ci sarebbe una grande quantità di lavoro da fare, diciamo lavoro comunitario, per garantire una situazione migliore, una città più organizzata, meno diruppata, come direbbero Napoli. E se con il tempo necessario tutto il lavoro diventasse comunitario anche quello per la produzione delle merci non staremmo tutti meglio?
Ma quali merci? Quelle che matureranno da una coltura comune di tipo comunitario e fondata sul buon vivere di tutti. Questo può voler dire un uso intelligente e non privatistico della tecnologia, degli avanzamenti scientifici (è assurdo il dibattito che si sta avviando sulla proprietà del vaccino contro il virus).
Ma allora il vissuto urbano non sarà quello di oggi, non sto sostenendo che ogni parte della città sarà uguale ad ogni altra, i beni posizionali farebbero le differenze ineliminabili, ma la qualità della vita della popolazione in ogni parte dovrebbe essere ugualitaria. Non un’uguaglianza seriale, ma piuttosto una libertà nella differenza che non colpisca i beni e i servizi necessari.
Ma le donne e gli uomini, i ragazzi e i bambini che escono da casa nelle città aperte si portano la cultura che possedevano prima dell’epidemia. Si è ripetuto le città devono essere diverse ma ci si è dimenticati di dire che tal diversità dovrà dipendere dai comportamenti di ciascuno e dalla loro somma.   
Ci si può indignare di fronte a comportamenti irresponsabili, ma come non capire che ridotta la paura si cerca di riconquistare quello che si faceva prima?  si beveva, si correva, si giocava, si amoreggiava, si passeggiava, si urlava, si disturbava, ….
In questi mesi si è fatta scuola. Bene! Ma non si è fatta educazione. Non basta continuare ad affermare che con il virus dobbiamo convivere.
Ma se fosse necessario, torno a bomba, cambiare la città (aria pulita, meno traffico, più giustizia sociale, più uguaglianza, più qualità della vita tutti, meno povertà, ecc. ecc.) sarebbe stato necessario che i miliardi che il governo si appresta a distribuire fossero indirizzata al cambiamento e non finalizzati a quella che si chiama la ripartenza di tutto come prima. Ma invece di un’opzione politica forte si cominciano a leggere baggianate sulla necessità che il capitalismo diventi più etico, meno bramoso; ma perché, e sarebbe possibile ma forse … no.

Nessun commento:

Posta un commento